Ammetto la mia ignoranza: non conoscevo Gianmaria Testa. Lo scopro solo ora. Troppo tardi direte voi, può darsi. Anzi, certamente è così. Certo, non è che mo uno muore e quindi devi far vedere che ti piace per forza ché è necessario per far bella mostra di sé con gli amichetti indipendenti della scena indipendenteUnEttoEpocoMenoCheFaccioLascio. Semplicemente, scoprendolo, ascoltandolo, mi è venuto da pensare che l'unica cosa di "buono" che può fare la morte è darti alla storia. Già, perché si va via e di noi non resta altro ciò che si è fatto. Certo, rimane la polvere, il silenzio, qualcuno che farà i conti col dolore, con l'impresa delle pompe funebri, le grida, lo strazio, la sepoltura, poi l'assenza, già, il vuoto, ma poi passa il tempo, ci si fa il callo, e qualcuno si dimentica di te, ti mette in un angolo, dietro il disimpegno, poco dopo l'inconscio e di te, di noi, non resta che la storia, ciò che tu hai voluto dare di te, ciò che noi abbiamo voluto dare di noi. Per questo, fate, coltivatevi, producete: arte? Macché, non solo, dico solo realizzatevi!, fatelo con tutte le vostre forze. Con le unghie, con i denti, coi calci, Pretendetelo! Nell'arte, si sa come funziona in certi casi: quelli che di te avevano un giudizio snob, offuscato dalla gelosia, dall'ignoranza o dalla cecità, decanteranno poi le tue grandi qualità incomprese. O forse no. No, assolutamente. Diventerai un autore minore di un'epoca minore di un secolo minore in migliaia di miliardi di milioni di anni in cui, in generale l'uomo non conta a un cazzo, figurati tu, il cui pensiero quotidiano più assordante è che devi affrontare gli esami, devi pagare l'affitto o che sono giorni che non riesci ad andare al cesso come si deve. Le cose importanti, queste sono: scendere per strada, fare due tre chilometri a piedi, respirare a pieni polmoni merda di cane, bile d'automobile e, se ti va di culo, un po' di tempesta di primavera; dire di sì, togliersi gli orecchini, mettersi gli orecchini, trovare un modo per poter dire di no, avvinghiarsi al culo di qualcuno, trovare una vita, la tua, quella sacra, in cui poterti gettare e dire bene, adesso vi faccio neri; mettere mano allo stomaco, scavarlo, inciderlo, trovarci ancora un po' d'anima ancora integra, deriderlo, deriderti, sorridergli, sorridere, sorriderti e fare sì con la testa, piangere, crederci, e allora insistere, desiderare di avere un figlio, insegnargli tutto questo e tutto quello che imparerai avendo a che fare con lui; desiderare di tornare indietro per non commettere più nessun errore, anche se hai detto, ti sei detto, che non varrebbe la pena, faresti tutto tale e quale di nuovo, ché la merda, la puzza, l'errore, tutto è serve per capire, distogliere il capo, imparare. Vivere. Già, con le unghie, con i denti, coi calci, ma vivere. Nessuno può cancellare ciò che hai fatto, nemmeno la morte. Quindi date retta a me: fate, coltivatevi, producete, ché se non è questo il tempo per voi, voi sarete il tempo per qualcun altro dopo di voi. Ché, per come stiamo combinati, quando fra un milione di anni, o anche meno, una nuova civiltà ci guarderà dall'alto dei loro secoli di civilizzazione e analizzerà quella nostra, studierà le nostre corse futili, cercherà di capire il nostro denaro, si confronterà con la nostra cultura di massificante livellazione verso il basso protesa alla promozione del fatuo inutile e mediocre, allora sì che saremo rovinati. Ma saremo da tempo già polvere di polvere, direte voi. Chessenefrega. Eggià. Chissenefrega.
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Innegabile lo è. Fin quando l'attentato lo fanno fuori da quei confini che i barbari definiscono Europa ( e i latini Vecchio Impero Romano) tutto ci scivola addosso. Accade, non so nello specifico perché, ma accade. Non a tutti, ma a molti sì. Uno schiaffo ravvicinato, a questo assomiglia. Cioè, porgo la guancia per un retorico esempio: se ti do uno schiaffo, che sia da vicino o da lontano, sempre uno schiaffo resta, mi dirai, è vero, ma la distanza smorza l'urto. Se te ne do uno, un po' più da vicino, quello stesso schiaffo proprio uguale uguale non è. Già, la metafora è rischiosa, imprecisa, ma non saprei definire questo senso di schifo. Si viene colpiti nella tranquillità, nel silenzio caotico del cotidiani. Un attimo prima stavi bevendoti un caffè, parlavi del Napoli, della Juve, del goal di Maxi Lopez, dei soldi, del lavoro, del fatto che non sai come fare per dare una sterzata alla tua vita, della musica, e un attimo dopo bum e sei polvere, silenzio eterno. Agghiacciante, vero? Già. Ma non fateci caso, sorridete, perché è festa. Voi, noi, siamo vivi. Rallegratevene. Non per voi suona la campana a morte. Piangete, commuovetevi, ma subito dopo lasciate spazio per metterci un po' di riso e futilità, ché è giusto così: è sacrosanto. La sensibilità ci prende allo stomaco, ci incattivisce, ci impaurisce. Non so analizzare ciò che accade: leggo, scruto, mi informo, ma davvero ci capisco poco. Alzo le spalle, allargo le braccia, come Cristo in croce, sbuffo, scuoto la testa, poi vado avanti con le mie cose. A proposito di Cristo, la settimana santa e il sacrificio per il suo popolo. A saperlo per chi si andava a crocifiggere, secondo me, si sarebbe fatto i fatti suoi. Avrebbe organizzato una scampagnata intorno il Lago Laceno, avrebbe invitato amici e parenti, avrebbe fatto un paio di conti per capire in quanti sarebbero stati, avrebbe raccolto i soldi per la moltiplicazione dei pani, del vino, dei pesci, si sarebbe fatto un calcolo per capire quanta carbonella sarebbe servita, avrebbe fatto a meno della diavolina, capite a me, per conflitto d'interesse, e poi, scofanato sull'erba, si sarebbe ingozzato di casatiello, pastiera e cioccolata. Questo avrebbe fatto, se solo non avesse saputo - per deformazione trascendentale: è onnisciente lui - che, il giorno di Lunedì in Albis, piove sempre. Però, quando uno si sacrifica, non lo fa mica per un tornaconto personale. Si lotta, si dà un'idea, si crede in qualcosa, ci si batte il petto per far capire che esiste sì qualcosa oltre la vita, l'eternità, ma va cercato dentro ciascuno di noi, nel rispetto, nell'ascolto, nello studio, nella conoscenza. Quando si capirà tutto questo, da credente a modo mio, allora sì che potremmo parlare di resurrezione e crederci fino a battersi il petto.
Ci arrivo in ritardo, ma abbiate pietà: il disco è uscito che questo blog ancora non esisteva.
A loro li ho conosciuti qualche annetto fa: ero a Gallipoli, andai con i miei fratelli a sentire Caparezza al Parco Gondar. Aprirono il concerto e subito ce ne innamorammo - io e i miei fratelli - dalle prime canzoni: esecuzione, potenza musicale, esibizione, presenza scenica, testi. Non lo dico per parossismo, ma non sembrò nemmeno un concerto d'apertura: non voglio dire che Caparezza sembrò un ospite nel loro concerto, ma quasi. Ricordo che rimasi impressionato da Giulietta, una rivisitazione pornografica dell'amore tra la Capuleti e il Montecchi. Anzi, ad essere chiari, potrei meglio definirla una spiegazione esplicita di quel che è stato il sentimento amoroso tra i due, ché, chi ha letto bene l'opera di Shakespeare, sa bene che già era bella carica di sensualità spinta.
Il brano è contenuto nel loro primo disco, Fiori innocenti, in cui spicca, tra le altre cose, un feat con Caparezza, L'appapparenza.
Per quanto riguarda invece Cabron!(2012), l'album di cui vi sto parlando, è il secondo degli U' Papun, gruppo barese, e anche se ci arrivo tardi a recensirlo, c'è da dire "poco male" visto che è fortemente contemporaneo. Dalla prima all'ultima traccia c'è un forte riferimento a quelli che sono i cambiamenti politici, sociali ed antropologici di una società che fa di tutto per non smentirsi e perpetrare calorosamente, in secula seculorum, il gene dell'idiozia. Non a caso, intelligentemente e/o quasi profeticamente, Alfredo Colella, leader della band, canta, proprio nell'omonima traccia (la prima dell'album) "Il caprone è una bestia che non va mai in estinzione". Musicalmente posso dire solo che mi piacciono tanto: avrei da dire tante altre cose, ma mi limito a parlare delle parole, ché non mi sento idoneo né preparato per farlo con le note. Per quanto riguarda i testi, invece, è un miscuglio di giochi di parole, di rimandi, di preziosi incastri metrici in cui la stessa parola si fa importante chiave di volta negli arrangiamenti. Così come variano melodicamente, musicalmente, da una canzone all'altra, così le parole si vestono di abiti diversi in base alla situazione. Devo dirvi la verità, ho sempre un forte imbarazzo a fare recensioni di questo genere. Sono sempre fan degli artisti di cui vi parlo. Con Alfredo, poi, è in atto una bella collaborazione ma vi giuro che sono obiettivo al 100%, anche perché, se la stima non ci fosse, non avremmo iniziato nemmeno questa pazzoide avventura di una canzone scritta a quattro mani. Adoro la sua scrittura, ma soprattutto invidio - a fin di bene eh, ché di invidia ne esistono di buone e di pessime, come il colesterolo - il suo modo di interpretare: voce bella, potente, che riesce a piegarsi ad ogni tipo di situazione. Romantico in Terra madre, ballad struggente che racconta con rabbia ed amore le contraddizioni di un terra che, nello specifico è Bari, ma potrebbe essere Napoli, Londra, Barcellona, New York, il mondo. Istrionico, meraviglioso, incantevole in Cliché, canzone che non vi spiego perché è complicato: fate prima ad ascoltarla. Poi, Dio, non so come fa in Uomo di marzapane: qui caccia potenza, interpretazione, graffio, rabbia, ironia tutto in una sola emissione. Fantastico. Poi Amore Cialtrone, Luna, Indiesposto (un singolone pazzesco: semplice, non banale, vero, perfetto) L'ultimo, L'abito, - vado a memoria e non in ordine - Arte spicciola, Fior della censura, Storia di una disoccupata. Solitamente uno può chiamarle canzoni, brani, opere, lavori, singoli, ma in questo specifico caso è il caso di definirle "tracce", arricchendone polisemicamente il segno di un nuovo significato: le canzoni lasciano un segno, una traccia, tangibile sulla pelle, in testa, nella memoria. Gli U' Papun ti ricordano che le belle canzoni possono (devono) far pensare. Ti mostrano l'incubo, ti ci fanno cadere dentro e te lo spiegano, affinché tu possa ricordarlo, cantarlo, capirlo e, non a caso, 'u papunne, in gergo barese, è una sorta di uomo nero. Tutto ciò con melodie e interpretazioni ironiche, irriverenti, striscianti, satirici. Come vi dicevo, il disco resta contemporaneo, come le cose belle, come le cose intelligenti. Prendi ad esempio l'Assommoir di Zola. Sì, è vero, è perfettamente incastrato nella sua epoca, nei suoi luoghi, la Francia di metà '800, ma è tremendamente contemporaneo: la distanza tra ricchi e poveri, la difficoltà per quest'ultimi di emergere dalla merda e anzi il rischio di rimanerne sommersi sempre di più, il processo sociale che porta l'uomo ad essere assimilato, risucchiato, tritato, mangiato dalla macchina al punto da divenire esso stesso un androide privo di capacità intellettive, l'alcol che divora testa, mente e anima, il vizio che si fa più forte, più penetrante, nei quartieri in cui è tutto un ammassarsi promiscuo di genti. Oppure, che ne so, pensa a quanto siano ancora contemporanei Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell, la Guernica di Picasso. O anche come nel caso di Io non mi sento italiano, brano di Gaber, abilmente reinterpretato dai ragazzi di Bari. Anche qui, dal 2003, anno di pubblicazione della canzone, l'evoluzione della specie è ancora allo stato embrionale: "E' anche troppo chiaro agli occhi della gente che è tutto calcolato e non funziona niente". Mi ripeto: l'arte, ma in maniera particolare il genio, sta soprattutto nella sensibilità di saper cogliere, descrivere, fissare gli elementi più caratteristici di un'epoca, in certi casi anche di prevederli prima che accadano; e ahinoi, dal 2012 ad oggi, rispetto ai racconti degli U'Papun, davvero poco è cambiato, tanto che, per gli indisposti di tutto il mondo, può suonare come un inno la strofa di Indiesposto:
"Non posso farci niente se quello che provo
è un' indiesposizione latente non posso farci niente se il mio fragile stomaco gradisce solo cibo nutriente".
In sintesi, fidatevi, seguiteli, innamoratevene come ho fatto io.
Davvero, credetemi, sono pazzamente preso dagli U' Papun e l'idea di aver scritto una canzone insieme ad Alfredo, uno che canta, scrive e si esibisce come piace a me, è una di quelle cose di cui vantarsene in giro. Un po' quello che sto facendo giuggiurellonamente ora. E se non volete fidarvi di me, allora, di notte, mentre state rilassandovi nel vostro letto, dopo una giornata di lavoro stancante, debilitante, antropologicamente fagocitante, nel bel mezzo di un sogno bello, tipo che state seduti su di un'isola deserta, con un mojito in mano e qualcuno che vi soffia in faccia, sì, proprio nel momento di massimo godimento, climax tra i climax, deve venire a mangiarvi 'u papùnne. La band è così composta: Alfredo Colella – voce Gigi Lorusso – chitarra elettrica Enrico "Ze" Elia – pianoforte e sintetizzatore Mario Orlandi – basso elettrico Cristiano Valente – batteria e percussioni Francesco Tatone – performer
P.S. Quasi dimenticavo: il 22 Febbraio 2016 è uscito il loro nuovo singolo, Signora Fortuna, colonna sonora del film documentario sul gioco d'azzardo, "Vivere alla Grande", del regista Fabio Leli, e che vede l'entrata nel gruppo del nuovo batterista, Marco De Bellis.
Chi non lo ascolta e condivide è un Cabron! U' PAPUN - Signora Fortuna Pubblicato da U' Papun su Venerdì 4 marzo 2016 Odore di borotalco, di Proraso, di capelli asciutti, odore di phon, di dopobarba, odore di panni sporchi di lavoro, di chi passa di fretta, così com'è, per farsi il capello bello per la propria moglie, o per l'amante, odore di caffè, di passi lunghi e veloci del guaglione che, dal resto, si aspetta la mancia, quella dieci lire che ti fa sentire grande. Odore d'infanzia. Ero piccolo e non saprei dire bene quanti anni avessi. Nemmeno l'anno mi ricordo. Potrei controllare su internet, chiedere a casa, ma significherebbe imbrogliare i ricordi, accavallare odori e sensazioni che, nella mia mente, sono un tutt'uno. In estate, andavo sempre da papà. Finita la scuola, l'educazione familiare consisteva nel fatto che, quei pochi spicci che avrei speso nella salagiochi, cornetti di notte e squarcionerie per farmi bello con le ragazzine, dovessi guadagnarmeli lavorando da papà che teneva una putechella, il Salone, sì, con la Esse grande: Papà era barbiere. Un luogo metafisico, il salone, in cui personaggi di ogni tipo e di ogni classe s'incontrano e, dedicandosi per un po' a se stessi, si scordavano che fuori c'era un mondo in cui, a volte, ci si può rincontrare anche da nemici. Papà dice spesso che, al mattino, non alzava la serranda, ma apriva il sipario. Ero piccolo. Non arrivavo nemmeno ai volti per fare le barbe. Al massimo, spazzavo per terra, piegavo i camici, ogni tanto mi prendevo una lavata di capo, spesso andavo a prendere il caffè per i clienti. Eccoti 3000 lire, va da quello in mezzo alla piazza, che mi piace di più, lo sai, io sul caffè so' vezziuse, non ti scordare la bottiglia di the freddo alla pesca, piglia l'Estathe che mi piace di più, pigliane due va e il resto tienitelo per te. Una volta mi diedero addirittura 1000 lire di mancia. La mia prima 1000 lire, cazzo. Ce l'ho ancora conservata come monito: ogni cosa ha l'odore della tua pelle, dei tuoi sforzi, soprattutto i soldi. Ad ogni modo, in estate, tra una sforbiciata e l'altra, vedevamo la Nazionale e noi stavamo lì attaccati a commentare le giocate, le formazioni, deve giocare Baggio ché del Piero non si mantiene in piedi, 'sto Cesare Maldini non capisce un cazzo, hai visto Cannavaro come se l'è marcato bello a quel bacchettone di Flo? Mannaggia a Di Biagio. Mannaggia a Trezeguet. In particolare, parlavamo di calcio mercato. L'Inter fa sul serio quest'anno, ha comprato Peruzzi. Il Napoli punta sui talenti e su Zeman. Il Milan ha preso Shevchenko. La Roma con Batistuta fa piangere i fiorentini. La Juve, la si schifava anche allora. E poi c'era lui, il Pirata. Lo amavano tutti. La bandana era diventata un simbolo di meravigliosa appartenenza, prima che Berlusconi la utilizzasse per nascondere il processo in atto di metempsicosi del pelo del culo in chioma stopposa. Sia chiaro, eh, non sono mai stato un grande fan di ciclismo, non ci capisco niente tutt'ora. Adoro i gregari, quelli che si fanno il culo, quelli che di fronte ad una salita non si fanno sotto dalla paura, quelli nati senza particolari talenti se non la grinta, la voglia di esserci, di lottare, di aiutare. Per il resto, come ho detto, non ci ho mai capito niente, né come si prendano i punti, né come si diventi maglia gialla, rosa, a pois, a scacchi. Ma lui era Marco Pantani, cazzo, e non contava nient'altro. Addirittura qui, dove abito io, giocavamo ad imitarlo. Improvvisavamo piccole tappe e, a cazzo, in base al numero di giri, di polvere pestata con le nostre mountain bike, di sudore sotto alle ascelle, ci davamo punti e presunte maglie colorate. Arrivavo sempre ultimo, come al solito, ma non importava, facevo finta non mi importasse. Alla fine l'ho un po' odiata la bicicletta: scomodo il sellino; la mutanda non si stava buona nei pantaloni, ché dovevo stare sempre a sistemarmela, a togliermela da lì, proprio lì in mezzo; incapace a regolare il manubrio e le marce non andavano mai bene. E poi, mentre tutti già stavano a giocare ad altro, mentre mi toglievo la mutanda da lì, tutto comicamente grottescamente storto sulla bici, vedevi me che arrivavo ultimo. Però a lui lo amavo, Marco Pantani. Lo amavano tutti e tutti erano con lui, soprattutto quando si metteva con le punte sui pedali e iniziava a volare, di salita in salita. Ricordo dicessero fosse la sua specialità. I nervi, le vene sul cranio grosse così, il sudore, lo sguardo fisso davanti, senza mai mollare la presa sull'asfalto, le curve infilate di seguito, una dietro l'altra, senza mai rallentare, senza mai cedere un attimo. Una volta - non riesco a farmi venire in mente a che tour, a che giro, in che anno - un tifoso troppo affettuoso lo fece cadere per terra, ma lui non si scompose. Era andato talmente in fuga, ma talmente in fuga, che si rimise in pista e vinse lo stesso quella tappa, e con molti secondi di vantaggio. Poi, un giorno, dissero che si dopava, che Marco Pantani, il Pirata, era stato un imbroglione. Ci si accanirono giornalisti, opinionisti, benpensanti. Rimasi deluso. All'epoca ero poco più che un bambino, provai a non crederci, ma la verità ce l'avevano soltanto i grandi. Sarà stato un caso, perdonatami la retorica ma, d'allora in poi, l'odore del Proraso non sarebbe stato più lo stesso. Coincidenza vuole che, da quell'anno non sono andato più al Salone a guadagnarmi le mie potenziali squarcionerie estive. Oggi, ho letto che Pantani non si è mai dopato, non nel '99, quando lo cacciarono dal Giro d'Italia, e improvvisamente sento di nuovo odore di Proraso. Il Pirata resta il Pirata. Aggiunto il 18/03/2016 Dalle indagini sta venendo fuori che la camorra ha boicottato Pantani perché, altrimenti, se avesse vinto, non avrebbe potuto coprire le vincite delle scommesse clandestine. Se Pantani vinceva, la camorra andava in banca rotta. Pantani, con una pedalata, stava per sconfiggere la camorra. C'era una volta, tanto ma tanto tempo fa, una fanciulla che non riusciva proprio a smetterla di mangiare. Nutella, taralli col pepe, sfogliatella, melenzane sott'olio con scarpetta finale direttamente nel buccacciello, babbà, zeppola di san Giuseppe, pastiera, struffoli, pasta e cavolo, pasta e patate con la cotenna, pasta e pomodoro, pasta al forno, pizza, pizzette e pizza fritta, piede e muso di porco, piede e muso di vitello, alette di pollo, alette di pavone, alette di piccione, alette di gabbiano, a letto senza cena, mai. Insomma, una a cui non faceva schifo proprio niente. E mangia mangia ed ecco che il fidanzato si ritrovò pieno di debiti, perché si sa, un uomo non è uomo se non paga lui per la sua lei. E più lei mangiava e più lui era costretto a starsene appartato con gli strozzini per studiare il metodo più comodo per rateizzare il debito che, a ridosso di feste importanti (Pasqua, Natale, San Epifania, San Giuseppe: giorni durante i quali si mangiava quantomeno il quadruplo) si faceva sempre più profondo, tant'è che pure a loro - agli strozzini intendo - fece pena, e, con una mano sopra al cuore, accettarono che lo scontasse a duecento euro al mese, con tasso agevolato, col minimo degli interessi, per i prossimi 20 anni. E se fosse morto prima, beh, pazienza, pure loro c'hanno un cuore. Che volete farci, teneva fame la piccirella e lui, l'innamorato, nobile nel cuore, un galantuomo d'altri tempi incline ai canoni amorosi più ardimentosi del dolce stil novo, non riusciva proprio a dirle di no, alla sua Beatrice, anche perché, nonostante la sua fame spropositata, rimaneva comunque bella e magra, come la Venere di Botticelli. E d'altronde, lei sapeva come farsi perdonare. S'attaccava al suo corpo con la stessa fame con cui s'attaccava al cibo. Una fame macroscopica, mastodontica, ultracorporea, metaforica, appagante che abbracciava tutti e cinque sensi. Fu forse per questo motivo, l'estenuante attività fisica, che la nostra bella addormentata nel frigo conservava un fisico asciutto e statuario: gambe sode, seno possente, glutei atletici, pancia piatta come una tavola su cui si poteva bandire cene da 300 Trimalcioni. E intanto il debito cresceva e le tasche si appesantivano di vuoti siderali. Quella finirà per farti uccidere, figlio mio, è una scorfana vestita da puledra, arriverà a divorare anche te, figlio mio; ma cosa può una madre di fronte al potere della fe...deltà del cuore? Un giorno, mangiando mangiando, questa pacman delle fiabe incantate, divorò una mela libidonosa rosa succosa buonissima, in barba al fatto che, su di un cartello, ci fosse scritto non mangiare, rischio avvelenamento, morte, caput, aldilà. Dicono tutti così questi cartelli, non mangiare questo, non mangiare quest'altro, attenta all'etichetta, vedi bene gli ingredienti, i pesticidi, gli omicidi, i genocidi, gli infanticidi, i fratricidi, i peccati originali. La solita fissazione del non mangiare le mele, chissà perché la gente ce l'ha tanto con le mele. Stava pensando queste e altre cose simili, mentre strappavo l'ultimo morso di polpa attorno al torsolo, ché cadde come una pera cotta, lunga lunga a terra. Il principe, lui, il galantuomo, accorse al capezzale in lacrime, bestemmiando ai quattro venti tutto l'albero genealogico di ogni santo distribuito quà e là nel Paradiso. Ce l'aveva messo lui quel cartello, convinto sarebbe bastato a scoraggiare chiunque fosse stato tentato di mangiare quella mela, ma non aveva fatto conto con la sua donna. Era un noto imprenditore del ramo della produzione di mele avvelenate, per la realizzazione di fiabe internazionali. Coltivava ettari ed ettari di frutteti per rimpinzare il catering di tutte le vecchie streghe vendicatrici, vere protagoniste delle storie marchiate Disney. Una vera e propria multinazionale del veleno, per il quale, però non aveva antidoto. O almeno, ne conosceva qualcuno, ma erano adatte alle sole fiabe a lieto fine e lui, per vezzo, per miscredenza, per tempo, non ne conosceva nemmeno una. Se solo avesse letto un po' di più, se solo avesse creduto un tantinello in più nelle fatagioni. Le provò tutte per farla riprendere. Le urlò contro parolacce e complimenti, tentò cantandole un giorno all'improvviso, con le trombette, provò a passarle sotto al naso tutti i cibi più amava, le disse anche che si sarebbe candidato con il Partito dei puffi, Puffa Italia, se non si fosse svegliata, le baciò le labbra, le mani, provò a giacere con lei, per il più improbabile amplesso necrofilo mai raccontato in una fiaba, oh, ma niente, non ci fu verso. Stette al suo fianco, giorno, notte, settimane, mesi. Al sole, alle intemperie, durante le partite del Napoli. Un'immagine commovente, credetemi. Per stare pedissequamente al suo fianco e per una forma di autolesionismo, in odio verso la propria stessa attività, causa del malore della sua bella, si disinteressò della produzione di mele velenose. Non riuscendo più a coprire il debito mensile dei 200 euro, i creditori iniziarono a farsi sentire insistentemente. Fu costretto a vendere tutto, la derrate, le mele, la casa, il castello, il cavallo, la Ferrari. Intanto, il corpo, come se per troppi anni avesse retto epicamente contro una forza indomita proveniente da dentro e ora non ce la facesse più, iniziò a dimenarsi, a farsi spazio, ad allargarsi, a cedere, ad ingrassare: si fece enorme, le braccia quadruplicate rispetto a com'erano prima, il volto tutto, naso occhi bocca, ormai nascosto da decine e decine di chili di grasso, la pancia pareva un grosso consorzio internazionale di lardo di contrabbando; insomma, come aveva pronosticato, predetto, profetizzato la mamma, da puledra, la sua bella si fece scrofa e, del paragone con la Venere, non rimase che la botticella, la botte. Ma a lui non interessava: rimase lì, ogni giorno, senza mai schiodarsi nemmeno un secondo, ad accarezzarsela tutta, la sua bella principessa mangiona. Passarono i giorni, troppi, e il tempo, con uno sbuffo di vento, portò via nell'eternità le polveri assopite dell'innamorato che invano aspettò il risveglio dell'amata. Su di un marmo non rimase che il corpo deformato di una donna abbandonata da tutti, da tutto, dal fato, e di cui si raccontavano leggende strane, adipose, con trame losche ai confini di anguste dimensioni mefistofeliche. Colpa del diavolo, assolutamente. Quel corpo lì non avrebbe potuto inventarlo un Dio buono, no signore. Che nessuno si avvicini a lei. Non sia mai si venisse unti dal demonio. Capitò che un giorno, però, dopo secoli, passando di lì un giovane, uno straniero, affamato, indolenzito da lunghi giorni di digiuni, dopo mesi in cui, ramingo, ebbe girovagato tutto il globo, dopo che gli avevano incendiato il villaggio, vedendo quel corpo abnorme, decise di portarselo in una stanza che aveva affittato al centro della città, a due passi da un vecchio stabilimento abbandonato che una volta, tanti anni prima, aveva prodotto mele avvelenate, per note case produttrici di fiabe. Se la guardò bene bene, provò a svegliarla con tutti i modi possibili, le cantò addirittura un giorno all'improvviso, ma niente, non ci fu verso di ridestarla. Allora ci pensò su un po', giusto un paio di volte, per non passarsi troppo velocemente la mano sulla coscienza, poi alla fine si decise: l'avrebbe tagliata a pezzettini, messa in grossi boccaccielli sott'olio, messa in un congelatore, trasformata in salumi, in sugna per il casatiello, per i taralli e anche per un fare po' di sapone, ché l'igiene non va mai dimenticata. Prese il seghetto e iniziò a tagliuzzarla dall'alluce del piede destro, fischiettando I ragazzi della Curva b, quando la ragazza aprì gli occhi e, dolorante, le scappò da bocca Juve storia di un grande amore. Fu allora che il giovane, impaurito, ma pieno d'ardore in corpo, offeso da quelle poche sporche note, le mise in faccia uno straccio tutto arrepezzato per tapparle la bocca zozza, e così continuò a segarla al collo, sgozzandola con due colpi netti. Il giovane si arricchì la pancia e la tasche, fruttando un bel po' di soldoni per la vendita all'ingrosso del grasso della principessa. Con i proventi, comprò lo stabilimento abbandonato, estinse il debito che aveva contratto il vecchio proprietario nei confronti dei creditori e dei suoi eredi, dandosi così alla produzione di mele avvelenate. E tutti vissero una bella schifezza. Morale della favola: Non ne ho assolutamente idea o forse sì? Rem tene, verba sequentur [Catone – Orationes1 ] Sono ormai quattro mesi, sei giorni e dieci ore che non scrivo; totale: tremilatrentaquattro ore. Ti rendi conto? Tremilatrentaquattro ore a disposizione andati in fumo. Puff, bruciati, persi, scorsi, non recuperabili. Va be’, non chiedermi come ho calcolato tutto che, se te lo spiegassi, mi rinchiuderesti in un manicomio. Chiunque, a leggermi, mi prenderebbe per il culo. E d'altronde, facendo giusto un paio di conticini, è ovvio che il tempo dedicabile alla scrittura si riduca drasticamente se, a queste ore, sottraggo quelle spese per dormire, lavorare, mangiare e svolgere tutte le funzioni igienico-gastrointestinali necessarie per un viver sano; più o meno, in teoria, mi rimarrebbero cinquecentonove ore, molte molte molte meno. Vuoi provare a fare i conti? Lo vuoi mantenere tu il tempo? Il tempo… Una cassa in quattro, down stroke o up stroke?, un ticchettio, un come stai, la memoria, il dettato delle elementari, la maestra brava, i regoli, una libreria piena di libri, la dannata corsa dopo la maturità, il tentativo di fermarlo, una cacata di fretta, la corsa prima della maturità, il tentativo di riviverlo, un loop, ctrl+c e ctrl+v, una cacata rilassata con un libro tra le mani, svelto, impaurito, viscoso, un capitone nel lavandino, una metafora brutta sul serio, praticamente di merda, ctrl+x e ctrl+v, una barba corta, la vecchiaia, l’invecchiarsi, il ringiovanirsi, il botulino, una barba lunga, la tintura, si rivede la ricrescita, ctrl+z, l’illusione, uno stereotipo, un limite della mente alla mente, un limite del corpo al corpo, un volo, il primo volo, un volo di due ore e mezzo, sei di autobus, la distanza Madrid-Caceres, l'Estremadura e la sua sconfinata bellezza, il ritorno, la gonna dell’hostess, la voce del pilota, sei mesi, cos’è, ne? cos’è il tempo, oh? cos’è?, Su, cos’è? cos’è cos’è cos’è? Che poi, uno può pure chiedersi perché tutta questa mania, come se fosse obbligatorio scrivere, come se fosse un problema impantanarsi, perdersi le parole, quando prima t'eri perso in mezzo alle parole. Mi irrito ed è come se avessi un nodo in gola, una placca influenzale che rende uno schifo anche il più delizioso dei piatti. È tutto un mucchio di bolo, muchi secchi e succhi gastrici che esplodono in mille pim pum pam, zampillando sulle pareti dello stomaco come miliardi di scintille di una brace stuzzicata con dell'alcol. Cinquecentonove ore… Cinquecentonove… Tieni in pugno la storia, le parole verranno da sole…, mi consiglieresti, se tu fossi Catone. Ma le parole scappano, si nascondono… fuggono via… mio caro Marco Porcio. Vedi: quando sembra che un’idea stia per afferrarmi e scaraventarmi in un angolo; quando sembra volermi costringere a diluire a tutti i costi ogni mio istante di eccitazione in quella che credo sarà la mia frase migliore; quando momenti come questi mi colgono… puff! tutto scivola via, come un alito di fumo che striscia in una crepa nascosta tra gli infissi della finestra. Sembra che non possa mai passare in una ferita così stretta, eppure… È un'onda, un frangente. Prodigiosa, solitaria, come un bicchiere di vino rosso in gola. Cerco di trattenerla e di farla mia. Poi, mi fermo e penso al da farsi, e nella frazione di secondo che passa tra le due azioni, tutto si sfarina: il silenzio consuma l’ispirazione e mi dimentica in ghirigori senza senso. Giù, nei cassetti immaginari del tempo e nel pugno di polvere che da questi si solleva, prendo atto che l'ho persa. C’era una volta… e poi ci do dentro con gli scarabocchi. Il foglio si fa, via via, una foresta di correzioni, disegnini e cancellature. Più cancellature che correzioni. Come una descrizione affannosa, imprecisa, offuscata dal ricordo sclerotico, si salvano poche parole soltanto e non mi resta che arrendermi alla confusione della penna. Povero foglio… Aveva gli occhi azzurri e il mento… No, non va bene. AaAaAa....eccola, eccola che viene, l'idea, eccola ci sono.... poi niente... solo rabbia... fogli appallottolati... rabbia, rabbia e ancora rabbia... poi... frustrazione che va via e lascia passare la rassegnazione... uff... ecco...calma... Passo al portatile. La modernità non ti avvilisce di fronte agli insuccessi: basta premere un tasto e il foglio elettronico torna bianco. Semplice! Nessun abuso di carta, nessuna cancellatura, nessun ricordo, nessuna frustrazione… almeno fino a quando non ti accorgi del puntatore ballerino che compare e scompare, si mostra e si nasconde, cuccù, ti prende in giro, tetté. Ma non ti preoccupare, è il classico blocco dello scrittore, giuro che ne sono consapevole, ma come mai non riesco a scrollarmi da dosso quest’ansia? Ho la mente aggrovigliata… il buio ricama le mie esigenze, il silenzio le percuote, io le ascolto, ma non le respiro, non ci riesco: vorrei tanto dare senso alle parole e non alle paure; è che, ogni volta, sento di non essere mai all'altezza delle mie ansie, delle mie ambizioni. 1 Citazione che non ha alcuno scopo pedagodico o vanesio. Iniziare con un “Baby one more time” avrebbe significato inciampare in fastidiosi grattacapi circa eventuali diritti d'autore. Ma niente paura! L'artista in questione, qualora non lo sapeste, è ormai decomposto da secoli. |
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March 2019
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