“Ciaoooo. Come stai?”’ “ Bene, tesoro mio. E tu”? “ Insomma”. “ Cos’è successo? Dì tutto a me. Lo sai: sei la mia nipotina preferita e per te farei di tutto”. “ Ma niente. Oggi ho litigato con uno a scuola”. Lo disse arricciando la bocca, come quando viene da piangere proprio mentre stai parlando e si è convinti di trattenere così le lacrime. Tu parli per non farlo, per orgoglio, forse, ma anche per vergogna. Ma che ne sanno i bambini dell'orgoglio? “ Ah… Vieni qui e siediti sulle mie ginocchia, così mi racconti. A-aa… Stai comoda”? “ Shi”. “ Dai, su… dimmi, come mai hai litigato con ‘uno’ ”? “ Giura però che non lo dirai alla mamma e nemmeno a papà”. “ Giuro”! “ No, con le dita no. Mi hanno detto che per fare una promessa basta stringersi la mano. Così fanno i grandi: baciare o incrociare le dita è da bambini”. “ mmmm... ook... vediamo... eccola.... qua la mano. Così fanno i grandi hai detto, giusto”? “ Così mi hanno detto”. “ Dai, non fare così, sorridi...ecco così... dimmi tutto”. “ Ma niente, ho litigato con questo perché…” “ Su, dimmi. Non ti preoccupare. Perché avete litigato”? “ Un momento. Fammelo dire…”. “ Hai ragione, scusa… ”? “ aaallora...c'è questo mio compagno di scuola. Dice che le storie delle favole che la mamma mi legge la sera sono tutte bugie”. “ E tu gli hai creduto”? “ No, però mi ha demoralizzata”. “ Eeee. Cos’è questa brutta parola? Chi te l’ha insegnata”? “ Quale”? “ Hai otto anni, non puoi essere DE-MO-RA-LI-ZZATA”! “ E invece sì. Perché ci credo in quelle favole. Ci credo che Ansel e Gretel alla fine riescono a scappare dalla vecchia strega, ad esempio… Oppure che Biancaneve trova il suo principe azzurro… Perché sorridi”? “ Perché sei sveglia e sono tanto felice che tu lo sia”… “ Si ma chi ha ragione? Io sogno di restare piccola per sempre, come Peter Pan. Lo sai? È la mia fiaba preferita”. “ Lo so. Tua mamma me l’ha detto”. “ Allora”? “ Cosa”? “ lì fuori è veramente diverso dalle storie che mi racconta la mamma”? “ Sì”. “...”. “...”. “ Ma allora perché me le racconta? Perché mi legge tante bugie”? Si gettò dritta nei miei occhi. Pretendeva una risposta, una sola, una qualunque, ma che fosse vera. Le poggiai così una mano sulle guance, poi, stringendole piano piano il nasino tra l’indice e il medio, come quando era più piccola, provai a sorriderle, sperando di prendere tempo, provando a cambiare discorso, ma fu inutile. Avrà pensato sei proprio un idiota, ma mia nipote è troppo educata per dirmelo. Non ci fu modo di prendere tempo, di cambiare discorso. Niente, proprio non voleva. Anzi, continuò a fissarmi con quei suoi occhi attenti e vispi. Non me li toglieva da dosso, come a voler appigliarsi a me con forza, occhi come uncini, obbligandomi a stare lì, senza scappare. “Ascoltami bene Fefi: Non è facile capire certe cose. E, a dire il vero, non so nemmeno se sono in grado di spiegartele. Quindi, davvero, seguimi e non distrarti. Ok”? Mi fece di sì con la testolina, con occhi ancora più grandi e speranzosi, puntati su di me come due obiettivi da cinepresa. “ Ok. Allora... Il mondo lì fuori è e sarà diverso da come tu te lo immagini. Qualcuno, un giorno, ti dirà che tutto ciò in cui credi è una stupida uto…mmm come dire... solo un sogno irrealizzabile, ma tu non devi ascoltarli. Nemmeno se a dirtele sono le persone che vuoi più bene. A volte, parleranno per invidia perché, vedi, a loro nessuno gliele ha lette le fiabe, nemmeno da bambini. Altre volte, dicendoti che è tutto finto, che la realtà è un'altra, penseranno sia un modo per aiutarti, ma se vuoi resistere, se vuoi davvero proteggerle le tue fiabe, ti do un piccolo consiglio: conserva dentro al tuo cuoricino tutto ciò in cui credi fermamente, e se avrai voglia di condividerli con gli altri, fallo pure, perché sarà una cosa giusta. Anzi, cerca di spiegare sempre il perché ci tieni tanto alle tue storie. Non averne mai vergogna. Anche quando non capiranno, perché è molto probabile che non ci riusciranno ma tu, Fefi, tu dà loro un motivo per tacere, convincili che a sbagliare sono soltanto loro. Forse ti diranno che prima o poi te ne fregherai delle fiabe, delle storie e dei libri, che basterà diventare adulti, per non crederci più. Tu però non credergli. Non farlo mai. Promettimelo, promettimi che crederai sempre alle fiabe. Ti prego”. “ Ok. Ci crederò”. “ Sempre”? “ Sì”. “ Qua la mano”? “ Qua la mano..” “ Ti voglio bene, Fefi”. “ Anche io, perché sei tanto intelligente e sono felice che tu lo sia”. Niente male la mia nipotina, eh? E questa è una storia. Un'altra è questa, leggi leggi, ascolta: era un pomeriggio freddo, stavo dandole una mano coi compiti. Stavamo leggendo insieme un passo de "La Gabbianella e il gatto" di Luis Sepulveda e ad un certo punto mi chiede: “Ma cosa sono le a-a-aringhe”? “ Dei pesciolini mooooolti piccoli”. “ Ah….E i gabbiani mangiano le aringhe” ? “ Sì….”. Pausa. Si guardò le mani come a volersi cercare le risposte tra le dita. Sbuffò, quasi irrequieta, perché non ne trovò nessuna. “ Ma io non capisco! sono esseri viventi! Perché mangiano altri esseri viventi”?! Ti giuro, non trovai nulla di meglio da dirle che questo: “ Ma perché hanno fame e le aringhe sono il loro piatto preferito…” “ Piatto preferito”? Aveva gli occhi lucidi di dubbio. Era una filosofa alle prese con riflessioni più grandi anche di me. “ Sì…” “ Ma anche noi mangiamo altri animali”? “ Beh… sì”. “ Oh, no…” “ Che c’è”? “ Anche il gatto”? “ No, macché! Il gatto no…” “ Ah… Menomale… non potrei mai mangiare la mia Cenerentola…Ma perché ce li mangiamo? Non capisco proprio…Io non vorrei mai essere mangiata da un animale”. “ Ma ci sono animali che potrebbero farlo, come il leone”. Mi pentii subito di aver risposto in questo modo: ingenuamente, pensai che sarebbe stato difficile, per una bambina di otto anni, capire certe cose senza che... cioè, capitemi, dire ad una bambina che esistono animali che possono sbranarti - anche se è un'eventualità remota - non è poi così normale. Sono cose serie queste, eh, mica facili, ma mioddio, perdona la mia ingenuità: Fefy, con la tipica vocina pungente di chi la sa lunga, mi rispose: “ Ma il leone non lo sa”… “ Che cosa”? “ Che non è giusto mangiare altri animali"! Poi fu orario di pranzo, la mamma venne per prendersela. Menomale. Proprio non avrei saputo come fare per continuare a tenere testa alla sua curiosità. Eppure.. senti… leggi qua: qualche giorno dopo tornò a trovarmi e, senza aver dimenticato il discorso, come a voler a tutti i costi concludere un pensiero interrotto, tutto d'uno soffio, per paura che la interrompessi, mi disse: “ Non è giusto mangiare chi corre, nuota o sogna di volare come me”… Disarmante. Vero? Ma di che mi stupisco più? Una volta, la madre la portò al circo. Era la prima volta che ci andava. Aveva quattro anni. C'erano i trapezisti, i giocolieri, i pagliacci... Fefy sembrava divertita. Aveva la vaschetta del popcorn tra le mani. Poi uscirono i leoni, le tigri, gli struzzi, gli elefanti, le foche, i leocorni, le fruste, i cerchi infuocati, le gabbie... Fefy cambiò espressione. “ Guarda Fefy, a mamma, i leoni... sono belli vero”? La piccola fece cadere del pop corn. “ Che c'è Fefy, a mamma”? Poi la frusta colpì, si sentì un lamento, poi un ruggito del domatore. Il popcorn continuava a cadere dove voleva. Era dappertutto, sotto le suole, tra le sedie, nei calzini, per terra. “ Mamma, scusa... ma perché gli animali sono qui dentro e non nella foreeesta”? Lo disse con un filino di voce, tremante, perplessa. La mamma mi racconta sempre che ne rimase spiazzata. Ebbe quasi vergogna nel sentire la figlia farle una domanda così semplice ma, a pensarci, che ne sanno certi adulti della vergogna? “ Fefy, guarda, se vuoi, ce ne andiamo...” “ Sì mamma... però mi compri il popcoooorn”?
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Le sigarette, la droga, il cibo, la masturbazione, una corsa, una birra, due birre, tre birre, un pianto, un libro di Bruno Vespa. Tante sono le terapie possibili per debellare - quotidianamante - la malattia più atroce dei nostri tempi: la pucundria. E chi è napoletano lo sa: la pucundria, come diceva Pino Daniele, può sbatterti ogni minuto in petto, arriva quando meno te ne accorgi, all'improvviso, pure mentre stai prendendo un caffè da solo, pure mentre stai guardandoti la tv per i cazzi tuoi; già, e ti piglia quando sei più stanco, distratto, quando sei più debole, indifeso, e senti improvvisamente che ti manca qualcosa, forse qualcuno. Un desiderio recondito, una tristezza ancestrale. Chi lo sa. Può significare tutto, può significare niente, ma in linea generale, la puncundria è una specie di catalogo astratto di aggregati negativi. Un sentimento che ti toglie la voglia di fare tutto. Però - dicevo - ci sono delle terapie. Ognuno ne ha una. La mia? Giuro, chi mi conosce lo sa: quando la pucundria sale a me, io mi metto al computer, apro Youtube e mi faccio un'overdose di Massimo Troisi. Film, interviste, sketch. Tutto. Il mio preferito è "Che ora è", di Ettore Scola e con Marcello Mastroianni: mi fa impazzire. Per il tema - il rapporto zigrinato tra un padre e un figlio - per la pacatezza della recitazione: qui, Troisi è Troisi, ma senza fare il Troisi. A volte, mi manca come fosse un amico mio a mancarmi. Eppure, l'ho conosciuto postumo. Il 1994, quando morì, tenevo sei anni. Chi cazzo fosse Massimo Troisi, non lo sapevo mica. Nemmeno mi ricordo come e quando arrivò la notizia. Papà mi dice sempre fu come se a morire fosse stato uno di famiglia. Tipo come con Pino Daniele. Già, deve essere andata proprio così. Lo amo ché, quando finalmente la pucundira mi passa e va a nascondersi di nuovo, a riposo, nelle intercapedini dei nervi più insicuri, mi sembra di svegliarmi come in un sogno e penso sia strano non avere la possibilità di conoscerlo e dirgli grazie. Almeno, non su questa terra, non in mezzo a queste onde gravitazionali, non in questo universo. Amo il suo linguaggio afasico, la balbuzie, l'incespicarsi su ogni singola parola, che è l'incertezza dell'anima, l'insicurezza di un uomo e dell'uomo che si fa parola; amo la sfacciataggine, l'espressività, il riso, il cinismo, quando ti dà un po' l'uno e un po' l'altro nello stesso sorriso, con l'acredine che ti esce fuori, a poco a poco, come quando l'ultima mandorla che ti porti alla bocca è amara, e ti viene dentro la malinconia del dolce; amo come riesce a scandire l'amore e le relazioni umane fin dentro il particolare, oltre le maschere, gli schemi e le pose; amo la sua napoletanità senza pretese, senza folklore, senza spaghetti e mandolini nascosti nelle pieghe dei pantaloni, sulle spalle, nelle tasche. Deve essere questo il motivo per cui lo amo. Soprattutto. A volte, ho la sensazione che ancora pochi sono quelli che ne hanno imparato bene la lezione, la sua e quella di Pino eh: orgogliosi di essere napoletani, ostentarlo anche, ma andando oltre, molto oltre. (Tiene la forma, l'uso del dialetto fino agli estremi - "Sono loro a doversi sforzare a capirmi" -, ma stravolge i contenuti: "un napoletano non può viaggiare e basta senza essere un emigrante "?) Come nel video qui sotto: con ironia, un po' di cinico sarcasmo, Troisi ci mette un niente a distruggere tutti i cliché: per chi ce li impone e per chi se li impone addosso. Oggi avrebbe compiuto 63 anni ed uno come lui, in questi giorni caotici, tristi, afflitti da una lunga e inconsolabile stagione di pucundria di stato, chissà cosa avrebbe detto, chissà cosa avrebbe fatto. Chissà come l'avrebbe detto e fatto. A volte me lo domando, a volte no, boh, ad ogni modo è inutile pensarci. Lui è lì: scolpito nella storia, pronto ad insegnarvi com'è che si sorride. Pigliatavillo, imparatelo a memoria, studiatelo, non avete scuse. E niente, io mi sono fatto, anche questa notte, la mia overdose. * Per chi se lo fosse chiesto: prendere un libro di Bruno Vespa cura eccome dalla pucundria. Come? Voi lo prendete e poi lo buttate nella spazzatura. Fatto? Ecco, non vi sentite meglio? << Lo so, è colpa mia. Gli ho detto che non lo amavo e che piuttosto mi sarei fatta suora. Già. Ho detto proprio così: suora, casta, sola, zitella, ma mai con lui. Lui mi ha creduto, per fortuna. Già. Perché sapevo bene che il destino, quando ci si mette, non fa altro che guai, figuriamoci a volercisi mettere in mezzo, a volergli stravolgere i piani. No, no. Si può far solo peggio. Si era solo invaghito di me, lo so io, poi lo ha capito pure lui. Diceva di amarmi, tesseva per me lodi cortesi, ma sapevo fosse tutta fuffa, e niente più. Attratto? Può darsi di sì, credo davvero bruciasse di passione per me, ma cos'è l'attrazione sessuale, il corpo, la carne, di fronte all'amore di tutta una vita? Niente. Già, dimenticavo: la vita. Avrei potuto salvarlo, avrei potuto dirgli "Oh Romeo, ti amo anche io, uniamo in matrimonio questo nostro ardore", l'avrei potuto fare, ma avrei sbagliato. Lui non mi amava sul serio, ve l'ho detto. Io? Beh, come vi ho raccontato, gli ho detto di non amarlo. Già, ma Dio solo sa quanto queste labbra, queste mani, questo corpo in realtà fremessero per ogni centimetro del suo; per ogni angolo della sua anima, avrei messo in vendita dieci volte la mia, se solo fossi stata sicura che i suoi sentimenti fossero stati sinceri, reali e non la semplice pretesa di un giovane qualunque che si mette in testa di fare bella mostra del proprio aspetto e delle sue capacità di corteggiatore. Ecco, era chiaro esasperasse a vuoto dei cliché. L'avevo capito, ma, credetemi, avrei dato qualsiasi cosa, avrei rinnegato anch'io il mio nome, affinché proprio così non fosse. Dio, sì, l'ho amato e l'amo tutt'ora, vedete? Vedete come fremo? Come mi agito? Lo vedete o no? E basta, basta, lasciatemi stare, andate via, devo calmarmi, basta, devo stare tranquilla. Qui si gela, nell'anima dico. Non c'è posto per la rabbia, tantomeno per i ricordi, figuriamoci per l'amore. Oggi, qui, regna il silenzio, nient'altro. Sì, sì, ve l'ho detto, ve lo ripeto, l'ho amato, ed è proprio per questo che l'ho lasciato andare via. Già. Una donna lo sa, sa bene quando non tocca a lei. La morte? Certo, mi ripeto, avrei potuto salvarlo, ma a che prezzo? Che fosse destinata a lei, lo sapevo. A lei tutto, e il corpo, e l'anima, tutto, e quindi niente: che se lo prendesse. Gliel'ho reso, senza tanti onori, senza imbellettare oltre la storia col mio nome. Non mi ci sono voluta mettere in mezzo io. Diteglielo a quelli lì. Sì, sono rimasta sola, mio padre mi ha rinnegata, mia madre mi ha odiato. Sono rimasta sola, perché irrimediabilmente legata a lui. Sebbene non mi amasse. Sì. Non mi amava, non mi ha mai amato. Lo sentivo? L'ho sognato? Me lo hanno raccontato? L'ho letto? Cosa importa a voi? Lo sapevo, e basta. Secondo voi, avrei dovuto invece confessargli il mio amore, prima che la incontrasse, prima che si maledicesse? Per cosa? Per legarlo a me? Così avrebbe avuto salva la vita, dite; e con ciò? "È preferibile l'aver amato e aver perso l'amore al non aver amato affatto", dicevano. Già, so bene quanto amore avrei potuto dargli, gli avrei restituito la vita, ma a che prezzo? Certe cose le capiamo dal principio, noi donne, sono gli uomini ad arrivarci tardi, troppo tardi. Io, da par mio, sapevo benissimo fosse destinato a morire d'amore per un'altra>>. Prima di innamorarsi perdutamente di Giulietta, Romeo corteggia, senza essere corrisposto, tale Rosalina. Shakespeare passa oltre, non racconta nulla di lei. Semplicemente, dice che è stato un innamoramento fatuo e superficiale, tant'è che Romeo, non appena incontra Giulietta, la dimentica totalmente. Mi sono limitato a immaginare questo soliloquio che, dall'eternità, porta a galla un'altra versione dei fatti. Ritratto di Paquio Proculo e sua moglie. Affresco, Museo Archeologico, Napoli 20, 30 d.c. Pompei. - Amo' - Che c'è ? - Ci ho pensato tanto e sono arrivata a questa conclusione: dovremmo farci un ritratto. - Un che? - Un ritratto. - E che è ? - Uff, non sai mai niente. Un ritratto è un disegno. - Eh, ma un disegno di cosa? - Di me e te. - Di me e te? - Mammamì, e che palle, devo spiegarti proprio tutto? Un ritratto di me e te, sì. - In che senso? - Allora. I ritratti li fanno i ricchi, no? A noi serve per dimostrare a tutti che adesso abbiamo più soldi, che siamo meglio di altri. E capito mo? - Ma di altri chi? - Ma come chi? I poveri, i parvenue, la plebaglia, 'e pezzente. - Ma perché dobbiamo fare questa cosa? Che ce ne dobbiamo fare. Io non ci capisco niente di pittura e nemmeno tu. Dai, noi siamo gente umile, io faccio il panettiere, papà era un sannita venuto come schiavo a Roma e, sì, sarà pure riuscito ad affrancarsi, ma resta che siamo pur sempre gente umile. I vicini lo sanno che viviamo del pane. Sarebbe comunque una palla bella e buona. Ci facciamo fessi da soli. - Ma dai, a parte che noi avremmo un ritratto e loro no, quindi, in ogni caso, un pucurillo meglio lo saremmo, perciò dobbiamo atteggiarci, ammore mio, lo devono sapere tutti quanti che io e te teniamo i soldi. L'arte ti fa bello, ti fa nobile, ti eleva, pure se non ci capisci niente. E poi noi non lo facciamo mica solo per noi. Noi lo facciamo per i nostri figli, per chi verrà dopo di noi. Noi lo facciamo per la storia. - In che senso per la storia? - In che senso, in che senso, e che marina, sai dire solo in che senso? - E ja ciuciù, scusa, spiega ja, lo sai, io so' panettiere, so' umile, so' uomo onesto, non le capisco certe cose. Non litighiamo, amantium irae amoris integratio est. Lo sai, tu sei più brava di me in queste cose. - Allora, immagina: fra secoli, quando questo quadro verrà ritrovato dagli uomini del futuro, diranno che Paulo Procuro e sua moglie erano due persone benestanti, gente potente, blasonate. Non potranno pensare ad altro. Chi può permettersi di farsi una foto in quest'epoca se non i ricchi? Diventeremo famosi come i re, come gli imperatori, come gli dei. Come dicono i latini? Ars longa, vita brevis. E poi, se non fai come dico io, non te la do più fino alla prossima eruzione del Vesuvio. - Mmm, va be', ja, va bene, Per te questo d'altro ciuciù, e poi, come diceva la zia di Latina: fama crescit eundo. Cosa dobbiamo fare? - Ah, ti amo vita mia. Grazie grazie. Allora, è semplice, chiamiamo il miglior artista in circolazione, ci mettiamo in posa e lui ci ritrae. Dobbiamo vestirci nel miglior modo possibile, dobbiamo ostentare la nostra ricchezza, è chiaro, in modo capiscano che siamo gente nobile, d'alto rango. - Tipo? - Io mi faccio bella, mi aggiusto i capelli, così come vuole la moda delle grandi matrone romane, mi metto un paio di orecchini dorati, e tra le mani una tavoletta cerata e lo stilo, così, per sembrare acculturata. - U, ed io? - E tu ti metti con una bella toga da cittadino romano addosso, e con un bel papiro in mano sai come sei bello ammore mio? Sembrerai un uomo di lettere, un poeta, uno scrittore. Dobbiamo sembrare colti, ricchi, altolocati, intellettuali, ammore mio. E poi, immagina che bella figura ci farai con i clienti. Pensa che successo per il pistrinum. Domani, a via dell'Abbondanza tutti diranno che Paulo Procuro e sua moglie sono i più raffinati cittadini di tutta Pompei. Per la storia, il futuro è tutto nostro ammore mio, non sapranno nemmeno che tu sei figlio di schiavo, che fai un lavoro umile e che io ho preso in affitto il vestito. Corrompiamo la memoria, modifichiamo la storia, resteremo immortali e come vogliamo noi. E poi, per qualsiasi cosa, come di dice? Ai post l'ardua sentenza. - Post? - Sì, Post. - Non si diceva posteri? - No no, era post, ne sono sicura. - Va be', ad ogni modo, dai da, già non vedo l'ora. Mi hai fatto arrecreare co' sto discorso, ciuciù. E poi, come diceva mamma' nihil ausus nihil permanere et non vitae, sed scholae discimus.. 14 febbraio 2016 audioguida: "L'affresco ritrae una coppia di borghesi pompeiani, quasi certamente marito e moglie. Essi vengono comunemente indicati come Paquio Proculo e sua moglie. [...] Il panettiere - che possedeva il suo pistrinum sulla via dell'Abbondanza - sull'affresco si presenta abbigliato con la toga, qualificandosi in tal modo come cittadino romano. Si è ipotizzato, inoltre, che i caratteri somatici dei due personaggi raffigurati ne tradiscano le origini sannitiche, che spiegherebbe il desiderio di ostentazione dello stato sociale raggiunto". (tratto da Wikipedia) P.s. anacronismi e forzature - sarebbe ovvio ma è meglio specificarlo - sono state volute ai fini del funzionamento della storiella. 2:14, siamo io e una tazzona blu di Superman, in cucina. Aspe', specifico, ché, nel 2016, la lingua è ancora una gang bang di polisemie zozze, che crea spesso confusione e è nnato nu criaturo è nato niro: la tazzona è mia, non l'ho scippata di mano a Superman. Semplicemente, ha lo sfondo blu e un grosso logo del suddetto eroe. Che poi, sarebbe stata ardua l'impresa di scippare di mano a Superman una qualsiasi cosa. Certo, con un pugno di kriptonite, sarebbe pure possibile, ma dove la trovi una kriptoneria aperta, a quest'ora, alle 2:18? Ad ogni modo, mi son fatto un po' di camomilla: è questo il contenuto del tazzone con sopra stampato il logo di Superman. Il fatto è che non ho sonno. La nostra è una generazione, come dire, curiosa. E già. Qualcuno direbbe strana, sciocca, bruciata, persa, beat, svogliata, ma io vi dico che è curiosa, ma non nel senso che è incuriosita, eh, per carità. Io dico proprio nel senso napoletano del termine: curiosa. Pensateci. Non abbiamo mai un cazzo. Non abbiamo un lavoro, non abbiamo futuro, non abbiamo soldi, non abbiamo sanità, istruzione e sicurezza a norma d'uomo del 2016, non abbiamo un presidente del consiglio eletto, non abbiamo una vita, non abbiamo voglia di fare niente, non abbiamo sonno. Siamo la generazione degli insonni. In compenso, però, io ho un leggero mal di gola. Per questo mi sono fatto un po' di camomilla. Dovrebbe essere questo il suo potere, no? Ti allieva il mal di gola, se ti va di culo, te lo toglie del tutto, previa nu pucurillo di miele, ma, soprattutto dovrebbe restituirti il sonno. "Infatti, se ci pensi, chi dice che tre uomini non possano volersi bene e partorire cose belle, farle crescere, educarle"? Che c'entra? Se se, che c'entra. Cioè, oddio,voi c'avete pure ragione, scusatemi per il titolo, ma - come vi ho fatto capire - è tardi e a certe ore sono poche le cose che si possono fare con un po' di lucidità:
E mi attizzava al punto che il primo pensiero non è stato che cazzo ci fa Valeria Marini ad un programma che parla di libri? I ragazzi di Isole minori settime, al secolo, Enzo Colursi, Alessandro Freschi e Lorenzo Campese, una mattina, oltre a cantare tutti in coro Oh bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, hanno detto sapete cosa c'è di nuovo?, in quest'epoca in cui non hai sonno, non hai la macchina, non hai i soldi, non hai un lavoro, noi mettiamo su un gruppo e vi facciamo il culo a tutti quanti. Oddio, non so se abbiano detto proprio codeste parole. Potrei chiederlo stesso a loro, ma sono le 3:15 e non so quanto siano disposti a rispondermi. I tre giovinotti si sono conosciuti - se non erro, credo, non lo so, ho sonno - in quel che fu il be quiet, la notte dei cantautori, e cioè - non me ne voglia nessuno - quando ancora l'interesse di molti era incontrarsi, conoscersi, ascoltarsi, semmai collaborare, e cioè prima che nessuno si comportasse in maniere tipo "Ehi ciao, io sono bello e figo, sono migliore di te, però ti do uno spazio in cui tu possa masturbarti in silenzio davanti a tutti noi voyueristi del live, e non preoccuparti, dopo puliamo noi", e cose così. Voi direte, embè, che c'è di strano o di particolarmente particolareggiante nel fatto che tre giovinotti abbiano messo su un gruppo? Ebbene, partiamo dal dire che i tre giovinotti in questione sono tre bravi cantautori con precedenti egregi lavori alle spalle e quindi non semplici tre musicisti. Cioè, chiariamo già il fatto che, second my opinion, quando più teste riescono ad incontrarsi, ragionare, fare le prove, arrangiare, suonare, senza che nessuno prevarichi fastidiosamente e insindacabilmente sull'altro, tipo maschio alfa in mezzo a un ammasso di omega3, è già una specie di miracolo, poi, se a farlo sono tre cantautori, allora sì che il miracolo può dar spazio a caroselli, urla, lezzi e schiamazzi di gaudente felicità. Il cantautore è quell'essere mitologico un po' Sgarbi, un po' Morgan, ma soprattutto capa di cazzo che si compiace del suo onanismo sclerotico. Il cantautore è tipo Filippo Inzaghi, ai mondiali del 2006, che corre verso la porta di Cech e, nonostante abbia la possibilità di passarla a Barone, per il più semplice dei gol, lui scarta il portiere per segnare da solo. Ecco, il cantautore è uno che, prevalentemente, lavora da solo, per gioire, se capita anche con gli altri, ma soprattutto per sé. Ora, voi, immaginatevene tre in una sola band: è po' come avere tre galli in un pollaio; Vieri, Toni, Inzaghi e - che ne so - Gilardino, a fare, nella stessa partita, il centravanti; tre conduttori - Bonolis, Conti, Pippo Baudo - a condurre Sanremo; insomma, tre potenziali prime donne su di un solo palco. S'è capito il concetto, no? In generale, ho sempre ritenuto - e in parte ancora credo sia così - che la produzione di un'opera d'arte, indipendentemente dalla sua qualità, sia il momento più sacro dell'individualismo umano. E questo va preservato. (Perciò inorridisco quando, per la realizzazione di una sola canzone - ad esempio - compaiono quattro, cinque, sei autori del testo. Io ci ho messo il predicato, io l'interpunzione, io la preterizione, io ho fatto il caffè mentre loro scrivevano sta cazzata. Non vi dico come bestemmio quando è chiaro che lo scopo è stato quello di dare alla canzone una struttura riconosciuta standardizzata e per pigliare qualche punticino di Siae). Ciò che folgora di un'opera d'arte è - credo - l'unicità, la potenza dell'emozione che un solo individuo è riuscito a universalizzare al punto da creare un feeling, un pathos in chi lo fruisce. E ancora, produrre è un po' come farsi una scopata, credo, ma non con l'orgasmo, come dicono alcuni. Dopo che hai dato, tu resti lì, al massimo un paio di minuti ancora a compiacerti del tuo sperma, poi buonanotte ai suonatori. Sei stanco, fiacco, vorresti ricominciare e ricomincerai - perché a te piace il contatto, la sublimazione, lo sconvolgimento totale dei tuoi sensi, il godimento del durante, il mentre -, ma con calma. Ora, immagina che questa cosa la facciano tre cantautori. Aspe' aspe', attenzione, togliete da mezzo il sesso, che altrimenti Gasparri non capisce un cazzo e mi banna dal suo profilo Twitter. Ho bisogno di poter andarci quotidianamente, sul suo profilo, ché mi serve per ricordarmi che qualcuno più scemo di me esiste sempre. Ad ogni modo, nulla di male: a letto, ognuno faccia quel che vuole, per carità. Volevo solo dire che, Isole Minori Settime sono un bel ménage à trois. Schizzi di genialità mescolata a tanta sana follia. Difatti, non sto mettendo in dubbio che sia possibile - di fatto accade - che più cantautori possano collaborare, aiutarsi, scrivere più pezzi insieme. Assolutamente. De Gregori e Dalla ci hanno fatto più di un tour insieme. Di recente, Gazzè, Fabi e Silvestri ne hanno seguito ideologicamente la scia, e potrei stare qui a citare tanti altri bei nomi, ma la cosa che mi preme farvi notare di più è che, nel caso di Isole Minori Settime, a mio modesto avviso - ma non so quanto possiate prendermi sul serio alle 3 passate - loro sono una vera e propria band, fatta di amici che si diverte a scrivere, comporre, ideare, cantare insieme, dove ognuno si delinea - perfettamente - la sua parte, il suo attimo di sano idilliaco feticistico godimenti creativo, senza manie di presenzialismo prevaricatore. Per l'appunto: isole minori di un arcipelago immenso di infinite possibilità. E niente, basta. Sono le 4:00 e tengo sonno. In realtà non lo so. Oddio forse sì, ma è meglio non dire nulla. Ho fatto questo post solo perché così la gente - o almeno spero - clicca sul sito, mi fa fare le visualizzazioni e magari gira il nome. Funziona così nel 2016, no? Su Sanremo non ho molto da dire, o meglio, se lo dicessi, la gente avrebbe da ridire. Già, perché se dici che Sanremo è un prodotto dai contenuti artisticamente opinabili, la gente storce il naso e dice che sei invidioso. Se dici che le canzoni fanno un po' tutte cacare, che c'è poco di nuovo, in termini di forma e contenuto, in termini di stile e di nomi, in termini di sincerità e di logiche, la gente storce il naso ancora di più e dice che sei invidioso. Se dici che il vincitore è già stato decretato da una partita a scopone scientifico col morto ( la cui sediolina vacante rappresenta la presunta democratica votazione popolare), tra le case discografiche più potenti - così come è già tutto deciso nel calcio e nella politica (attenzione, vi ricordate o no che siamo ancora l'unico Stato d'Europa Democratico governato da un presidente del Consiglio non eletto?), per esempio - la gente storce il naso a tempo di Macarena e dice che sei solo un invidioso. Se dici che nella scena indie, tra i localini del centro storico di qualsiasi buco dello stivale - ma anche dei calzini sporchi zozzi e spaiati, e tuttavia originali - c'è materiale molto più interessante rispetto a quella proposta da quasi tutta l'omologante massa mercificante che ha solcato e solcherà il palco dell'Ariston, la gente un altro po' se lo fa cadere a terra il naso, tanto che lo storce mentre dice che sei solo un invidioso. Sarà questo il motivo per cui i Giovanardi di turno storcono il naso all'idea che due uomini possano sposarsi: l'invidia. Bah, non lo so. Sono mica psicologo io? Sono preterizioni un po' abusate le mie, di fatto, in Italia non c'è possibilità di espressione. Amici miei, è meglio farsi i fatti propri. Perché qui, se parli, in base alla pericolosità dell'argomento, o ti uccidono o ti dicono che sei invidioso. In entrambi i casi, ti fanno fuori, quindi meglio tacere, no? Perché Sanremo è Sanremo. sì e anche lo specchio dell'Italia. Scritto così, sembra uno di quei titoli ammonitori in cui, gli scrittori del basso medioevo o dell'epoca latina, non avendo altro da fare, ché la chiesa aveva iniziato a dir loro che masturbarsi e fare sesso era peccato, si mettevano ad inveire contro le donne e contro i loro trucchi dell'ars della seduzione. Assolutamente, non è questo il mio intento, ché - per i motivi di cui sopra - ho da tempo acquistato il mio posticino all'inferno, tuttavia mi viene sempre in mente quella barzelletta sporca che mi ha raccontato un mio caro amico, qualche anno fa. << In pratica, un giovanotto non di bellissimo aspetto e, probabilmente, turbato nella mente da tutta una serie di consce ed inconsce insicurezze, in discoteca ( proprio nel regno dei figoni figli di papà palestrati lampadati e tutta una serie di altri cliché che potrete voi stessi inanellare in serie e a vostro piacimento, con la vostra immaginazione, sui nostri anti-eroi), contro ogni tipo di pronostico dei tabloid inglesi, riesce ad acchiappare una femminona esagerata. Bionda, capelli lunghi sensualissimi, occhi verdi sensualissimi, ciglia lunghissime sensualissime, labbra carnose sensualissime, gambe sinuose sensualissime, strette in un paio di calze sensualissime, dita lunghe, affusolate, con un unghie smaltate sensualissime, seno stratosferico sensualissimo, vitino a vespa, incartapecorato in un vestitino rosso scollato e sensualissimo. Insomma, una troiona appena uscita da YouPorn. Incredibilmente, dopo averci ballato, esservici strusciato pervertitamente sopra tutto il tempo - come a voler approfittare di ogni centimetro di quell'imprevista buona sorte mandatagli dall'alto probabilmente dall'unico protettore dei più deboli: Fabrizio Corona -, riesce addirittura a portarsela a casa. Nella barzelletta, per le logiche della trama, altrimenti non avrebbe un suo necessario climax conclusivo ad effetto, il nostro Enea vive in un appartamento carino, per carità, ma con il bagno e la stanza da letto soppalcati. In pratica, per farti una pisciata, devi comunque farti una salita di scale per forza. Ad ogni modo, entrano in casa, si mettono a loro agio, fanno un aperitivo pre-sesso, nonostante in discoteca abbiano già bevuto di tutto, pure l'acqua del cesso corrotta con le benzedrina e, prima di stendersi sul divanetto-letto, lui sposta tutti i dvd della saga di Harry Potter, visti in un'unica lunghissima maratona no stop, proprio il giorno precedente. Lei chiede di andare in bagno per potersi dare una rinfrescata e lui, galantuomo, acconsente con un sensualissimo e macissimo gesto ammiccante del capo. Non riesce a credere di aver fatto una conquista simile e, mentre la vede, lei, la sua bella, sensualissima, salire le scale, già sta immaginando alle porcherie che avrebbe fatto da lì a poco. Tanto che, una volta che lei è entrata in bagno, sale silenziosamente le scale, per spiarla dallo spioncino della serratura del bagno, in perfetto stile Lino Banfi di una trentina d'anni fa. Vuole vederla già nuda, vuole vederla mentre si spoglia, vuole ammirarla. E di fatti, spogliandosi pian pianino, inizia a dar mostra di tutta la sua mercanzia, non lasciando alla fantasia di nessuno la possibilità di poter immaginare ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Lei si toglie le ciglia, si smonta i capelli, scolla le unghie finte, si sfila le lenti a contatto colorate. Trucchi, piccole finzioni che non nuocciono all'innamorato. E infatti, fin qui, il nostro Dante non batte ciglio e, nonostante l'ingegno ingannatore, nonostante la finzione perpetrata ai suoi danni dalla sua Beatrice, in silenzio la perdona, giacché non saranno due lenti colorate o un paio di extension a farla scadere dal suo cuore arrapato. Già sta pensando al domani, a quando l'avrebbe presentata agli amici, ai suoi genitori. Pensava ai figli che avrebbero avuto o a quando avrebbero litigato e poi teneramente fatto la pace; ai loro tramonti, ai loro viaggi, tenendosi teneramente la mano, in una notte di mezza estate, a quando sarebbero diventati nonni. Fantasticava già su una possibile vita coniugale insieme a lei e lei, la sua musa ispiratrice, nel continuare la sua azione rinfrescante, si smonta il seno, il reggi il culo e si toglie la dentiera. Qui, il nostro, un piccolo fremito, un tentennamento ce l'ha; rabbrividisce all'idea di aver pescato nel mar morto dell'amore, ma ancora vuole attendere, vuole comunque godersi la sua pesca, la sua fata che, imperterrita, però, si sfila perfino le labbra, si toglie il trucco dal viso e qui, in questo preciso istante, mostra la sua reale condizione di strega dell'estetica, una versione femminile carne ed ossa degli Sbullonati, derubricabile - senza alcuna pietà - a cesso ambulante. Vuole scappare, ma è casa sua quella, non può mica andarsene. Certo è, non l'avrebbe presentata ai suoi genitori, tantomeno ai suoi amici stronzi, che lo avrebbero preso per il culo fino alla fine dei suoi giorni. Ma nemmeno se la sarebbe chiavata una cosa così brutta. Nemmeno da ubriaco si può avere un coraggio simile. Svaniscono i sogni, i figli, i nipoti, i viaggi e la notte di mezza estate diventa torrido inferno in pieno traffico sulla Salerno Reggio Calabria. Potrebbe lasciarla da sola, chiamare la polizia, urlare, accusarla di essersi intrufolata in casa sua. Non gli viene in mente nient'altro, e intanto scende le scale, piano piano, per non farsi sentire. Poi, si siede sul divanetto, con le mani in volto, sconvolto, cerca di ragionare meglio sulla cosa: che fare, che dire? Sta per prendere una decisione, anzi no, il suicidio non va bene, lui vuole vivere, mica si può morire per così poco, però qualcosa bisognerà pur fare. Poi, ecco che l'epopea del nostro Romeo trova la sua conclusione tragicomica. Giulietta, dall'alto della sua balconata, entrata nella stanza da letto, grida al suo innamorato di poter or ora salire e appropinquarsi verso di lei e poter così godere del succo del suo sensualissimo corpo; tuttavia Romeo, sebbene impietrito nell'anima, si è comunque lasciato impietosire da quella cosina brutta e, ricordando le sue comunque ottime capacità smontabili, le risponde: " Non ti preoccupare tesoro mio, senza nemmeno che io salga, buttamela giù che facciamo prima". >> E niente, io sono per la verità, bella o brutta che sia. Io gli dico "senti, vorrei parlare del tuo percorso, ma voglio che sia tu a dirmi cosa vorresti che dicessi di te, perché è facile raccontare la storia del solito ragazzo della solita periferia che, nonostante le solite difficoltà del solito territorio della solita provincia a Nord della solita Napoli, nonostante le solite difficoltà sociali, economiche e blablablà, è riuscito a diventare primo contrabbasso in orchestre dirette da gente come Muti". Lui non pensa nient'altro che a questo: "Vorrei che gli altri capissero che dietro ogni singola nota ci sono giorni interi di studio, di sacrifici, di costi, di sudore. Che ne sanno le persone di tutto questo? Poco o nulla. Vedi, io vorrei che gli altri lo capissero. Per darti un'idea, oggi pomeriggio, sono stato tutto il tempo a cercare di fare tre sole semplici note. Volevo che fossero perfette. Un pomeriggio intero, capisci? Perché? Perché la musica si fa con passione, col cuore, ma anche col sacrificio, con lo studio, con la sofferenza. Questa cosa le persone la devono capire". Me lo ripete un paio di volte il concetto, giusto per capire se ho capito, tuttavia, non contento, per esserne più sicuro, mi mima il gesto con le mani. La destra tira l'arco sui colori, con l'altra li mette in ordine, a suo modo. "Immagina che tu stia a scrivere una canzone, ci metti un giorno, una settimana, la registri, ci butti il sangue e comunque non ti convince e allora cominci daccapo, arrivi ad un risultato, comunque buono, in mezzo a un mare di difficoltà, poi ti siedi e sbagli quell'unica nota che ti fotte. Verrai valutato e ricordato per quell'unica nota sbagliata". La mano tiene un bicchiere di birra. Lunga, nervosa, a tratti insicura, piena di calli, come quelle di chi suda nei campi, destinati ad altra natura. Poi ti guarda con gli occhi scuri, sicuri, profondi, di uno che il mondo l'ha visto spesso da solo, chiuso in una stanza d'albergo a chilometri di distanza da casa. "Sì, viaggiare è bello, suonare anche, ma mesi interi lontano dai tuoi affetti so' pesanti". Ci facciamo un altro sorso di birra, parliamo del più e del meno, ma argomento al centro di ogni cosa è sempre la musica: passato, presente e futuro. Dannatamente retorico e scontato, ma che cazzo vuoi farci se è così e basta? "Una volta, anni fa, dopo un concerto, un impresario musicale non riusciva a capire la mia esigenza di dover tornare a casa presto la sera, non capiva che avevo bisogno sì di lavorare, ma soprattutto di studiare. Ma perché, tu studi? mi chiese. Non riusciva a capire che per fare quello che faccio io, a tutti i livelli, bisogna studiare". Ora, non so se le persone tutte riusciranno mai a capirla questa cosa qua, e cioè che dietro ad una sola semplice canzone c'è gente che, per arrivare a suonarla, semplicemente a concepirla questa semplice canzone di merda, ci ha buttato il sangue per giorni mesi anni. Difficile, è difficile farlo entrare nella zucca a tutti, soprattutto in un'epoca in cui la musica, ma l'arte in generale, è sempre più relegata ad un ruolo marginale nella società. Un cicisbeo alla corte di chi, di musica, davvero non ci capisce un cazzo, incluso il sottoscritto. Ma questo è un altro discorso. Renzo Schina è uno che, per farvi capire il tipo, una sera - era una festa - è riuscito a coinvolgere un gruppo intero di amici ad improvvisare, in chiave parodistica ovviamente, l'Aida. Ne uscì fuori una caciarata che non vi dico. Un animatore mancato. Uno che è sempre stato su di un filo sottile, tra il musicista impeccabile, un po' filosofo un poco saggio, e l'amico cazzone dei bar di periferia. E ad essere sinceri, in quegli anni lì, dopo il liceo, eravamo tutti un po' cazzoni. La differenza è che lui, Renzo, tornava a casa e, anche di notte, mentre il mondo intero riposava, si metteva al contrabbasso, per studiare, per preparare un concerto o per un concorso. O solo, semplicemente, per trovare il suo modo di buttar giù una frase. " E' come una corsa al Gran Premio di Moto Gp dove a fare la differenza è anche il millesimo di secondo.", mi ha detto ieri. Correre e non fermarsi mai, ché questa è una corsa in cui non è ammessa la resa; si può tremare, arrabbiarsi, urlare, incazzarsi, bestemmiare, ma non ci si può fermare. Dormire poco, giusto un po' la notte, e poi svegliarsi con la sola idea che bisogna rimettersi nella cazzo di carreggiata, che bisogna farlo più veloci del giorno prima, ché c'è da recuperare il tempo perduto. Poi bere, dirsi che è tutto ok, dimenticare le proprie insicurezze, e quindi riuscire, esserci, farcela, essere tra i migliori e non accontentarsi mai, dirsi sempre che no, non è mai abbastanza, bisogna continuare a correre; essere riconosciuto dal mondo, da chi ti dà pane all'anima e al corpo, cambiare cieli, palchi, letti, lenzuola, modi di ascoltare, modi di parlare, modi di guardare, senza però intaccare mai l'anima, la testa, il cuore; rischiare, perché si rischia, ma è un rischio che s'ha da fare, non sempre calcolato, ma necessario, come quello di essere abbandonato dalle persone che ami e di non essere capito, eppure, ciononostante, spiegarlo, urlarlo, suonarlo ogni giorno della propria vita, ché questa cosa ti appartiene, non ne puoi fare a meno nemmeno a volerlo, ti è saldata addosso e non c'è nient'altro da fare; già, costruirsi giorni, mesi e anni di impalcature, sicurezze vive solo quando si sta dietro al Contrabbasso, e che importa se poi, con il collo di una birra tra le dita, le mani ti tremano un po', ed esce fuori qualche debolezza, giusto un paio. Si è umani dopotutto. "Per ogni piccola soddisfazione, dietro ci sono tanti tanti sacrifici, ripagati eh, ma quanta fatica". Quando suona te ne accorgi, lo vedi, è proprio lì di fronte a te: Renzo è felice. Lo vedi, lo senti, perché è un tutt'uno con quello che sta facendo: corpo, testa, cuore, mani, anima. Trasmette felicità perché lui stesso è felice. E questa cosa, un uomo qualsiasi non può non invidiarla. Lui non lo sa, ma io, quelle mani, gliele ho sempre osservate con attenzione. Da quando lo andai a sentire suonare, diciassettenne, fuori alla SpioX, al secolo Chiesa di San Pio X, a Giugliano in Campania, nella solita provincia a Nord della solita Napoli. Perché se persone belle non sono sempre il riflesso preciso preciso dell'arte che producono, nel caso di Renzo è proprio così, pari pari. Me ne sono accorto dal primo secondo, da quella felicità che trasmette, ogni volta che ha la possibilità di suonare. Non è una bugia se vi dico che, un po' per imitazione, un po' per genuina invidia, è stato lui uno dei motivi per cui mi sono avvicinato alla musica. Lui non lo sa, glielo dico ora e un po' lo ringrazio. (Poi, non fa niente il fatto che io abbia riconosciuto non fosse cosa mia, ma questo è un altro racconto). Ci sono persone che si imparano guardandole dritto negli occhi. Tu le guardi e capisci quanta anima c'è dentro quel corpo che li ospita. Con Renzo basta che gli guardi le mani: hai la sensazione sappiano bene, forse da sempre, cosa vogliono fare nella vita. E questa cosa, un uomo qualsiasi non può non invidiarla. Oh, per carità nulla a che fare con i neoborbonici eh. Lo specifico perché qua, quando si parla di identità meridionale, ancor più se si vuole essere un attimino più legati alle radici partenopee, subito spuntano dita indicanti che ti accusano di revisionismo campanilista evviva il re è morto o rré, un doje 'e tre. Cioè, in quello che voglio dire c'è una piccola accusa, è vero, però il discorso non c'entra nulla con il Re Borbone, né con i suoi investimenti nella torrefazione. Proprio ieri sera ho finito di leggere tutti i 50 racconti de "Lo cunto de li cunti", ma non è mio intento di ammorbarvi con analisi letterarie su quello che è stato il lavoro di Giambattista Basile, né voglio raccontarvi di come ha finemente raccolto i racconti nella magnifica cornice che pone al centro della storia Zoza e Tadeo, e neanche voglio ricordarvi che è stato preso ad esempio, per non dire scopiazzato, da molti dei più grandi favolisti della storia delle letteratura mondiale. No. Per quanto riguarda tutto questo,vi invito a leggerlo. L'edizione migliore è quella della Garzanti, secondo me, con introduzione alla lettura di Michele Rak. Ciò di cui vorrei parlarvi è la forte connotazione identitaria di tutta l'opera e il fatto che, nelle scuole di tutta Italia, a parte l'intervento di illuminati e lungimiranti docenti, che almeno fanno leggere La Gatta Cenerentola, non viene praticamente quasi mai nominato. Chiedendo a qualche amico docente, anzi, il programma contemplerebbe anche un passaggio sciuè sciuè, ma, appunto, è uno studio troppo marginale, secondo me. Soprattutto se consideriamo l'importanza - in termini di studio, pagine, attenzione - con cui vengono affrontati altri autori Italiani. Non voglio fare nomi, ché chi fa la spia o non è figlio di Maria o è Roberto Mancini. Certo, non voglio paragonare il suo lavoro a quello del sommo Dante, per carità, ma in molti manuali, quando si arriva al '600 italiano, Basile quasi figura come autore minore, ed io, leggendo leggendo, mi chiedevo perché? Non voglio credere che il problema sia stato o sia, per l'appunto, il dialetto, o meglio, la lingua napoletana; è vero, a tratti rasenta l'afasia, illeggibile anche per un napoletano attento ai mutamenti diacronici della lingua, tuttavia esistono egregie edizioni con traduzione a fronte. Io stesso ho letto la versione italiana, buttando - di tanto in tanto - un occhio alla parte sinistra, per cogliere meglio sfumature, colori e giochi di parole. No, non deve essere questo il motivo per cui Basile è stato e viene ancora snobbato dai programmi scolastici italiani, anche perché non è che l'italiano trecentesco del Decameron sia più leggibile. Deve esserci altro ed io, una mia piccola opinione me la sono anche fatta. Ho cercato in giro, tra web, testi e manuali, e nessuno mai si è lanciato in questa ipotesi, dunque, potrei essere il primo a professare questa cazzata, ma tant'è. Basile, nel suo Cunto, ha lasciato un'impronta chiara di ciò che è stata Napoli, la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi luoghi. Il dialetto usato è a tratti simile a quello che ancora oggi si può sentire in quei luoghi dove la tradizione si è cristallizzata e ben conservata nei secoli, fino ad oggi. Cioè, puoi tranquillamente trovare parole, intere frasi, modi di dire, ricette del 1600 ancora presenti nel dizionario di un qualsiasi napoletano del 2016, o quasi. Hai presente tutte quelle parole che ogni tanto senti uscire dalla bocca di tua nonna? Bene, potremmo dire, con qualche licenza, che tua nonna non fa altro che citare, inconsapevolmente, Giambattista Basile. Basile inventa, è vero, le sue sono fiabe, i luoghi sono sì magici, ma spesso le radici, i luoghi delle sue fiabe esistono per davvero. Non solo Napoli e i suoi quartieri fanno da sfondo alle storie del Pentamerone, ma anche Panicocoli, Calvizzano, Aversa, Melito, Giugliano in Campania, Arzano, per dirne alcuni. Ora, immaginiamo che un Re di un paese rivale, facciamo finta il Piemonte, decida di impossessarsi delle terre confinanti che navigano in condizioni economiche migliori - per fantasia le chiameremo Regno delle Due Sicilie - e che, diciamo per convenzione, intorno agli anni Sessanta del 1800, riesca nel suo intento; cosa penserà di fare per tenere a bada il popolo contrariato, oltre a distruggerlo, violentarlo, e farlo passare per un ammasso di cattivi terroni, briganti, ignoranti? Come ogni potere dominante che invade, la prima cosa che cerca di intaccare è l'identità del popolo invaso, le sue tradizioni, la sua cultura secolare. Questo mi pare chiaro: lo sanno i Curdi, lo sanno i Birmani, lo sanno gli Indiani d'America. Per esempio. Ora, un libro come quello del Basile - che abbiamo detto essere una pietra miliare della cultura napoletana - come può essere stato visto da chi deteneva il compito di scolarizzare la nova Italia? Bene, avete capito qual è la mia stupida, ignorante e banale opinione e, se siete d'accordo con me, ri-leggiamo Basile che non può farci che bene. |
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March 2019
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