L'adolescenza è per alcuni un macigno sulla schiena.
Lentamente e a fatica si sale il pendio con addosso l'ansia di dover dare conto alle aspettative di famiglia e società. Lungo il tragitto, nel tentativo di arrivare alla cima, per economizzare le forze, si lasciano alle spalle passioni, amicizie e, il più delle volte, qualche idealuzzo. Essere se stessi è un guaio. "Panni sporchi" di Stefania Surace, per Dante & Descartes, è un bel racconto in cui una ragazza di un piccolo paesino calabrese va alla continua ricerca di sé, in un mondo dove reale e irreale si mescolano, contribuendo a rendere ancora più incerto il percorso. In sottofondo un pianoforte, un brano di Mendelssohn e una passione che scivola tra le dita. La protagonista della Surace vive di rinunce e perdite. In continuo equilibrio sulle rovine, con la sensazione di essere sempre fuori luogo. Con gli altri e con se stessi. Lavinia, l'amica dell'adolescenza, ha una vita complicata e strana, eppure più interessante. Distante dalla madre, incompresa dal padre che non sa proteggerla, né amarla, oltre le apparenze di genere, si aggira nel mondo cieca e senza appigli, come il gattino ritrovato in un cantiere mezzo abbandonato, vittima dai soprusi dei bambini di un orfanotrofio: metafora nella metafora: si procede a passi lenti, pieni di cicatrici, al buio, ancora nel bel mezzo della catastrofe. Eppure destinati, prima o poi, a trovare braccia pronte ad accoglierti. Per ciò che sei e nonostante i tuoi limiti. Stefania Surace sovrappone abilmente simboli e significati, sogni e incubi, passioni e restrizioni. Tesse il filo, stringe il nodo, restaurando la corda, rinnovando il gioco del trapezista/umanità che impara a starsene in equilibrio, tra nausea e smarrimento. Due esempi: l'abitudine di Lavinia di nascondere i propri quadri all'interno di una nicchia al cimitero, per nasconderli alla pazzia distruttrice della madre, e la microstoria onirica in cui un giardiniere insiste a trasformare un pino in un abete. La Surace è un talento puro. Sa scrivere e raccontare lo smarrimento. Universalizza un sentimento individuale e ci offre la possibilità di fare i conti col ricordo della nostra adolescenza. Consigliato a chi, coi panni sporchi, ci fa i conti da sempre, a chi li nasconde e chi ne fa un motivo di vanto. Consigliato a tutti.
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In un'epoca in cui la figura dell'autore (o, in senso ancora più largo e astratto, del creativo), viene spesso messa in dubbio, attraverso la multidimensionalità e la partecipazione attiva dello spettatore nel fatto creativo - dal televoto del talent a piattaforme come Wattpad - e c'è una continua autoriflessione sul mezzo filmico, Netflix s'inserisce nella discussione tramite la serie più metacinematografica del suo catalogo.
D'altronde, non è la prima volta che gli autori di Black Mirror affrontano il tema della narrazione e le sue molteplici deviazioni/declinazioni: il primo episodio della quarta stagione, giusto per fare un esempio, Uss Callister, è un magnifico gioco di narrazioni multiple in cui esistenze digitali, create a partire dal Dna umano, inserite in un gioco virtuale – una riproposizione parodiata di Star Trek -, e capaci di sentire emozioni vere pur non essendo reali, modificano la narrazione prima, fino a distaccarsene completamente, per inserirsi, finalmente libere dalle catene della vita reale e del videogioco, in un’altra multidimensionale. A nulla serve cercare di manipolarla e tenerla sotto controllo, tentando di inserirla in un unico solco, come accade alla madre del secondo episodio, in cui attraverso un dispositivo digitale, Arkangel, controlla, edulcora e manovra la vita della figlia: la narrazione/vita, inevitabilmente, finisce per ribellarsi e ritorcersi contro. I mondi distopici di Black Mirror riflettono continuamente sul rapporto tra uomo e tecnologia, con finali mai favorevoli ai primi e in Bandersnatch la situazione non cambia. Le novità sono però almeno due dove la seconda rende (quasi) superflua la prima:
La sensazione è che in Bandersnatch, mescolando detto e non detto, verosimile e inverosimile, è ancora solo il Narratore - o l'ideatore o la casa di produzione o tutti questi insieme, forse non più quello più propriamente benjaminiano, ma ancora riconducibile ad una qualche identità che propone una propria visione del mondo - a mettere ordine nel caos delle possibilità, concedendo allo spettatore, prendendolo anche un po' in giro,- repetita iuvant - solo l'illusione di decidere ancora. E, detto tra noi, vista l'epoca, tutto ciò mi conforta. Piove e vi chiedo scusa. A volte, sono così meteoropatico che mi convinco sia io a far piovere. Non vi dico i sensi di colpa quando venne a nevicare. Capirete quindi l'imbarazzo per l'ambiguo sentirsi la causa e l'effetto della pioggia. Però poi mi rendo conto che bisogna avere un ego troppo smisurato per esserne davvero convinto. Non vi dico però poi che orgoglio quando vidi tutti contenti per la neve. I salti di gioia proprio. Scrivo che ho le converse bagnate e le dita dei piedi fanno su e giù nel tentativo di asciugarsi. A quasi trent'anni, uno dovrebbe quanto meno portarsi i calzini di riserva in borsa, ma chi va in giro con i calzini in borsa? Mi sono sempre sentito giovane, almeno fino a quando, sbirciando tra i talenti della primavera di una qualche società di Calcio, quelli classe '90 erano buoni per essere comprati a Fifa. Investivo su di loro, me li tenevo qualche anno, il tempo di vincere qualche trofeo e poi me li rivendevo per acquistarne di più giovani. Ora, quelli classe 90' sono praticamente all'ultimo giro di boa, alla ricerca dell'ultima grande chance. Non li comprerei mai. Fortunatamente non sono un atleta professionista. Che poi è tautologico sentirsi giovani se di fatto lo si è. Sarà la convivenza, l'abitudine reiterata negli anni di farmi bastare un divano, un caffè ed un buon libro per passare del tempo, anche da solo, ma è da tempo che il corpo non regge più a serate tra locali, spritz e musica live. Alle dieci e mezza, nelle migliori delle ipotesi, sono già a letto che leggo. Altrimenti dormo da buono mezz'ora. Quando sono io a dover suonare, se non riposo il pomeriggio, crollo proprio. È che, per consentirmi delle libertà, le mie, quelle che mi sono scelto, ho riempito le ore di gabbie con gli sportelli aperti e, capirete che le grate pesano e, per passare da una gabbia all'altra, di corsa, si consuma un bel po' di energia. Capirete quindi perché quando di recente ho resistito alla doppietta “Scampagnata per il primo maggio” - finemente organizzata, da ottimo stratega quale sono, laureato in Pasquettologia applicata, con tanto di specializzazione in Sabatologia per carovane di amicizie perse nel corso degli anni, indirizzo in Diplomazie e relazioni telefoniche interprovinciali - “Napoli Bari, Bari Napoli in meno di 24 ore”, mi sono sentito come in una notte prima degli esami qualsiasi: ancora sbarbato, ingenuo ma pieno di forze. Questo per dirvi, però, che una volta ero giovane e da giovane agivo. Inutile dire che, ancora incapace di recuperare a pieno le forze, sono settimane che mi trascino come uno zombie, ma alle spalle, oltre ad una scia di pedate bagnate con un marchio converse al centro, c'è ancora quel giovane sbarbato ed ingenuo che mi spinge, mani sulle spalle, e mi invita a riposarmi a tempo debito. A missione compiuta. Se ne starebbe tranquillamente nella sua stanzetta a giocare ancora a Fifa con i suoi fratelli, lui, quello giovane, ma quello adulto coi piedi bagnati, anche se sa bene che il tempo è solo un trucco da prestigiatore che ama prenderti in giro tingendoti i capelli di bianco e piazzandoti qua e là qualche ruga e andrebbe davanti da solo, senza aiuto alcuno, va comunque accompagnato, non si sa mai. Gli sgambetti sono dietro l'angolo e una mano per rialzarsi non può fare mai male. Oh, stronzate a parte, è solo stanchezza e lo so e, soprattutto, da buon metereopoatico del cazzo, mi piace autocompiangermi. Giusto per farmi un po' di pioggerella fatta in casa da asciugare col dorso della mano aperta in posa plastica e romanzata. Non ho mai dato peso al tempo, anche se un po' di strizza viene, è innegabile. Uno sente di dover tirare le somme, quanto meno per fare un resoconto eppure, allo stesso tempo, a conti fatti, che c'è da rendicontare? Ho appena iniziato.
Di recente ho avuto modo di tastare quanto i cambiamenti apportati da Mr. Facebook siano assai infami.
Il nuovo sistema algoritmico limita, molto più di prima, la visibilità dei post delle pagine fan ( e aziendali) anche ai propri contatti perché vuole spingere gli utenti a cacciare più dindini per le inserzioni. Nulla di nuovo in realtà, solo più restrizioni. In questo modo ho scoperto che molti dei miei contatti ( chiamarli fan è un po' troppo, estimatori già va un po' meglio) non sapeva nulla o quasi di ciò che sto combinando: tipo che ho pubblicato un libricino con una piccola ma seria e ambiziosa casa editrice (La Bottega delle Parole), dal titolo "Mangiando il fegato di Bukowski a Posillipo" ( che a breve andrà in ristampa per la seconda volta) Eppure, credetemi, a parte andare ad urlarlo per strada, nudo come mamma mi ha fatto, ho davvero usato tutto a mia disposizione, dai social alla comunicazione con la stampa, oltre, ovviamente, a recensioni, presentazioni, interviste eccetera eccetera. Quindi, visto che questo blog, prima che iniziassi a trascurarlo (per mera mancanza di tempo) era piuttosto seguito e, ancora oggi, noto con piacere che, nonostante la mia latitanza, ogni settimana, il sito registra centinaia di visite, ho deciso di tornare a dargli le attenzioni che merita, con l'intenzione di spolverarlo con più frequenza ed usarlo per mettere un ponte tra me e chi vorrà attraversarlo. E soprattutto di usarlo per gridare ai quattro venti della rete (rigorosamente vestito ché la pornografia la lascio solo a qualche pagina ancora a riposo tre le lenzuola quando tengo genio di zozzerie) che è in corso la produzione dei nuovi brani per quello che sarà, con ogni probabilità, il mio secondo lavoro discografico. Grazie a Raffaele Cardone, ai suoi consigli e alla fiducia che continua a riporre nelle mie parole, infatti, sono tornato nella tana di illimitarte per dare voce e vita ai nuovi brani. Per ora abbiamo realizzato i provini dei brani, ovvero la semplice registrazione, sul metronomo, chitarra e voce, del brano così com'è, al natural. Su questo scheletro il Cardone dipingerà idee, note e bellezze. Ovviamente sarà uno di quei periodi uterini, un lunghissimo pre-mestruo in cui tutto è dubbio, tutto è timore, tutto è una mega ansia. Come una casa senza finestre che piano piano ti abbraccia con le sue pareti troppo calde e troppo premurose. E, se volete, di questo periodo, vi racconterò tutto, ma proprio tutto tutto. Senza bugie. Se volete, eh. Tanto, se tutto (vi) va bene, sui social non vedrete niente e, semmai, sarà solo colpa vostra che siete passati qui per caso, magari ingannati da qualche tag furbescamente inserito qua e là per farvi credere che qui si parli di Belen, L'Isola dei Famosi o delle emorroidi di Gianluigi Buffon. Ad ogni modo, anche se non vorrete, aggiornerò il diario, immaginandomi dieci, venti, cento, mille lettori disposti a leggere la storia di un giovane che, a ridosso dei suoi primi trentanni ( si è ancora giovani a trentanni? Al di là di ogni retorica del si "è sempre giovani quando...", quando finisce la gioventù e inizia la maturità acquisita? Ovviamente mai, sto giusto prendendo tempo per chiudere la frase con qualcosa ad effetto) si ritrova ad iniziare l'ennesimo progetto musicale. Nulla di nuovo? Avete ragione: è l'ennesima riscrittura di un canovaccio a cui, dare una semplice spolverata, potrebbe non servire per ridargli vitalità. E però non posso promettervi che, al contrario, sarò capace di incredibili ed inaudite resurrezioni. Vi ho detto però che sarò sincero e spero che questo vi basti. Almeno per ora. Al prossimo aggiornamento. Sperando di trovare la frase ad effetto. Fondamentalmente me ne passa per il cazzo. E se moriamo tutti? E lì forse qualche cazzo amaro può pure passarmene, però, bello mio, per allora saremo, per l'appunto, già belli e morti, e quindi cosa vuoi farci? Fossi in te, me la godrei un po' di più. Però, oh, mica perché due coglioni stanno lì a giocarsi la vita di miliardi di cristiani, sfidandosi a chi ce l'ha più lungo. No, il fatto è che dovresti godertela di più, a prescindere. Non lo vedi che qui si muore? "Si muore ogni giorno, dice il poeta", mi rispondi, e appunto, ecco, bravo, quindi devi godertela oggi, e pure domani e dopodomani. Stai tranquillo, tanto alla fine finisce che se la giocano a Mario Go Kart sulla Nintendo, stai a sentire a me ché quei due sono solo dei burloni. Cioè, pur volendo, cosa puoi fare? Non sei capace di mettere pace tra i condomini del tuo palazzo, per far aggiustare un umile, ma pur sempre necessario, cancello, e vuoi metterti a capire cosa faranno due dei più idioti, ma pur sempre potenti, uomini del mondo? Però, tu, goditela lo stesso la vita, ché a furia di pensare troppo al futuro, a chi sei, ciò che fai, a cosa puoi fare, ti sta venendo il mal di testa.. Su ciò che avresti potuto fare, ma non te l'hanno permesso il fato, gli amici e i raccomandati, che ti sono preterintenzionalmente contro, ci hai scritto tutto un saggio dal titolo "Avrò pure mille lauree, però come non faccio un cazzo io, nessuno mai". Ehi, ehi, sto scherzando, lo so che ti fai un mazzo così per cercare di portarti qualcosa di soldi a fine mese, lo sappiamo tutti. Che poi a fine mese non ti porti mai un cazzo ché, tra spese e imprevisti, ti sei giocato pure parte dello stipendio successivo, questo è un altro paio di maniche. Alla fine cosa può farci?
Appunto, un cazzo di niente. Testa bassa e pedalare. Oppure, com'era?, testa alta, petto in fuori e via dritto, senza mollare. Umiltà e determinazione: è in questo modo, o almeno così dicono, che si arriva dappertutto, pure a presiedere la Casa Bianca. Ecco, appunto. Su, non pensarci. Sopravvivi, tutti i giorni, alle tue giornate di merda, ora ti preoccupi se una bomba ti cade sulla testa? Dici che, a saperlo, non staresti lì a preoccuparti del futuro, al lavoro, ai soldi, allo stress, allo studio, ai crediti formativi equipollenti e alla dieta? Bugia. Lo sappiamo bene, noi due, che saresti in grado, comunque, di startene lì a lamentarti comunque di qualcosa. E non della potenziale morte imminente, ma del fatto che, di te, nessuno se ne fotte. Hai fame, apri il frigorifero ed è vuoto. Hai sete, ed hai finito acqua, birre e vino. Quella del rubinetto non è potabile, ma la bevi comunque. Tanto, stai per morire sotto gli attacchi di una bomba nucleare, cosa può farti l'acqua contaminata da chissà che merda? Ecco, stai già per arrenderti. Stai già mollando. Spegni le luci, è buio, hai sonno, sei esausto. Vai verso il tuo letto. Ma tieni la lampadina della camera da letto fulminata. Rimandi da giorni, e da giorni te ne sbatti il cazzo. Tanto, a tentoni, al buio, criptando con le dita luoghi che conosci ormai a memoria, casa tua è scrittura breille, riesci ad arrivare sul bordo de letto. Scopri le lenzuola, ti togli le scarpe, vestito, sporco di fatica e sonno, ti corichi senza coprirti ché hai caldo. Colpa della testa che ti fa male, che ti gira, che ti assilla. Moriremo tutti. Si muore ogni giorno, dice il poeta. Fanculo il poeta. Amen, fratello. Non ho sonno. Partitina a Mario Go Kart? È un bel po' che non scrivo qui sopra. Il fatto è che non ho proprio il tempo. Non è che prima ne avessi di più, ora è solo una questione di intensità degli impegni: corri di qua, corri di là e la forza per stare cinque minuti, ma diciamo anche due, a scrivere non c'è. Mi sto godendo il silenzio e la fame, le corse e i riposi. Sto masticando letture e ascolti. Accumulo esperienze e "cose". Raccolgo quanto fatto finora e cerco di mettere tutto a posto, possibilmente in ordine alfabetico, ninnoli fieri sui miei scaffali esistenziali che, lo so per certo, ho montato alla buona e meglio ma, so per certo anche questo, può tenere botta un altro po', il tempo dell'immagazzinamento: dà un senso di feticista rassicurazione osservare quanto ammassato fin qui, come quelle librerie piene piene di libri ma incomplete. La mia, per esempio, fa effetto Xanax: da un lato mi rilassa, dall'altro genera un ansioso ma piacevolissimo "c'è ancora tanto da fare/leggere", come con il malato che con/nonostante l'antidepressivo riconosce la malattia. E se ne compiace. Dicevo. Mi godo la latitanza. E la promozione di "Mangiando il fegato di Bukowski a Posillipo" che, di fratto, molto deve a questi viaggi fatti qui sopra. Questo libricino, l'idea di quattro racconti a soli 2€, è anche un ringraziamento a chi mi ha sempre letto con passione ed affetto. A voi soprattutto chiedo di sostenere questo piccolo ma ambiziosissimo progetto. Di fatto, più che latitanza, è un momentaneo trasloco su altre piattaforme. Intanto, raccolgo, mastico, metto da parte. - Avremmo dovuto comprare l'altro copriwater. - Ma non c'entrava niente con il nostro arredamento! - Ma è un copriwater! Che c'entra con l'arredamento? - Sì che c'entra. Quello che volevi prendere tu era rosso. - E quindi? - Non c'azzecca col nostro bagno. Senti, la femmina di casa sono io. In fatto di gusto, quindi, comando io. - Bene, però ora abbiamo il copriwater più piccolo della tazza. - Che c'entra? Abbiamo sbagliato le misure, ma il colore è perfetto. - Mmm. Va be'. Scesero senza dirsi altro. Lui con la sua opinione. Lei con la sua. Non è che non avesse torto, no. Solo, non lo facevano con continuità e allora lui si sentiva un po' messo a dieta. Come quando potresti, ma non puoi. Lei lo guardava come persa nel vuoto. Non come quando si è distratti o sovrappensiero. Si sentiva persa, con le mani appoggiate al vuoto, a precipizio, senza panorami. - Non è che dobbiamo sempre farlo – diceva lei. - Perché no? - rispondeva lui. Era tosta dover stare sempre lì ad elemosinare un po' di sesso. E dopotutto, era fedele, un buon compagno, sempre presente, per quanto voleva e poteva, e lo voleva spesso, tenero, simpatico, nonostante quei suoi cinque minuti al giorno di tristezza. Lei era bella, intelligente, lo teneva sempre lì, sull'ispirazione, anche quando stava col pigiamone ed i suoi calzini di spugna. Gli sembrava una cosa normale il desiderarsi. Nulla di violento, molto aveva a che fare con l'amore e quelle cose lì. Soprattutto se aveva voglia di fare l'amore, nonostante il pigiamone e i calzini di spugna. - Vedrai, ora che andremo a vivere insieme, lo faremo tutti i giorni – diceva, per giustificare i lunghi digiuni, dovuti alle distanze, alla stanchezza, gli impegni, il mestruo. Come no. Certo. - E' che mi sento oppressa. Non mi dai nemmeno il tempo di farmela venire la voglia. Forse aveva ragione, ma come fare a capire quand'è che avesse voglia? Aveva la sensazione che, se non era lui ad avvicinarsi, toccare, baciare sul collo, sondare il terreno, non l'avrebbero mai fatto. Ora, non voglio dire che il poter comprare il copriwater avrebbe potuto appianare, dentro di lui, nel profondo del suo Freud, la mancanza di sesso, assolutamente no, però almeno avrebbe potuto spuntarla su di lei, almeno una volta. E invece no. Forse è che aveva la testa da un'altra parte e, pur di ributtarla dove credeva fosse giusto rimetterla, stava facendo di tutto, pure creare stupide scaramucce per un copriwater. Sì, era caduto in un vortice. Questo vortice aveva un profumo, un paio di gambe, un paio di labbra, un paio di occhi e un taglio di capelli che di solito gli dava fastidio su una ragazza, ma a lei stava bene. Il fatto è che questo vortice aveva un altro domicilio. Lui cercava di tenersene alla larga, in fondo ci riusciva, ma la sua testa andava per conto suo. In dieci anni, sai quante altre volte gli sarà capitato? Molte, non ha mai creduto fossero troppe. Che a un uomo piaccia una, due, un miliardo di altre donne, non è che fosse una cosa strana. Alzi la mano e butti via questo racconto chi non ha mai pensato di potersele scopare tutte e che, solo perché c'è l'amore di mezzo, un chilometro di insicurezze, buon costume e tanto così di paura a coronamento del tutto, non si muove dal recinto che si è ricamato in tanti anni di progetti, abbracci e orologi rotti. Bella, lo era tanto. Molto bella. Faceva fatica a non rispondere ai suoi messaggi su whatsapp. Non mi interessa, io desidero solo stare serenamente con la mia compagna, si diceva. Eppure, intanto, gli era entrata in testa. Già scalza, a piedi nudi, se ne andava in giro per i suoi neuroni. In fondo, lui, era un uomo normale: né bello, nemmeno dotato di quel fascino che contraddistingue i non belli ma affascinanti, neanche tanto intelligente come voleva far credere, relativamente istruito, poco colto, un pene normale, più largo che lungo. Se stava a rifletterci su, a ben vedere, più che normale, lui era quel che si dice "una persona nella media". Gli piaceva giusto leggere, scrivacchiare qualche fesseria su di un quaderno e bere del vino, di sera, quando fuori fa freddo. Ah sì, era un pervertito sempre in astinenza di sesso. Erano in macchina già da un po'. I palazzi addobbati per Natale, i venditori di caldarroste, il traffico. Mancavano dieci giorni circa alla nascita di Gesù Cristo. Le aveva già preso il regalo. Il disco del suo artista preferito. Si era convinto che fosse un po' poco, per Natale. Pensò sarebbe stato meglio prenderle qualche altra cosa però, in quel preciso momento, era ancora arrabbiato con lei, con se stesso e con quella stronza che stava ancora ballandogli in testa a piedi nudi. Sì, con lei, col vortice intendo, non avrebbe mai potuto costruire niente, nulla di serio o di particolarmente bello come aveva fatto con lei, con la sua donna, intendo. Già, perché, nonostante tutto, checché ne dicano le femministe, lei era di lui così come lui era lei, e lui voleva solo fare l'amore con lei un po' più spesso del solito. Accese la radio. Ancora non si parlavano. C'era traffico, ci avrebbero messo un bel po', prima di arrivare a casa della madre di lei. Avrebbe messo su un disco di Dylan se non fosse accaduto che quello che poi accadde. Un camion, a Berlino, aveva ucciso 9 persone e feritene altre cinquanta. Un attentato. Un altro ancora. Solo qualche ora prima, era stato ammazzato, in Turchia, l'ambasciatore russo. Mise a posto il disco di Dylan. Si misero ad ascoltare. - Cazzo! A lui passò di colpo la rabbia, si rese conto di quanto fosse inutile il suo e qualsiasi altro tipo di capriccio. Si ricordò di nuovo che l'amava e che l'avrebbe amata ancora e ancora. Le prese la mano, gliela strinse. Lei si tolse la cintura, si avvicinò a lui, lo baciò sulla guancia, poi si abbassò tra le sue gambe, gli calò la cerniera dei pantaloni, glielo cacciò fuori dai box e glielo prese in bocca. A ballargli in testa solo, il silenzio e i suoni di un clacson e della fibbia della cintura. Premessa: sono due tre giorni che canto "9 Maggio".
Premessa dovuta perché leggo di chi, quasi per scusarsi del fatto che sta merda gli sia entrata in testa, arriva a scomodare parole come 'genio' e 'artista'. Un modo errato come un altro per lavarsi la faccia dallo scuorno, senza ammettere che ci si è fatti inchiavicare le cervella. Perché credo che sia merda: per me è merda qualsiasi cosa voglia provarmi a prendermi per il culo e, visto che la sto cantando da tre giorni, Liberato ( o chi per esso) ci è riuscito alla grande. Guardo sotto le scarpe e, sì, qualche merda l'ho pestata. Oppure sono tanti quelli che dicono che, in fondo, dopotutto, funziona, termine che può significare tutto o che significa fin troppo, quasi ancora a voler giustificare una cagata che però, siccome ha accalappiato il cervello di tanti, pure il loro, allora ti giustificano qualcosa che, dai, dopotutto, vi dicevo, funziona, quindi è ok. Già, pure il Mc Donald funziona, no? Un panino di merda, fatto con della carne di merda, che costa un cazzo, che però è fast food, che puoi mangiare veloce veloce, quando vuoi e che, dopotutto, alle papille gustative non fa tanto schifo. Anzi, per delle qualità organolettiche o chissacosa, riprodotte in laboratorio, quel panino di merda ti sembrerà proprio buono e ne vorrai sempre di più e, quindi, dopotutto, "9 Maggio m'e sciarmato". Noi lo sappiamo bene che è merda, che a confrontarla con qualsiasi piatto fatto in casa (anche se non sai cucinare) fa più male e fa più schifo, però, ogni tanto, che fa? Mica si può sempre mangiare bene. E c'hai ragione. Ogni tanto, un po' di schifezzella ci fa stare bene. E non fa niente se è fatta con la merda. Oh, al Mc Donald, sia chiaro, ci va - raramente, quasi mai, diciamo una volta all'anno - anche chi vi scrive ma tra il devo riempire lo stomaco e il mmm che buono ci passa una cazziata di Antonio Cannavacciulo. Ho capito Calcutta, ho accettato Fedez e ho sorvolato a fatica e con dolore su Rovazzi ( e, di fatto, nessuno dei tre mi dispiace) ma qui, lasciatemi dire, qui no. O meglio, capisco anche Liberato, so bene perché vi piace, perché piace e pure perché non mi esce dalla testa: è proprio come col paninaccio Mc Donald. Mezzo morso e non puoi farne a me, nonostante faccia schifo. Come le sigarette, come l'alcol, come la droga. Ognuno sceglie di che morire. Ognuno sceglie di che sballarsi. Cioè, un tiro di marjuana ti far star bene, ti rilassa, anche se non è felicità. Non naturale, perlomeno. Ognuno è libero di godere del tipo di felicità e leggerezza che vuole, purché non si scordi che è felicità artificiale. Non voglio che passi che sono contro le droghe leggere, assolutamente. So bene anche delle proprietà terapeutiche. Di fatto, non sono nemmeno contro la musica di merda ( sennò non promuoverei la mia: ah ah ah ), purché non mi prenda per il culo e mi devasti giudizio e gusto. È questo che vorrei fosse chiaro: la viralità, il fatto che qualcosa abbia qualità massmediali, non è detto abbia qualità artistiche tali da poterlo definire geniale, a meno che non sia di Andy Warhol. Beh, fosse così, bisognerebbe leggerla in un'altra maniera e pensare che i due brani ( aperta e chiusa parentesi) proposti da Liberato non siano altro che un miscuglio di una particolare cultura pop o subpop. Ma è così? L'operazione di Andy Warhol ha visto sì una rivalutazione-ricollocazione democratica dell'oggetto merce all'interno del mondo-arte ma non senza una totale trasformazione dello stesso, creando in tal modo del nuovo, e non senza anche una sua sarcastica e sfrontata parodia. Quindi non senza anche una piccola presa per il culo che, a dirci la verità, per non prenderci troppo sul serio, non può fare che bene. Ed io non voglio prendermi sul serio. Ma è quello che stanno provando a fare con Liberato? Ci stanno prendendo artisticamente per il culo? Non lo so. Di fatto, con la scusa del pop, del democratico, della democraticabilità dell'arte, si rischia di accettare tutto senza se e senza ma: la cocacola, la DeFilippi, Xfactor, le big bable, Benji e Fede, Alessio e Raffaello, il giapponese. Il rischio è che il "Non bisogna demonizzare il pop" ( e di fatto non demonizzo il pop, ma ciò che si fa in nome suo, così come non è la fede in Dio che mi manca, quanto in chi fa certe cose in suo nome) is the new fantomatico voltaireiano e ogni tanto inopportuno "non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo". Ma se Liberato fosse - come dicono alcuni/ a quanto pare - un protagonista di Gomorra 3? In questo caso, chi vi scrive si arraperebbe. L'idea di aver creato e dato vita-respiro ad un personaggio-maschera(?), alla ricerca del suo posto, del suo palco, del suo autore, prima di inserirlo nella fiction, saldando il patto finzionale con lo spettatore, aumentando il livello verità/realtà della narrazione, abbattendo completamente l'elemento di incredulità , beh, sarebbe sì, non solo una grande operazione di marketing, ma anche una meravigliosa operazione letteraria di una squisitezza che pure Antonio Cannavacciuolo acconsentirebbe. Il fatto è che ci arrivo tardi, come al solito. Non ero un appassionato di serie tv. In generale, mi annoio a stare seduto a vedere la televisione: tra pellicola e carta ha sempre vinto quest'ultima. Non ne ho mai fatto una questione del "cosa è meglio di", era, anzi è, solo un fatto di attitudine. All'immaginazione del regista che mi impone il suo punto di vista, la sua prospettiva, il suo angolo di visuale, ho sempre preferito la mia che, per quanto influenzata dalle informazioni, dalle angolature e dai malesseri dello scrittore, resta comunque costretta ad un lavoro di riorganizzazione della memoria, delle emozioni e dei colori. Lo scrittore scrive e tu - leggendo, ovviamente - ti immagini l'infermiera, il pescatore, l'etiope malata, due sposi. A modo tuo. Insomma, la lettura richiede quel passaggio in più che resta tuo, tuo soltanto. Poi, però, e con imperdonabile ritardo, ho capito che la narrazione ha poteri e necessità che vanno oltre i confini del libro. In realtà, ho da tempo abbandonato la partigianeria a favore del libro a tutti i costi. La riproposizione di un'opera letteraria non è che una nuova scrittura di un lettore che ci offre il suo punto di vista: un lavoro di rilettura e riscrittura preziosissimo per un appassionato di narrazioni. Però poi ho pensato alle opere originali, cioè a quei film non tratti o ispirati da/a opere letterarie. Inizio a fare una considerazione apparentemente ovvia: ogni opera d'arte, dal primo disegno rupestre o componimento in rime ad oggi è tutto riscrittura. Riscrittura che poi può essere miglioria o evoluzione. Nemmeno i Dada hanno davvero ribaltato in toto la tradizione. E se l'hanno fatto, resta comunque riscrittura. Per la serie: « Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma ». Arrivando finalmente al motivo di questo post, Breaking Bad è un estenuante e meraviglioso lavoro narrativo di rielaborazione di cose vecchie come il mondo: corruzione, voglie di rivalsa, banalizzazione del male, il fascino dei cattivi, cattivi che sono meno cattivi di certi cattivi, il rapporto maestro-discepolo e potrei continuare all'infinito. La trama è di per sé originale. Però, la domanda che mi sono voluto porre è E se fosse stato un romanzo? Walter White/Heisenberg combatte contro un tumore e più questo regredisce, più la sua sete di potere - che è anche voglia di rivalsa - diventa inarrestabile. La malattia lo incattivisce, il countdown che piano piano lo avvicina alla morte, per quanto rallentata dalle chemio, è spietato. Ci sono troppi rimpianti nel suo passato per non provare a rimettere le cose a posto. La malattia gli ha tolto ogni inibizione, lo ha liberato dalle catene della società. A mano a mano, tutto è concesso e, più le chemio fanno effetto, più la sua metanfetamina blu si fa largo nel mercato dei narcotrafficanti di tutto il mondo. Ho scavato nei ricordi, nella mia piccola biblioteca memoriale e, pensando pensando, mi è venuto in mente un classico: Il ritratto di Dorian Gray. Un po' ne ho vergogna, sinceramente: pare quasi che un Wilde qualsiasi sia nascosto tra le maniche di ogni appassionato di letteratura, tra le piaghe di qualsiasi comparazione. Pare quasi troppo facile. Ma forse nessun altro scrittore è stato così bravo a rappresentare la corruzione dell'anima. Dorian è troppo simile a Walt per la comune paura per il tempo che passa. Troppo simile il narcisistico amore per se stessi e la loro opera d'arte migliore: da un lato la propria bellezza, dall'altro sì la metanfetamina blu ma, forse, anche quel Jessi, un tossico incapace, diventato il secondo miglior produttore di met in circolazione. E pure ci ho visto una morale vittoriana, spesse volte semplificatrice e per la quale Walt, più di una volta, ha provato uno strano rigurgito. Violento fino all'inverosimile, eppure tanto reale. Il meraviglioso quadro di Basil Hallward, rappresentazione eterna della giovane bellezza di Dorian, si imbruttisce così come imbruttisce l'ideale familiare di Walt. La corruzione è un tumore che non ha limiti. Più si sconfigge il male fisico, più la bruttezza morale si impossessa delle sue idee, della sua immaginazione, del suo corpo, fino a traboccare nella realtà. L'unica soluzione è distruggere il quadro, sgozzare il mostro, restituirsi alla vita e, in fine, tornare di nuovo - in un certo senso - nella retta via. Di fatto, offrendo l'anima al diavolo/diodenaro (nel caso di Walt, più che i soldi è quel gusto del saperci fare) - chi per ottenere in cambio bellezza ed eterna giovinezza, chi invece saggezza e/o rivendicare ai tortuosi eventi della vita ciò che gli è stato tolto - entrambi sembrano una rirappresentazione del Faust, per certi versi archetipo del genere, dal quale è pare sempre possibile partire, riscrivendo soggetto, modificando qua e là qualcosa dello sfondo, rimodulando i leitmotiv. E forse ho già detto troppo. Forse ho esagerato. Già. Ma dovessi trovarla tu la risposta alla domanda E se fosse stato un romanzo? Ho letto che Morgan ha lasciato "Amici". (Clicca qui se proprio vuoi saperne di più). Ci sono 3 considerazioni da fare o che mi vengono da fare: a) che Morgan, grande e vaccinato, con alle spalle più reality che canzoni scritte ( per i fan dei Bluvertigo: è un eufemismo), ancora non è capace di stiparsi una cosarella di soldi per evitare di buttarsi in queste tarantelle qua. Al di là di ogni gusto e a parte il fatto che è irritante come il DDT sulle palle per quanto ( a volte, a buon motivo) è presuntuoso, Morgan è colto e preparato (forse l'unico lì in mezzo capace di riconoscere un accordo di tredicesima in mezzo a tanti giri di Do). La domanda dunque lecita è: ma chi glielo fa fare? Ah già, a parte il portafogli e le bollette e gli acidi: l'Ego; b) che Maria De Filippi è talmente il male assoluto ( per questo a suo modo intelligente) - coi suoi programmi feccia che esaltano la feccia per un pubblico che ( non si offenda nessuno: nel pentolone mi ci metto anche io) non è sempre capace di riconoscere bene e male, bello e brutto, giusto e sbagliato: dunque è perfetto per il mercato, il loro - che con la sua letterina-comunicato si è parata la palla al punto che Morgan passerà per il permaloso presuntuoso di turno, mentre, con una carezza, è riuscita(?) a nascondere i vuoti, i buchi e gli orrori della produzione. (Orrori tipici non solo di Amici ma, a mio modestissimo parere, chi più e chi meno, di tutto il discount dei reality). c) che, al di là del tiritittittì del titolo, è l'occasione buona per ribadire un concetto, mai troppo usurato da non ribadirlo in maniera lapidaria e riassuntiva rispetto all'inciso del punto scritto poc'anzi: il pubblico deve tornare a fare il pubblico. Non può essere giudice. Se non altro per il bene dell'arte, ché tale ancora mi illudo sia la canzone. Intelligenti pauca. Sarebbe stato più complicato resisterle, se non fosse stato per la regola che si era imposto: non provarci mai con la sorella di un tuo amico. Nemmeno di un semplice conoscente.
Non era proprio una sua di regola, a dire il vero. Intendo dire che non l'aveva inventata lui, ma Fred. Fred gli aveva raccontato di aver deciso di metterla in pratica dopo che s'erano rotti i rapporti con un collega di lavoro che gli stava assai simpatico. La colpa fu di aver conosciuto sua sorella. A sua difesa, c'è da dire che era davvero carina. L'aveva conosciuta in palestra, l'aveva invitata al cinema e, da cosa nasce cosa, ci uscì per un paio di mesi fino a quando si rese conto che lei, anche se davvero carina, non amava particolarmente la nobile arte della depilazione. Finì per mollarla. Litigò con lei e col fratello-collega. Ancora oggi non si rivolgono più la parola. Un vero peccato. A lavoro, avere delle persone amiche che cordialmente ti rivolgono un semplice Ciao, buongiorno, hai visto la partita, che ne pensi di Carver, cose così, fa sempre comodo. È come avere un alleato sul campo di battaglia. Ad ogni modo, lui non avrebbe fatto la fine di Fred. Nossignore. Poche regole, non ne seguiva tante, ma quelle che poche dovevano essere buone, le migliori. Quindi se ne restava buono buono sul divano, con la sua Becks nella mano destra, ascoltava la musica, una vecchia compilation di vecchi brani rock anni settanta ottanta che aveva chiesto di fare a suo fratello, ne seguiva il tempo con la sinistra e si godeva staticamente la festa che aveva organizzato per la laurea di sua cugina. Oddio, attenzione, non è che fosse proprio sua cugina, non genealogicamente almeno. Era la figlia di un amico di famiglia che, da piccoli, lui e suo fratello, avevano preso l'abitudine a chiamare Zio. Di conseguenza, sua figlia era loro “cugina”, appunto con le virgolette. E fino a quattro cinque anni fa non avrebbe mai pensato di poterla immaginare nuda sul suo cazzo. Certo, a pensarci, al di là di ogni fisima mentale, non c'era nessuna legge di Fred - in fin dei conti si parla di sorelle, non di cugine - né un particolare codice del pudore, che gli vietasse di provarci con una che, in fin dei conti, per l'appunto, non era davvero sua cugina. Certo, erano cresciuti insieme, si erano visti in media quattro volte a settimana, per ventiquattro giorni al mese che in un anno sono duecento ottantotto giorni; praticamente stavano sempre insieme e avrebbe potuto giurare di ricordarla andare a gattoni sul tappeto di casa sua, col pannolino, o di quando, tutta rossa in viso, la madre ebbe la brillante idea di comunicare a tutti del suo primo ciclo; l'aveva sentita piangere a causa dei brufoli o di qualche chilo di troppo sui fianchi. Ma la carne è carne e per quanto l'anima potesse mettere su paradenti e guantoni da boxe, non avrebbe potuto nulla contro quel desiderio che, piano piano, gli saliva su dai pantaloni. Se la regola di Fred aveva ancora un senso era per il solo motivo che, disintegrati per costruzione quelli genetici, rompendo qualsiasi indugio, avrebbe rischiato di bruciare non solo il rapporto con lei, ma anche con suo Zio - che non era suo zio - e anni e anni d'amicizia con i suoi genitori. Successe che erano andati ad un festa insieme e lì si erano ubriacati. Non era certo la prima volta: festa, alcol, la testa che gira, fin qui, tutto nella norma, almeno fino a quando lei non incominciò a strusciarsi addosso ad un ragazzo che aveva conosciuto due ore prima. Non era la prima volta che gli capitava di guardarla alle prese con un altro uomo. Tante volte le aveva anche dato consigli, l'aveva aiutata, su cosa dire, su come approcciare, con chi poter andare e chi no, chi era idiota e, insomma, quelle cose lì. In quel preciso istante si era reso conto non solo che stava eccitandosi, ma che era anche geloso. - Com'è che non me ne ero accorto prima – si domandò, guardando il culo tondo e perfetto stretto nei bluejeans che saliva e scendeva sul cazzo dello sconosciuto di cui sopra. Passò la serata intera a cercare di togliersela dalla testa. Ci riuscì a mala pena e, quando si rimisero in macchina, per eludere l'imbarazzo, lui che di solito è di poche parole, si scoprì a parlare talmente tanto che – se ne era convinto – ormai era chiaro che qualcosa tra i due fosse cambiato. Dicevo della festa di laurea. Una festicciola di una ventina di intimi invitati. Non tantissimi, di certo più dei canonici tre cristiani che riteneva potessero varcare la soglia di casa sua. Si era subito dannato di averle detto di sì. Casa sua è un museo. Tutti ci possono entrare, ma due alla volta, al massimo tre, solo se dotati di grande senso dell'igiene e a patto che aiutassero a rassettarla, prima di andare via. Non per altro: semplicemente amava il silenzio e soprattutto l'ordine. Gli fu subito chiaro che pentirsene, ora che aveva la casa invasa da sconosciuti che, di certo, non lo avrebbero aiutato a riassettare casa, fosse ormai troppo tardi. La prese con pazienza e filosofia. E comunque, a dirla tutta, fece tutto lei. Comprò l'alcol, da mangiare, tutto. Lui ci aveva messo solo le quattro mura. Anche se, se ne era presto reso conto, stava per infrangere la regola, l'unica che si era imposto, il lascito di Fred prima che, questi si trasferisse nella lontana e gelida Copenaghen, (Cosa ci fosse andato a fare laggiù, a Copenaghen, ancora non lo aveva scoperto), in fondo, tutto sommato, non andò per niente male: non gli distrussero casa e riuscì pure a divertirsi anche se, con sua “cugina”, non era riuscito a scambiare nemmeno una parola. Ci riuscì a festa finita, alle quattro del mattino, quando anche l'ultimo invitato se n'era andato, portandosi via un cartone di birra da sei. - Allora? Ti sei divertito? - Sì, e tu? - Non male. Anzi, grazie ancora per la festa. I miei non avrebbero mai accettato che facessi una cosa simile e poi, lo sai, non sarei mai riuscita a farli allontanare da casa. Sei l'unica persona che vive da solo a cui avrei potuto chiedere questa cortesia. - Sì, sì. Non ti preoccupare. Si mise a guardare in giro. Il divano sporco di birra, il tavolo nascosto da una decina di cartoni della pizza, la libreria piena di bicchieri di carta. Scosse la testa e pensò che avrebbe dovuto chiamare la signora delle pulizie e chiederle di venire il giorno dopo la festa, ma ormai era troppo tardi. - Dai, non preoccuparti. Adesso ti do una mano. - Naa. Tranquilla. Ormai è tardi, andiamocene a dormire. - Sono troppo ubriaca per mettermi alla guida. Posso restare qui? - Certo. La stanza è di là. Io resto qui, tanto alle otto devo andare via. - Devi andare a lavoro? - Eh sì. - Cavoli, potevi dirmelo. Non ti avrei mai chiesto tanto. E infatti non le avrebbe mai detto di sì, se non fosse che erano notti che sognava il suo bel culo andare su e giù. E che, parecchie volte, mentre si masturbava, si era sorpreso ad immaginare che, a stringergli il cazzo, fossero le sue lunghe e meravigliose dita. Altre volte, a letto con la ragazza con cui stava uscendo in quel periodo, ad occhi chiusi, immaginando che quella a pecora fosse proprio sua cugina, glielo aveva messo nel culo. Come Michael Douglas in Basic Instinct. - Lo sai, siamo come fratello e sorella. Cercava di tenersi distante, di mettere una linea rossa che li separasse, oltre la quale la legge di Fred sarebbe andata a puttane ma, in tanto, per ciò che aveva detto, si sarebbe morso volentieri la lingua. - Già. Proprio come fratello e sorella, vero? - Eh, sì. Più o meno. Diciamo come cugini. Lo sai, ci conosciamo da quando... - Sì, sì. Certo, come no. Si avvicinò, si sedette di fianco a lui, gli tolse la birra da mano e se la portò alla bocca. Ora avrebbe voluto essere il collo di quella bottiglia. - E secondo te, ad un fratello, è permesso avere un'erezione guardando il culo di sua sorella? - Eh? Cosa? - Me ne sono accorta, cosa credi? Anche ora scommetto che ce l'hai duro? E così dicendo, allungò la mano tra le gambe. Fred? Dove sei? Cosa fai lì a Copenaghen? Che diresti ora? In che lingua me lo diresti? Lì, in Danimarca, le donne sono come qui da noi? - Ci avrei scommesso. - Ehi, che fai? - Ti ringrazio per aver messo a disposizione la casa, per essere sempre stato così buono con me e per le attenzioni che hai dato, nell'ultimo periodo, al mio sedere. E così facendo, gli abbassò la cerniera, glielo tirò fuori e iniziò segarlo. - Ma...ma - Sta zitto, mi piaci da sempre e ora mi prendo solo ciò che è mio da una vita. Lo desidero, ti desidero, ti prego, scopami. Allora lui superò la striscia rossa, varcò la regola di Fred, irruppe nella sua anima: si rese conto di averla sempre desiderata. La prese per le mani, l'alzò dal divano, poi la mise in ginocchio, si abbassò i pantaloni, i box, e iniziò a strofinarsi il cazzo sulle guance della “cugina”. La pelle morbida del viso glielo induriva ancora di più. Piano piano, lentamente, lo fece scivolare verso la bocca, tenendole la testa con le mani fino a quando, con un solo colpo, glielo mise dentro. Dentro fuori, fuori dentro. Lei, la “cugina”, gli stringeva il culo e se lo spingeva fino alla gola. Abbassò lo sguardo, lei lo stava guardando, affamata, quasi come se fosse a dieta da una vita. - Lo sai? Credo di desiderarti da sempre. Sorrise, o almeno così gli parve. - Sì, dai, continua, così, brava, piano piano. Poi lei si staccò, si alzò, si girò, si sfilò le mutandine, si mise in ginocchio sul divano, si alzò la gonne, glielo prese in mano e se lo puntò verso il culo. - Sfondamelo, con tutto il desiderio che hai. Fallo tuo. Sono tua. Sborrami in culo. Scopati il culo di tua cugina. Non saprebbe dirci quanto durarono. Più alto è il desiderio, minore è il tempo dell'amplesso. Così gli aveva detto una volta Fred, in uno dei suoi soliti monologhi dispensatori di consigli e regole. Dopo quella notte, non si parlarono più. Ancora oggi non saprebbe darsi una spiegazione. Forse, ripresasi dalla sbronza, ricordandosi di quello che aveva fatto, ne aveva avuto vergogna. Andò via, in silenzio, mentre lui ancora dormiva, senza preoccuparsi delle condizioni in cui i suoi amici avevano lasciato la casa. Lui non fece niente, non le mandò un messaggio, né le fece una telefonata anche se avrebbe voluto, anche se ne soffrì per mesi. Se ne avesse il coraggio, ad una vostra domanda, vi risponderebbe che sì, ne è stato anche innamorato. Non per il culo, sia chiaro: ancora oggi è convinto che sarebbero stati una bella coppia se non fosse stato per... Ma è tutto inutile. Oggi lei è sposata con un tizio, un architetto che – avrebbe poi saputo dalla madre – si diceva avesse avuto seri problemi col gioco d'azzardo ma che adesso faceva il bravo ragazzo. Non che questa sia un'informazione importante ai fini del nostro racconto, ma ci ha tenuto che ve lo dicessi. Il rapporto tra i genitori dell'uno e dell'altra resta ancora oggi ottimo: non vennero mai a conoscenza della regola di Fred e della sua infrazione. Forse aveva avuto ragione lui. A seguire certe regole non si sbaglia mai. Oppure è il contrario? Chi lo sa. Lui ora è sposato, ha due figli, ma ancora oggi, quando i bambini dormono e la moglie si mette di spalle e ha voglia di essere sborrata nel culo, ripensa a quella volta, quando ubriaco, arrapato e innamorato, profanò la regola di Fred e il culo di sua “cugina”. E chiude gli occhi. Ricapitoliamo:
E tu, presidente, cosa fai? Riporto un pensiero di mio fratello Simone: "Hai tutte le telecamere del mondo puntate addosso, avresti potuto dire di tutto: che siamo giovani ma ce la siamo giocata, il ritorno sarà un'altra storia (per onestà: in mezzo a tante boiate, almeno questa cosa l'ha detta), che Insigne, il tanto criticato Insigne, ha fatto un eurogol in Mondo Visione, avresti potuto buttarla sull'esportazione del talento made in Napoli e basta, senza usarlo come paragone per gettare merda sul resto della squadra, che un giovanissimo come Diawara ha dimostrato di avere tanta personalità, che a tratti abbiamo espresso un buon calcio, purtroppo l'inesperienza paga, ma il progetto è questo, in continua crescita, quindi adelante e blablabla, avrebbe potuto perfino recitare una poesia di Pascoli e Carducci e tu che fai? butti merda sull'operato del tuo allenatore"? Non l'hai fatto nemmeno con Benitez quando si imbarcava gol con chiunque; sei andato a pregarlo fino all'ultima aggiornata affinché rinnovasse e ora si mette a criticare Sarri, tirando in ballo Aronica, Grava, Mazzarri: è vero, in quella Champions, al San Paolo ci andò bene col Chelsea ma, al ritorno, a Londra, ne acchiappammo quattro: allora come oggi, inesperienza, inesperienza, inesperienza e di fronte una squadra plurititolata. Punti toccati da te, presidente:
Magari Zielinski, in totale confusione, avrebbe dovuto sostituirlo prima ma va ricordato che anche lo stesso Sarri è alla prima esperienza in Champions. Punti sui giovani, sui talenti puri (mister compreso), consapevole che bisogna dare loro del tempo, e poi, a mezzo stampa, butti fango sul tuo stesso lavoro? Per aver perso in casa del Real Madrid, col Real Madrid? E, ad ogni caso, ma mi pare tautologico, non si fa in pubblico. Siamo di fronte ad un uomo totalitario, megalomane, egocentrico, l'uomo di questo secolo, il Trump della SSCN: ignorante ma presuntuoso, capace di umiliare ogni volta chi gli sta accanto, tifosi, allenatori, dirigenti, giornalisti. Preside', davvero, ci siete o ci fate? P.s. Domanda finale: perché Maradona negli spogliatoi? Perché togliere a Sarri la possibilità di spronare i SUOI giocatori? Quello prima del match è un momento sacro, l'allenatore conosce i punti dolenti dei suoi uomini, sa come prenderli, sa cosa dire.
"La musica è di tutti, la poesia è in calo".
Amare non è per niente semplice e parlarne è un guaio di parole già dette. E a pochi giorni dalla fine di Sanremo, te ne rendi conto ancora di più. Si è detto tanto, forse non tutto, a volte non proprio bene bene, ma di certo è poco il margine di riscrittura che resta, a cui chiunque - uno scrittore, un poeta, un amanuense, un fotografo - ancora può appigliarsi. La coperta è corta, il cuore ha troppi spazi scoperti ancora. Amore e musica - ma direi l'arte in genere - hanno sceso le scale, un milione di volte, insieme, l'uno sotto al braccio dell'altro. E non perché, semplicemente e retoricamente, uno è la musa dell'altro o perché hanno entrambi a che fare - in qualsiasi prospettiva la si voglia guardare - coi fatti di cuore. Lo strazio è nelle cuciture, negli sfilacciamenti, nei vuoti che immancabilmente si fa fatica a coprire, quando di mezzo ci sono arte e amore. E la cosa divertente è che, se giri la medaglia, sull'altra faccia, c'è il tuo premio. Con gli occhi un po' più concentrati, ce ne accorgeremo molto prima. "è che ho le mie fisime mentali avvolte dietro gli occhi, e il massimo che posso fare è nasconderli a te". Nell'era dei cd invenduti, dei palchi in stile step aerobici, col sali e scendi dell'artista, il tempo di un paio di brani, dell'arrivederci, del mezzo applauso e poi giù un po' di birre che finiscono per pisciarti a caso un po' dove pare a loro; nell'era dei brani inascoltati su Spotify, delle scuole di scritture, delle accademie, dei titoli, del click baiting, della produzione dal basso; nell'era del Vintage, dell'elettronica, del busking, del bel canto, della voce stonata, della voce rauca, del non è tanto diverso da come andava ieri; in quest'era delle pause di riflessione, dei silenzi, amare è l'unico veleno che valga davvero la pena correre il rischio di assumere. Anche a rischio di risultare banali. Anche a rischio di risultare banali col sottolineare che, comunque sia, si è banali. E magari "Non posso non prometterti di proteggerti dal male". Il coraggio ha mille colori, come una libreria con la bocca piena e la pancia ancora affamata. Ha la forma di un divano, di un letto, di un tavolo per due, per tre, per quattro, per dieci. Ha i caratteri di un messaggio di tua madre, il saluto imbarazzato di tuo padre che non ti vede da giorni. È una linea che si piega all'insù, per gli schiamazzi che fa il cuore, il suo. Questo è. Il coraggio è crederci, anche se fragili, anche se coi piedi scalzi, sopra qualche coccio di un piatto che ti è scivolato mentre davi una mano in cucina. "Com'è che va a finire quest'epoca moderna, coi beni di consumo o sotto le lenzuola"? Perché l'uomo ha bisogno dei suoi riti per continuare a rinnovare una promessa. Un post-it, ché le probabilità di perdersi nei labirinti che ci sono là fuori, scesi dal letto, lontani dal tavolo e dal divano, senza le parole di tua madre, il saluto di tuo padre, le routine coi tuoi fratelli, sono tante. A meno che non si lotti per provare ancora a restare normali, non per crogiolarsi nelle proprie sofferenze, ma per riconoscersi, capello per capello, e capire di nuovo cosa si è disposti ancora a fare per quel puzzle cercato, scelto, custodito e difeso. " accetterò un quaderno e poi un caffè sospeso". E va bene così. Buon San Valentino. Napoli fa da sfondo. Anzi, da occhio che osserva, sa, ma tace. Le accarezzerebbe pure le sue creature, potrebbe pure provare ad aiutarle, ma c'è un patto inconscio con loro da rispettare. Come tra Dio e i suoi figli. Ok l'amore incondizionato, va bene la fede, ma c'è pur sempre il libero arbitrio. Che ha da combattere con l'odio, il sangue, la sete di potere, la rabbia, la vendetta, i proiettili che a spararli basta un niente, la convinzione che serva vestirsi da Tony Montana per sentirsi re del mondo. E non solo Napoli, pure Varcaturo e Castelvolturno, "lembi di terra dimenticati da tutti, ma non abbandonati da nessuno", tacciono, senza colpa, sfinite, come "una donna che viene stuprata ogni giorno, dieci volte al giorno". Quella raccontata in "Fore Morra" ( Fanucci Editore) da Diego Di Dio è la "Napoli antica e immortale", la "città implacabile e millenaria, fatta di spacciatori, ladruncoli, venditori ambulanti". Ma la camorra c'entra relativamente. Per la fiction dello scrittore, boss, pali, spacciatori e capuzzielli servono così come servono le storie di gangster per gli sceneggiatori americani. Perché c'è anche tanta pellicola tra le pagine di Fore Morra. Come in qualsiasi thriller che si rispetti, flash back, cliffhanger, interruzioni e riavvolgimenti repentini sono tessuti perfettamente lungo i bordi della trama a cui Alì e Buba, di fatto i protagonisti, si aggrappano per non cadere giù. Ma c'è quel quid in più che fa di Fore Morra un racconto che va oltre al thriller. C'è la vita umana, ci sono i volti, c'è la terra. Diego di Dio ne tesse due di trame. Lentamente, in parallelo, scorrono verso la stessa foce. Il climax è lì, la tensione è alta, ne sei trascinato, fino alla fine. Al punto di incontro ci si arriva attraverso numerosi e sofferenti cambiamenti di Alì: resistere è anche capacità di sapere attraversare la strada ed entrare nella porta di fronte [...] cambiare universo, adottare un altro alfabeto, modificare lo spazio-tempo. Abbandonata, odiata, usata come merce di scambio, questa è parte della storia di Alì, ma pare il destino di Napoli: "cerchi di luce e zone d'ombra senza lampioni, ecco cos'è questa via. Ecco cos'è questa città". Come al solito, mi fermo a due passi dallo spoiler. Molte volte ho letto libri di cui già conoscevo, giù di lì, finale ed intreccio. Il piacere della lettura è anche nel come quella storia viene raccontata: mi riferisco allo stile certo, ma anche a quegli espedienti, gli escamotage, attraverso cui uno scrittore aggira quella che Kafka chiamava compromesso; uno scrittore, qualsiasi, bravo o meno che sia, in fase di scrittura, si troverà sempre di fronte al pericolo di sciogliere l'intreccio con un fiacco compromesso narrativo: un sortilegio magico, un incontro fortuito, lo squillo del telefono, il ritorno imprevisto di un alleato creduto morto. Il talento sta nel non tradire il patto finzionale, col lettore, rendere il tutto credibile. Ecco cosa fa forte un romanzo: trama, stile e verosomiglianza (paradossalmente possibile anche in quei generi, come i Fantasy, in cui la sospensione dell'incredulità è, di fatto, trascendentale, ma questa è una discussione troppo lunga per essere affrontata in questo blog). In Fore Morra, a parer mio, Diego di Dio riesce a tenere in pugno questi tre elementi, aggirando egregiamente il compromesso:
In sintesi: mi è piaciuto tanto e non vedo l'ora di parlarvene con l'autore, Venerdì 17 Febbraio, alle ore 17:30, presso la Libreria Mooks, al Vomero. Diego Di Dio è nato nel 1985. Con un trolley sempre appresso ha vissuto a Procida, Napoli, Roma. Attualmente vive a Formia con la sua compagna, due bimbi e un maltese di nome Bob. Si è laureato in giurisprudenza con la tesi Il mercato dell’editoria, successivamente pubblicata dalla Primiceri Editore. L’anno successivo alla laurea ha frequentato, a Roma, la scuola Oblique per redattori editoriali, mantenendosi nel frattempo con lezioni private e collaborazioni sporadiche con case editrici. Nel 2015 ha fondato l’agenzia letteraria Saper Scrivere, con la quale adesso lavora a tempo pieno. Come scrittore ha pubblicato, con il Giallo Mondadori, i racconti I dodici apostoli, Il canto dei gabbiani (menzione d’onore al Gran Giallo Città di Cattolica) e L’uomo dei cani. Ha vinto, per due volte, il premio Writers Magazine Italia, con i racconti C’è ancora tempo e Il trampolino. Ha vinto, inoltre, il Nero Premio con il racconto Il coltellaio e il premio Mario Casacci (Orme Gialle) con il racconto La signora. Ha pubblicato, con la Delos Digital, i racconti thriller Scala reale e La bambina della pioggia. Risale al 2013 la sua raccolta di racconti noir, È tempo sprecato uccidere i morti, per i tipi della Dunwich Edizioni. Fore morra è il suo primo romanzo. Mi hanno detto che fino a quando non ci si vede bisogna sempre farsi gli auguri di Buon Anno.
Dunque, che siano passati 5 o 220 giorni dall'inizio del nuovo anno, bisogna scambiarseli sempre, gli auguri. Il paradosso capita quando, dopo tanto tempo, rivedi una persona proprio allo scoccare della mezzanotte dell'anno che sta per finire e ti ritrovi che gli auguri sono due: per l'anno che sta appunto per concludersi, ma per il quale ancora non glieli avevi fatti, e per quello entrante. Una stronzata, già, ma ad ogni modo, anche se in ritardo, tanti auguri di un felice 2017 dal Blog del Gallo. Ad ogni modo, visto che stiamo in tema di stronzate, eccone una. Il nuovo film di Siani. Nulla di nuovo, direste voi, visto e considerando che nemmeno gli altri erano stati chissà cosa, se escludiamo Benvenuti a Sud (remake di un film già francese) dove quasi riesce a recitare meglio di Nico di "Un Posto Al Sole". Però, un però c'è. Premessa: nei suoi film, oltre ad essere scritti male e recitati peggio, il guaio più grande è che Siani sia convinto che essere se stesso alla lunga paghi. Nulla di più orrorifico: è vero che, in questo modo, cerca di nascondere le sue incapacità di attore, ed è ancora più vero che, al Cinema, le persone, i suoi fans per lo più, ci vanno per vedere lui, il suo modo di dire le cose. Però certe espressioni, il modo di cadere sulle sillabe, certe scopiazzature alla balbuzie afasica di marca troisiana, hanno un po' stancato. Quasi sempre, i personaggi dei film (?!) di Siani hanno proprio questo tipo di parabola: iniziano mostrando di sè tutto il lato prosopopeicamente tamarro, per poi redimersi in corso d'opera. Tutti uguali. Un unico immenso film, un'unica grande narrazione dove, a cambiare, sono solo gli sfondi e, di tanto in tanto, gli attori. Mi si potrebbe anche dire: "Ma da Siani cosa ti aspetti"? Mi viene una sola risposta: Checco Zalone. Parliamo di film leggeri, per carità, semplici, film che stanno equilibristicamente su di un filo sottilissimo ché, se cadi, rischi la cacata. Checco Zalone resta sempre sul filo. La risata viene dall'azione in sé, dai pasticci della trama e non da gelide freddure da cabaret obbligate in un dialogo senza capo e nè coda. In Siani, il pasticcio è proprio l'errore di ritenerlo capace di fare films, di stare sul filo. Sinceramente, mi stava sul cazzo anche quando, nelle trasmissioni per cabarettisti, faceva la parte del tamarro, a bordo del suo motorino col sediolino scassato tutto maculato ma, ancora ancora, lo si poteva sopportare. Erano battute nuove, alcune divertenti. E mi sono anche piaciuti alcuni suoi spettacoli: è un intrattenitore nato, fastidioso e urticante quando scivola sulla retorica melense e/o quando prende di mira qualcuno del pubblico e lo prende in giro per alcuni suoi difetti fisici, però, tutto sommato, sarebbe un bravissimo capoanimatore di villaggi Alpitour a 4 stelle. Se non stesse lì a ripetere da anni le sue stesse battute: in fondo, è uno dei pochi napoletani a riciclare. Dicevo il però. Non abbiamo finito di vederlo: dopo neanche mezz'ora, tre quarti d'ora forse, più o meno dopo la battuta ( brutta, ma non c'era bisogno di sottolinearlo) sul Cappuccino e dopo che si è sgamata tutta la trama quando si scopre che la tizia di cui Siani poi si innamorerà ( non lo so, non ve lo dico per il gusto dello Spoiler, si capisce subito ma, nel dubbio, controllate pure la trama su Wikipedia) è la figlia del Dottor Gioia, interpretato da Abatantuono. Uno dirà: "Va be', ti permetti di giudicare, e nemmeno l'hai visto tutto il film". Potreste avere ragione ma, credetemi, di rado faccio uso del diritto di recesso che Barney, in How i met your mother, mette in pratica quando, dopo 5 minuti di un appuntamento al buio, rendendosi conto che non vale la pena proseguire, saluta senza fare tanti complimenti. [E comunque questa vale per quasi tutti gli altri film] In passato, anche se i film erano stupidi, le trame scontate, i personaggi caricaturizzati fino all'eccesso, fin troppo grotteschi, e la recitazione approssimata, qua e là qualche risata la si riusciva anche a fare. Qui, senza grandi giri di parole, no. E ve lo dico anche un po' a malincuore perché, checché se ne dica, piaccia o no, Siani abbraccia un pubblico vasto in tutta Italia e, ogni volta, è un'occasione sprecata e buttata proprio nel cesso. Se mi sono permesso, è per Napoli, non per altro. Controllavo i libri. Rigorosamente disposti in ordine alfabetico. Per autore, poi per opere, infine per un criterio tutto mio. Guardavo la biografia di De André e mi è venuto in mente un aneddoto: stava quasi per abbandonare tutto, la musica, la chitarra, quell'idea pazza di scriverne un bel po'. Il disco non era andato un granché ché quasi quasi gli venne l'idea di rimettersi sui libri. Si era fermato a sei esami dalla laurea in Giurisprudenza. Quando, un giorno, bello e buono, Mina decise di reinterpretare "La canzone di Marinela". Lo rilanciò e consacrò allo stesso tempo. Un pensiero fugace mi passa per la testa. Così come mi è entrato, così lo lasio uscire. Senza saluti e abbracci. Guardo la chitarra appoggiata alla vetrinetta. L'abbiamo recuperata dall'oblio, la vetrinetta, riverniciata e rimessa a nuovo. La chitarra, dicevo. L'ho presa, ci ho suonato su un paio di accordi, ma non mi è venuto fuori nulla di buono. - Tu sei un artista. Trovati un lavoro, così potrai essere libero di fare l'arte che vuoi. Non come quelli obbligati a fare quello che vogliono gli altri. Ricorda: tu sei un artista. Nessuno potrà negartelo. Ringrazio, saluto, scrollo le spalle e mi rimetto a guardare la libreria. Vorrei mettermi un po' a studiare ma non ho tempo. Fuori è Natale e bisogna prepararsi. Non che sia triste, però le feste, questo tipo di feste, senza vestirmi di retorica piena d'eco, si portano dietro sempre un po' di malinconia. Ho in mente la metafora di Baricco quando parla del "Giovane Holden" di Salinger: "Non è una tristezza di primo piano: è una cosa più sottile. Apri il tuo regalo, uno di quelli che ti piacerà ma che, quando stai per scartarlo, ovviamente, non lo sai mica: prima c'è la gioia, poi la curiosità, poi sfili il fiocco ed ecco un'altra gioia, una di seconda specie, tiri via la carta ed ecco la sorpresa e, in fine il sorriso, la felicità. Però, a ben sentire, piano piano, silenziosamente, dietro a tutto, dietro alla gioia, alla curiosità, alla sopresa, alla felicità c'è sempre quel velo di tristezza. Non te lo sai spiegare, non tutti sanno coglierlo, ma è lì". Dio, non è che Baricco l'abbia spiegata proprio così, ma accontenttevi di ciò che vi ho scritto: credo che il senso sia tutto lì, ma potrei aver capito male. Ad ogni modo, quello che però ho imparato negli anni - vivendo, scrivendo, cantando e anche soprattutto leggendo - è che non è una tristezza negativa; è come il colesterelo: di quello grasso, devi assolutamente averne paura, ma di quello magro, beh, devi assolutamente tenertelo caro caro. Prendo un libro di poesie, mi siedo sul divano, ne leggo un paio, ci penso un po' su, lo richiudo, mi alzo, mi avvicino alla libreria, lo poso, bado ad averlo rimesso al suo giusto posto e mi allontano nuovamente dalla libreria. Stringo di spalle la mia compagna, le do un bacio, capisce c'è qualcosa che non va, o almeno credo, perché mi sorride, mi prende le mani e improvvisa un balletto canticchiando un motivetto natalizio. Non è insoddisfazione, nemmeno infelicità. C'è qualcosa di più sottile: è un bordino ruvido, nemmeno tanto scuro, ai lati del regalo. Come in un finale di Carver, è tutto come in un finale di Carver o Hemingway. Beh, quella gente lì. Riprendo la chitarra e no, mi scivola dalle mani. Guardo il telefono: è mia ia madre, un messaggio su whatsapp. C'è stato un attentato a Berlino. Me lo ha scritto come se fossi lì, a pochi passi dalle grida, spalla e spalla col dolore. Ad Aleppo hanno costruito un albero di silenzi. Di quelli di prima specie. Sotto, ai piedi dell'albero, un pugno di vuoti: nel nostro occidente, i nostri bambini, coi Lego, imparano a costruire; altrove, fanno i conti con la distruzione. Pensavo a quanto fosse curioso. Guardo il giradischi, uno che ho comprato qualche mese fa su Amazon coi soldi di un live. Ci puoi sentire anche gli mp3, tanto che fa schifo. Però funziona. Metto un disco - intendo proprio un Cd, non un vinile, ché si può ascoltare anche quelli - e rimango con gli occhi chiusi per un paio di minuti. Non credo di aver pensato a qualcosa di speciale. Non penso mai a nulla di speciale, però penso. Per ore potrei stare a parlare dicendo poche cose di davvero interessante però, quando mi chiudo nei miei cinque minuti di silenzio, quelli di terza e quarta specie, potrei starci delle ore. Ma non lo faccio mai: mi sale l'ipocondria. Oppure c'è qualcuno che s'impegna a volermi interrompere. Credo che ognuno di noi, se potesse entrare nella testa dell'altro, durante questi famosi cinque minuti di silenzio, quelli di terza e quarta specie, avrebbe più fiducia e più stima dell'altro. No, scusate la bugia, non è vero. Scopriremmo soltanto che è meglio, molto meglio, stare lì a parlarsi, costruendo finzioni, riparandoci a nostro modo. Poi mi ricordo di una cosa. Che sono stato troppo a pensare. Quei cinque minuti sono diventati dieci. Torno in cucina dal mio palmo di felicità, la stringo di nuovo, questa volta sono io a sorriderle. Ci siamo capiti. Mi ha capito. Ho capito. - Buon Natale! Maldestro, al secolo Antonio Prestieri, l'ho conoscito - da lontano, seduto in una platea o al di qua di un browser - prima come autore di teatro, come attore nel mentre e, in fine, come cantautore.
Teatro Tasso, era il duemila mmm bah, che importa, di certo sono passati un bel po' di anni, ricordo solo che avevo un forte raffreddore, fuori faceva troppo freddo per le mie narici arrossate e che, nonostante tutto ciò e decine di migliaia di pelucchi di fazzoletti maltrattati sparsi nella mia barba, mi divertii un sacco. Uno spettacolo scritto da lui, se non erro. Ricopriva la parte di un femminello che si ammala di AIDS. Divertente, comico, anche un po' tragico, bravo. O almeno, a me, piacque assai. Poi, eccolo con la chitarra in mano a cantautoreggiare. Meno divertente, un tantinello tragicomico senza guastare, forte, bravo. Il disco è più o meno così, se si esclude una bella vena romantica, leggermente malinconica, che non dispiace assolutamente. Con qualche mia riservuccia per lo stile ma le Belle Canzoni ( con la B e la C maiuscola) ci sono. Maldestro è bravo perché ha talento, si vede, è tutto lì, soprattutto nei suoi testi, e la sua presenza a Sanremo ridarà finalmente la possibilità, a un napoletano, di presentarsi con quella che molti critici amano definire, anche se non tutti hanno capito bene cosa significhi, ''una canzone d'autore''. Una fetta di Napoli che potrà - evviva! - provare a ''concorrere'' ( in termini di spazio, sia chiaro ) con le melodie a fronda di limone di D'Alessio e col rap di Clementino che - si spera - quest'anno lascerà a casa il vento, i bastimenti e le valigie di cartone. Qualche anno fa, a portare un po' di napoletanità senza che i versi si ungessero per forza di soli, pizze, caffé, pescivendoli, camorre, immigrazioni e com'è bello il lungomareliberato anche se si spara nei vicoli di Forcella, prima d'inciampare nell'obbligo (?) di produrre qualcosa in dialetto, ci aveva provato anche Giovanni Block ( un altro che, negli anni, ha vinto tutti i premi più importanti destinati ai cantautori: non che siano importanti i premi, non almeno nel gioco delle qualità, intendo. Se uno è bravo è bravo, a prescindere dai riconoscimenti - e in giro, qualcuno bravo ma che non vince nemmeno la bolletta alla domenica pure c'è - ma, sapete com'è, dal momento che ci sono, i premi, una volta vinti, non arrivare al grande pubblico suona un po' come una bestemmia ). La canzone era bella. Forse per questo gli furono preferiti altri. Quindi, sempre secondo me ( eh, sia chiaro) la presenza di Maldestro potrebbe essere una bella novità per la regione, per la provincia, per la napoletanità: essere di questa terra, amarla - per carità, chi dice niente, chi dice il contrario - senza però portarne - per forza - onori ed oneri. Anche se... Già, nel titolo ci ho messo un però. Sia chiaro, Maldestro a me piace, tuttavia ho la sensazione che, come al solito, la canzone sanremese non sia mai quella migliore dell'artista, e anche se forse è pure giusto così, la cosa mi dà da sempre un po' di orticaria. Come riempire una valigia di abiti che non hai mai messo in vita tua ma che, siccome ti hanno invitato a questo ricevimento e non puoi mancare ( altrimenti rischi il licenziamento, o che un treno ti prenda in pieno volto e non sei Anna Karenina, o il rimpasto con al Governo Gentiloni, o la Boschi ancora lì ma senza il seno in bella mostra, o eccetera eccetera) non puoi far altro che provare a cucirteli addosso, alla meglio. Chiariamo, "Canzone per Federica" ha delle belle frasi ( Sarà il tuo libero arbitrio a incasinarti l’umore) ma anche una bella dose di vecchie perifrasi già sentite di concetti già cantati e letti ( Sarà che ogni caduta è l’inizio di un altro volo) chiuse in versi dalle rime un pochetto telecomandate; una metrica moderna, semplice ( e questo può non essere assolutamente un problema), leggermente poppizzata ( come la parentesi di cui sopra). Detto questo, però, senza farci troppe seghe mentali, la canzone c'è, funziona pure, interessante anche quel "Sarà che" posto in anafora ad ogni strofa, molto simile ad una domanda retorica, tesa su di un filo a precipizio tra dubbio e mezze certezze, ma lascia - almeno a me - il senso di una possibilità squisitamente artistica (non semplicemente musicale) sprecata. Il senso dell' accontentarsi. Il senso del il ragazzo è bravo ma non si è impegnato. Come avere il talento di Cristiano Ronaldo e presentarsi a calciare il rigore decisivo con gli scarpini stretti e scemi di Pellé: resti figo, pieno di soldi e femmine, bravo, con un talento grande così, magari lo segni pure il rigore ma... Insomma, resto contento per la cosa in sé, per Maldestro e per l'artista che è, un po' meno per la canzone. Ma sarà un problema tutto mio, ne sono certo. In attesa di fare il tifo per lui, a prescindere, perché Maldestro è forte davvero ( e per quelli forti non si può non fare il tifo), godiamoci questa ventata di napoletanità sanremese liberatasi - almeno per un po' - della zavorra di appartenere a una terra tanto bella quanto pesante. Ricordo che da piccolo, quando montavo e smontavo le sorprese dell'ovetto kinder, mi pareva d'essere un ingegnere della Nasa. Guardavo il mio lavoro concluso con soddisfazione. Oggi, a quasi 30 anni, alle prese con istruzioni, viti di ogni tipo, mi sento semplicemente inadatto. Lo ammetto senza vergogna: negli anni, conficcando il naso più in mezzo ai libri che tra viti, chiodi, martelli e giraviti, anche appendere un quadro alla parete, è per me un'impresa erculea. E come la togli e come la metti, quel quadro resterà storto: ormai hai bucato la parete e, il massimo che puoi fare, è piegare un po' il chiodo sperando di riequlibrare il guaio che hai combinato. Perché, diciamocela tutto, noi degli anni '90 circa ( chi più, chi meno), a parte qualche raro caso che conferma la regola, nelle cose domestiche siamo degli 'nzallanuti nati. E sia chiaro: montare una scarpiera dell'IKEA è di una facilità disarmante, non riuscirci è da cerobrolesi. Io ce l'ho fatta. Tempo di assemblaggio: 2 ore e mezza. Peccato averlo montato al contrario. Ho dovuto rismontare tutto e cominciare daccapo. La bellezza dell'IKEA è nell'onestà. Che il mobile non sia altro che truciolato compresso, non hanno minimamente intenzione di nasconderlo: giri sotto sopra i piedi del tuo tavolino ikea e vedi miliardi di schegge abbracciati in un unico respiro in mezzo a due sottilissime striscioline di legno cartonato. E poi è conveniente. Certo, la convenienza sta soprattutto nel fatto che devi montartelo da solo, però è anche un modo per metterti alla prova. (Indipendenze, percorsi, svegliarsi presto la mattina, farsi il caffè, tornare tardi, il bucato, la cena, sdraiarsi nel letto stanchi, felici, contenti e poi riti di iniziazione, nuove routine da oleare montare e smontare, arrischiarsi, mettersi di nuovo alla prova, col cuore, ma soprattutto con le unghie, no, soprattutto col cuore). Tutti sono in grado di leggere e capire "Viaggio al termine della notte" di Céline; sei un vero uomo - un uomo fatto e finito .- solo se riesci a mettere in piedi, perfettamente e in poco tempo, un mobiletto dell'Ikea. Avete presente quando Homer, in una puntata de I Simpsons, cerca di montare un semplice barbecue e alla fine si ritrova con un ammasso di niente che viene però scambiata per un'opera d'arte contemporanea? Bene, la mia sfortuna è che, però, nessuno considera capolavori i miei piccoli fallimenti domestici. Se avviti al contrario i piedi della tua scarpiera, nessuno sta lì a farti un applauso. Anzi. Oddio, per chi è nato con la camicia cucita addosso, con tanto di iniziali cuciti sul taschino, la musica è sempre la stessa: sbaglia una canzone? vende centinaia di migliaia di copie; disegna uno scarabocchio? diventa il nuovo artista dell'anno; riscrive ad capocchiam alcuni articoli della costituzione? eccolo a capo di una nazione. Ci vuole fortuna anche in queste cose. Alla fine, a dirvela tutta, sono fiero di come mi è venuta la scarpiera. Certo, non l'ho costruita io, l'ho solo montata seguendo - male - i disegnini delle istruzioni, però anche queste sono soddisfazioni. Almeno fino alla prossima canzone. Sperando di sbagliarla. Vorrei dire una cosa, fare un commento che non rientri nel pentolone della tuttologia chiacchierata così come si chiacchiera di un gol di Hamsik. Non ne sono capace e quindi taccio. In realtà, sarebbero pochi anche quelli in grado di parlare di pallone, me compreso: un paio d'anni in una scuola calcio di periferia - il cui allenatore è stato un ex mariuolo, reintegrato in società dalla parrocchia di paese, il cui prete è stato, qualche anno prima, accusato di aver allungato le mani sulla figlia del panettiere, quello all'angolo, tra la chiesa stessa e il pescivendolo - no, non fa di te un esperto di calcio. Dico che è stato un ex mariuolo ché, eri talmente scarso che gli hai fatto preferire il contrabbando di grucce false dell'IKEA, invece di stare lì spiegarti come funziona il fuorigioco: non avresti comunque capito un cazzo. Il prete, poi, non è stato allontanato dalla chiesa ché, detto tra noi ( tra me, scrittore onnisciente che racconta, e te, lettore che prende per buono ciò che gli dico) ha sì allungato le mani sulla figlia del panettiere ( anche se nessuno del paese ha mai avuto uno straccio di prove), ma, ad ogni modo, quella, all'epoca dei fatti, aveva 32 anni e, su di sé, aveva fatto passare un po' tutti, persino il pescivendolo all'angolo ché, per quanto puzza, nemmeno la moglie si faceva più toccare e, allora, se il prete non ne aveva approfittato, non era prete, ma fesso. Che poi, parlando del pescivendolo, ad essere chiari, non è che la moglie non lo toccasse proprio: ogni tanto lo costringeva ad immergersi, a bagno maria, per quattro cinque ore, in una vasca contenente due terzi dei profumi più forti del mondo, poi, lo lasciava due tre ore fuori al balcone ad asciugarlo e a ventilarlo e, solo così, forse, si decideva ad assaggiare il pescato di giornata. Ma torniamo in America. Cioè, no, non ci siamo ancora stati, tantomeno saremmo - a quanto mi state facendo capire - i benvenuti, visti i tempi: sai, il sud, il meridione, la pelle ambrata e quella cosa lì chiamata immigrazione. Ad ogni modo, cosa pensare di questo voto? Si è detto di tutto, ho letto di tutto e non starò qui a fare cmd C cmd V (ctrl C ctrl V per i diversamente Apple). Sto cercando, in queste righe, lo spunto per dire qualcosa di diverso, di mai letto, di mai sentito, ma mi è difficile fare un ragionamento su di un Presidente di una nazione che, è vero, gestisce a suo piacimento, come i cassetti del bagno padronale, le basi militari di intere nazioni ma, è così distante - fisicamente/geograficamente - che non riesco a farmene un cruccio. Non l'ho scelto io, non l'hai scelto tu. E nemmeno gli Americani l'hanno scelto: non tutti. L'errore di fabbrica della democrazia: sei persone su dieci decidono il destino di altre quattro. Ops, sono cose già dette queste. Ed è stato già detto che è facile, di questi tempi, ormai dimenticati gli orrori lontani del secolo scorso, far leva sull'odio, l'intolleranza, l'insoddisfazione, l'ignoranza. Ci riescono in pochi, ma hanno quasi sempre le stesse caratteristiche: egocentrici, sessisti, accentratori mediatici, carismatici, con parecchie tare mentali. Ma, personalmente, non è tanto Trump ad inquietarmi, le follie del personaggio, le amenità della campagna elettorale, né il cadavere di Garfield come parrucchino (altra cosa già detta, più o meno). Mi inquieta il suo popolo. Mi inquieta il popolo che non legge, il popolo che dimentica o che non vuole ricordare, il popolo indifferente, il popolo dell'inciucio televisivo facile, mi inquieta il popolo che non sa innamorarsi degli occhi e dell'anima che si aggrappa dietro a questi e però si lascia entusiasmare feticisticamente dal corpo, dall'estetica, dal bisturi, dalle protesi al seno; mi inquieta il popolo che non conosce il piacere del cibo, di apprezzare i diversi sapori di un piatto, né quindi capire che le pietanze più buone sono quelle uniscono e non quelle che dividono gli ingredienti; mi inquieta il popolo del fast food, il popolo della fretta, che non ama osservare, ragionare, dialogare, litigare, comprendere, tornare ad osservare; mi inquieta il popolo che crede che tutte queste inquietudini siano elucubrazioni da intellettuale vecchio, retorico e incapace di vedere alle qualità dell'uomo medium mediatico in grado di far breccia nel cuore di milioni di cittadini uguali a lui: egoisti, xenofobi e guerrafondai; di fatto, forse è vero che tra Trump e la Clinton non ci sono differenze blàblàblà ( tipo che la Clinton è stata percepita come parte del potere, mentre Trump come il cafone, l'uomo del popolo, che ce l'ha fatta), ma è proprio questo il punto: che i sei decimi del popolo americano hanno scelto un uomo a sua immagine e somiglianza; (dunque) mi inquieta il popolo nazionalista, il popolo dei muri, dei recinti, dei silenzi e delle urla. Di fatto, mi inquieta l'Italia, mi inquieta il mondo che ne sta uscendo fuori. Però, com'era la storia della democrazia? Su dieci, sei decidono? Bene, gli altri quattro gli fanno il culo a stelle e strisce. Eh sì, sono stato retorico, ho scritto forse una cosa vecchia, ma la colpa è della moglie del pescivendolo che mi ha detto che nel pesce c'è tanto fosforo, fa bene alla memoria, e ha aggiunto che allenare la mente fa bene e, a lei, non sfugge mai nessun ricordo. Chi scrive ha provato, con discutibili risultati e nel suo piccolo, per carità, a coniugare musica e letteratura. Non sono un dylaniano, non conosco a fondo le sue opere e la mia ignoranza anglofonica non mi permette di poter analizzare con squisite competenze né lo stile di Dylan né le motivazioni della commissione del Nobel, in merito alla stessa assegnazione del premio: «Ha creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana». Nulla di nuovo: si è sempre detto, parlando di cantautori, che siamo un po' tutti figli, consapevolmente o no, di Dylan. Ma parlando di letteratura? Ha detto Baricco: «Premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perchè c'e' una bella musicalità nella sua narrativa». È evidente che Baricco, almeno da quanto dimostra con questo commento, non è consapevole delle logiche di molti premi musicali, come il Grammy stesso, per esempio: vendite, fama, visualizzazioni, numero di copie di dischi venduti, glamouralità. Se poi le canzoni sono belle, se c'è dell'arte nei testi, è tutto in più, ma se Baricco ambisce al Grammy... «Allora anche gli architetti possono essere considerati poeti», ha aggiunto l'autore di Oceano Mare. Sì, anche i pizzaioli, i pasticceri che sfornano sfogliatelle, babà e pastiere. Tutto è poesia, volendo. Per qualcuno, c'è della poesia pure nell'ammirare il proprio stronzo che galleggia sul fondo del cesso. Baricco confonde il mezzo con il soul o ha sclerato come sclera un tifoso di calcio quando la sua squadra ha perso con l'ultima in classifica? Può darsi, ma perché è così inammissibile che un autore di canzoni possa vincere il premio nobel per la letteratura? E perché la canzone viene vista come un'opera letteraria da bassa classifica o peggio come un prodotto non letterario? Probabilmente ci si dimentica, a causa dei tanti autori stanchi di inseguire l'invenzione e più inclini invece a scrivacchiare le stesse storie, con le stesse parole, con le stesse modalità, che la canzone è un'opera che è fatta di un testo che, in quanto tale, se ben scritto, se non prostituito al motivetto e a figurazioni per forza standardizzabili, può sopravvivere anche se strappata dalla sua melodia: cioè, può anche essere letto. Al di là dei retaggi storici, al di là del fatto che la poesia, in origine, era destinata ad essere cantata, accompagnata da uno strumento ( come la Lira: da qui il termine lirica); al di là del fatto che il romanzo contemporaneo è una forma di letteratura giovane giovanissima, rispetto alla poesia, al madrigale, al teatro, alla canzone (e i librettisti che hanno faticato insieme ai compositori, quando ancora autori del testo e della musica erano due persone diverse? e Fernanda Pivano, lei sì esperta e amante della Letteratura Americana, fronte dal quale tutti si aspettavano il Nobel '16, letteralmente prostratasi di fronte alla letterarietà della scrittura di De André?); al di là del fatto che chi polemizza sembra ripescare dal cascione la vecchia, stantia e inopportuna discussione sui generi letterari; al di là del fatto che, solitamente - e basta leggere le motivazioni - il comitato del Nobel per la letteratura premia, dell'autore, le innovazioni stilistiche, linguistiche ed ideologiche che ha saputo portare nel suo campo, qualsiasi esso sia, qualsiasi destinazione esecutiva abbia: narrativa, filologia, teatro, storia, poesia e da quest'anno la canzone. L'importante è che ci siano di mezzo le parole; ed al di là di tutto questo resta, probabilmente, che la canzone è forse l'unico esempio di esercizio letterario per eccellenza. Figure retoriche, capacità di sintesi, dilatazione dell'io lirico, con la canzone si possono raccontare storie d'amore, storie di guerra, storie d'umanità, storie di rivoluzione di ideologie, storie di fate, galli e volpi, storie di principi ed orchi, storie di principesse e bollette da pagare, storie. Repetita iuvant: lasciamo stare le condizioni in cui riversa gran parte della canzone contemporanea ( grandi e piccini, Major e Indie) se consapevoli dei mezzi a disposizione ( figure metriche, retoriche ecc...) la canzone ha una sua nobile potenza espressiva; forse più contemporanea e veloce (futuristicamente parlando) di romanzo, cinema e teatro. Sicuramente cambia la funziona fàtica, cioè il canale attraverso cui passa il messaggio, ma si ha sempre a che fare con le parole, con il ruolo che hanno queste all'interno di un verso, di un paragrafo, di una scena, di un dialogo, di un microfono. E se una canzone sopravvive alla melodia, al giro armonico, e vi restano dentro le parole e l'emozione che queste si trascinano, che senso ha tutta questa discussione? Vi frega il supporto? E allora prendete un bel libro, cantatelo ad alta voce; prendete un disco, estraetene il libretto dei testi e recitatene i versi. Poi ne riparliamo. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché, domani, devo comunque svegliarmi alle sei e starmene in piedi sei ore, per strada, al freddo, per guadagnarmi la giornata. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché c'è la pausa campionato per colpa della Nazionale. Però, dai, può darsi che Ventura darà una nuova filosofia di gioco alla squadra, Montolivo e Thiago Motta torneranno a spingere carrelli all'Auchan e Balotelli finalmente metterà la testa a posto. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché Ilicic mi ha sbagliato il rigore al fantacalcio. Non ho vinto per un punto. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché non so nemmeno cosa sia l'epilessia. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché Napoli è bella, sì, e sono i pastori che la rovinano. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché ho deciso che il prossimo Natale metterò solo l'albero. Non me ne frega di Stefano Cucchi, nemmeno di Borsellino, Falcone, Siani, Regeni. Figurati di Ustica. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché sono italiano, napoletano, egiziano, francese, inglese, newyorkese, nordcoreano, stronzo, egoista, menefreghista, autolesionista, stanco. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché si è rotta la lavatrice e non ho come aggiustarla. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché ho un cancro. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché ho troppe cose a cui pensare e devo lasciare un po' di spazio. Non me ne sono fregato quando è morto mio padre, figurati cosa penso di Stefano Cucchi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché fatico a trovare un lavoro decente. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché viviamo in un'epoca in cui diventare docente è un privilegio per pochi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché sono impegnato a capire cosa votare al prossimo Referendum. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché la lavatrice è ancora rotta ed io ho i piedi bagnati. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché è troppo un fatto di sinistra. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché la polizia pure fa il suo lavoro, ha i suoi problemi e per quello che guadagnano cosa vuoi che facciano? Non me ne frega di Stefano Cucchi perché sono stanco, autolesionista, menefreghista, egoista, stronzo, nordcoreano, newyorkese, inglese, francese, egiziano, napoletano, italiano. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché Anita Raja non è Elena Ferrante, cioè forse sì, non si sa, dipende se si è venduto o meno un migliaio di copie in più, non ne ho idea, però ora devo comprarmi il suo ultimo libro urgentemente. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché tanto Dio punirà i suoi assassini, li condannerà all'inferno, che ci importa farci il fegato amaro qui sulla terra. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché ho altro a cui pensare. Hai visto ieri il Grande Fratello Vip? Non me ne frega di Stefano Cucchi perché domani ho un esame troppo troppo difficile, devo studiare bene, la mia memoria già fa schifo e, mado' che ansia. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché poi, se ci pensi, se non lo scrivevano su facebook tu mica te ne saresti ricordato? Non me ne frega di Stefano Cucchi perché ho fame e ho voglia di qualcosa di buono, tipo quel panino di quel pub assai carino sulla variante, quello con dentro prosciutto crudo, mozzarella, panzarotto, soffritto, frittatina, patatine, alici fritte, alici marinate, zeppole, maionese, ketchup, l'assorbente della cuoca, un pezzo d'unghia del pelatore di patate, provola, sottiletta, cheddar, formaggio, salame, melanzane sott'olio, melanzane a funghetto, peperone imbottito, parmigiana. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché c'è la fame nel mondo. Non me ne frega di Stefano Cucchi però, guarda, ho scritto una canzone figa da cantautore bucchinaro e che parla d'amore, di un amore che finisce, mentre alle spalle il tramonto si mangia il mare di Napoli che è sempre la solita Napoli un po' stronza, un po' a vicariello niro niro, però bello assai perché folkloristico e uèuè com'è bello stare qua, col caffè, la sfogliatella e la signora coi baffi che sembra un maschio, ma in realtà è una parcheggiatrice abusiva. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché non tutti arriveranno alla fine di questo post. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché probabilmente si fermeranno al titolo. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché il mondo è schifoso assai già di suo, figurati se devo preoccuparmi degli altri. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché probabilmente Stefano Cucchi se ne sarebbe fregato di uno Stefano Cucchi qualsiasi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché si è rotto lo scarico del cesso e se ci metti la lavatrice, sto nella merda e con l'acqua alla gola. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché aspetta aspetta, ho un impegno, ci vediamo dopo. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché lavoro per cinque euro all'ora lordi e però se ci pensi sono fortunato, cioè pensa a chi sta peggio di me, cioè tipo Stefano Cucchi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché la Juventus ruba e se rubano per buttare dentro a due pali e ad una rete, altrimenti detta porta, figurati se se ne fottono di Stefano Cucchi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché la polizia è buona sempre. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché Benigni ha detto che la nostra costituzione è la più bella del mondo, però una ragazza bella bella bella pure ha i suoi difetti; magari un ritocchino lì, un ritocchino qui. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché hai visto Valeria Marini a furia di ritoccarsi come si è combinata? Non me ne frega di Stefano Cucchi perché a furia di toccarsi e ritoccarsi la gatta fece i figli cecati e il pisello pieno di graffi. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché, sai, ho conosciuto un ragazzo carino assai, però soffre di epilessia e non vorrei che mi muore picchiato dalla polizia. Non me ne frega di Stefano Cucchi perché potrei continuare all'infinito e, come vi ho detto, si è rotto lo scarico del cesso, ho da fare. In realtà, non è così difficile come si crede, credo. Cioè, basterebbe poco, che poi proprio poco non è: un bel programma, dei saggi che ti chiarifichino ogni piccola cosa, un professore che ami fare quello che fa (miracolo tra i miracoli), un'edizione fortunatamente pignola che, passo dopo passo, con passione (repetita iuvant), ti indichi pure il momento esatto in cui Manzoni, stanco di stare piegato sulle sue carte zozze d'inchiostro, ha fatto una pausetta, per sgranchirsi le gambe e per fumarsi un cannone*. Però, lontano dalla folla ché è agorafobico; magari a pochi passi dal figlio che sta giocando coi porcellini d'india. Qualcuno lo ritiene un lavoro pedante, forse resta comunque difficile avvicinare un liceale alle mille pagine e passa manzoniane, obbligandolo a stare lì a spulciare ogni singola nota per capire bene i corsi e i ricorsi di Renzo e Lucia. Probabilmente, a questo tipo di letture, continuerà a preferire altro. Un libro (qualsiasi), nelle migliori delle ipotesi. Non so cosa, nelle peggiori. Ma... Tralasciando le pur interessanti tarantelle o querelle - per dirla alla maniera dei francesi - tra chi ritiene i Promessi un capolavoro indiscusso e chi qualcosina deve dirla per forza, altrimenti si fermerebbe ogni tipo di validissima analisi, non si venderebbero più libri, si arresterebbe la ricerca, devo constatare che, grazie a questa edizione (diretta da Francesco de Cristofaro e realizzata da un'equipe multidisciplinare di studiosi della Federico II), dopo anni di tedio, odio, pregiudizio, schifo, finalmente posso dirlo: mi sono innamorato de "I Promessi Sposi". E non come quando, a piazza Bellini, bevi talmente tanto ché sei pronto a flirtarti la prima scorza di pelle, capelli e rossetto ti si avvicini (un'esplosione di passione ché ne rimarrebbe contenta la Lorenzin). No, è più come quando la tua compagna di classe vuole a tutti i costi uscire con te, ma tu la ripudi, semmai fai finta di niente, perché bruttina, mal vestita, in apparenza poco interessante, insomma un anatroccolo. E poi passano gli anni e qualcuno ti fa notare, con tanto di numeretto a piè di pagina, che sta maturando bene, si è fatta carina ed è - guarda caso - assai più interessante di quanto non lo fosse prima, l'anatroccolo di cui sopra. La differenza è che la letteratura non ha la cazzimma di vendicarsi per quello che (non) hai fatto quando tenevi 16 anni ed eri un idiota. Piano piano, se c'è l'amore ( e la salute), si recupera tutto. Più o meno.
Cosa stavo facendo? Ah sì. "Offerte di Lavoro", ecco. Nuove assunzioni nelle poste, nella banca, nella bancarella di Giggino il fruttaiolo che non ti piglia a lavorare se non hai minimo 30 anni di esperienza nel settore dei mercati di Villa Literno, cercasi centralinista, nuove assunzioni per azienda start up, cercasi persona brillante, discrete capacità comunicative, bella presenza, disponibile, automunito, possibilità di migliorare il proprio ruolo nell'azienda, fisso di 400 euro comprensivo di fallo roteante comodamente saldato sulla sedia che noi, la nuova azienda leader nel settore, ti offriamo in omaggio, insieme ad un corposo corso di formazione gratuito di due ore e trentatré minuti, tramite il quale ti insegneremo le allettanti offerte dell'azienda che noi rappresentiamo e, soprattutto, ti illustreremo la nobile arte dell'abbordare docili anziane e costringerle a sottoscrivere contratti con i quali tu, persona brillante dalle discrete capacità comunicative, non farai un cazzo ché, per godere dei bonus incentivi, dovrai farne altri 10.000 e passa. Cercasi operatore sociosanitario nel settore enogastronomico. Questo mi sembra buono, ma cos'è? In pratica, devi controllare se i pizzaioli, dopo aver pisciato, si sono lavate le mani. Ottimo e la paga? La paga è a cottimo. Cioè? Ogni germe stanato sono dieci centesimi di euro, più la mancia se il cliente richiede un supplemento extra di margherita prosciutto, crocché, mais, panna, cocktail di gamberetti, ricotta, uovo sodo, rucola, scaglie di parmigiano e l'ingrediente segreto a scelta dello chef. Interessante, interessante. Dopo invio il curriculum. Bene, bene. Dicevamo? Ah sì, San Gennaro. Approfitto per farti una richiesta. Allora, San Gennaro, visto che ora ti sei un po' sciolto, ti sei riscaldato e c'hai le mani belle e pronte, potresti, non dico farmi un miracolo, né una grazia, dico, semplicemente un favore? No, no, non preoccuparti, non pretendo nessun numero al superenalotto, né lo scudetto del Napoli, nemmeno la salute, figurati se mi permetto di chiedere a te una cosa di soldi. Nulla di tutto ciò, dico soltanto: visto che mo' c'hai le mani calde, non è che potresti fare una scaricata di paccheri non a tutti i napoletani, nemmeno a quelli che davvero vogliono bene alla mia città, ma solo a quelli che speculano e campano col folklore in tasca e la cornucopia sotto al braccio piena piena di sfogliatelle, pizze a portafoglio, cornicielli e il poster di Maradona abbracciato a Totò e a Pino Daniele, a quelli che vendono, a venti centesimi al chilo, guantiere di fatue, vacanti, campanilistiche ed opportunistiche identità? No, così, per lo sfizio di vedere poi come va. Grazie San Genna'. Guardando con attenzione il social questa è una delle prime riflessioni.
"Non sono d'accordo con la tua idea, ma lotterò affinché tu possa esprimerla". Col cazzo! Cioè sì, può anche darsi, l'importante è che tu però ammetta di essere una capra. Si avverte, e mi ci butto anche io nella brodaglia (ché siamo tutti perfettibili), un senso di autoritarismo d'ancien régime. Riconosco, nei miei modi di fare, un sarcasmo estremamente cinico che, a detta degli altri, mi fa sembrare pedante e presuntuoso. Lo so e, tante volte, mi ci diverto ad interpretare questo tipo di ruolo: è che spesso mi sento migliore di voi, che posso farci? Scherzo scherzo. Sapeste che fatica si fa a partorire un'idea, tenersela stretta, lasciarla andare quando ci si rende conto di aver sbagliato, stare sul filo tra coerenza e riflessione, capire che della coerenza non te ne fai nulla: l'importante è avere ragione. Scherzo, di nuovo. Di fatto, c'è da una tendenza da registrare: che sia un giornalista, una Selvaggia Lucarelli, un intellettuale o un webete ( che fa tanto nome da Pokemon, di quelli comuni che, quando si evolvono, non servono comunque a un cazzo) la mia opinione è e sarà sempre migliore della tua. Punto, stop. E da un certo punto di vista mi pare anche tautologico: se io, al secolo, Caio Sempronio, ho una certa idea è perché credo sia migliore delle altre, altrimenti la cambierei, mica so' fesso. "Spalanca il tuo orizzonte, apri la mente". Ritornelli e contro canti. Caio invita Sempronio ad aprire la mente; Sempronio, a sua volta, consiglia Caio a rivalutare attentamente le sue affermazioni al fine di raggiungere una più stigmatizzata conclusione della contesa; Tizio se ne sbatte proprio e manda tutti a cagare. Nulla di problematico se a sbattersene sono, per l'appunto, i Caio, i Sempronio e compagnia cantando; non ce ne frega un cazzo se la Parrucchiera di Casapurchiano, che ha alle spalle due mariti morti, una relazione con un Pakistano ricchione che vive a Gianturco, tre figli e la quinta elementare, si scandalizza per una vignetta o trova incomprensibile l'astio nei confronti di uomini donne e ricchioni che perpetrano una subcultura kitsch voyeristica fatta di inciuci e pianti da soap opera sud americana, prodotta con 2 euro, IVA inclusa. Nemmeno se a farlo è uno pseudo cantautore scrittore che s'atteggia ad intellettuale che, in realtà, nessuno si caga. No, sticazzi. Il problema è quando sono i Mentana e gli Scanzi (due dei quali verso nutro la maggior stima) ad erigersi a divulgatori del divin pensiero. Finisce il giornalismo della notizia (possibilmente) obiettiva, inizia l'editoriale soggettivissimo moralizzante. Non un'analisi, non un'indagine. No: L'OPINIONE. O sei con me o sei un webete. E lo sei, non perché magari hai detto una cazzata (perché non dimentichiamoci che le cazzate si dicono, si devono dire, altrimenti passa l'idea che non si possa pure esprimere pensieri: le cazzate vanno dette proprio per trasformare la suddetta cazzata in un interessante scambio di opinioni), ma semplicemente perché sei un signor nessuno. Non perché le tue riflessioni poggiano su fondamenta dalla consistenza di una lasagna disegnata da vignettisti francesi; no, semplicemente perché sei un signor nessuno. Non perché magari - ti si dice che - in quel particolare argomento non ne hai le competenze; no, ma perché sei un signor nessuno. Non perché sei un emerito imbecille; no, ma perché sei un signor nessuno, ed io sono io, il sommo. Ci sono due tipi di opinioni: a) quelle che si basano solo su idee personale ad minchiam dell'interlocutore, senza cercare di riscontrarne il fondamento con la realtà; e, anzi, se il battibeccare riguarda aspetti di tipo antropo-esistenzialistico, analizzano - per così dire - la tua riflessione (magari cinica e sarcastica) attraverso domande del tipo ma tu non soffri? e se fosse capitato a te? Come se fossimo tutti fatti con gli stampini, tutti uguali, tutti con le stesse bestemmie sotto al palato, tutti con la stessa timeline; b) quelle che, al contrario, provano quanto meno di informarsi, capire, documentarsi, relazionandosi all'idea che, a meno che tu non sia Leonardo Da Vinci e viva nel 1450 e dispari, non puoi sapere tutto e avere un'opinione su tutto! E la generazione a venire starà peggio rovinata perché nata direttamente nel carcere del web: i cosiddetti internati... ...ma, ad ogni modo, è normale questo feroce mitragliare considerazioni su tutto: è il web che ce lo impone con i suoi subdoli meccanismi. Hai la tua bacheca, i tuoi contatti, la tua qwerty, le tue cose, il tuo mondo è lì, con le dita anchilosate che hanno voglia di sgranchirsi e, quando viene messo in piazza il nuovo argomento su cui poter digitalizzare la tua idea - filosofica metafisica moralistica ontologica -, ti sale l'orgasmo e in un attimo sborri e sqwerty (per la par condicio) dappertutto. E fino a quando parliamo di onanismo, ognuno ha il diritto di vivere come può ( la verità ti fa male lo so♪ ); ma quando si arriva a voler giganteggiare... a voler scopare per godere da soli, col proprio pisello, altro che contratto sociale tra gentiluomini. Olio di ricino e camere a gas. Mein Führer! Buttate la chiave! |
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March 2019
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