Ci pensavo in questi giorni. Cioè, qua bisogna stare attenti che alla fine si rischia di fare la fine del coglione. La gente facilmente prende fischi per fiaschi. Potresti per esempio rifiutarti di suonare per pochi spicci - perché credi leda alla tua professionalità fatta di esperienze in tutta Italia, pubblicazioni, live e culi tanti, ma soprattutto perché non copre nemmeno l'accisa sulla benzina - e passi per arrogante. Potresti dire che - in qualità di Presidente della Commissione Antimafia, mica capocomico di Made in Sud ( anche se la persona in questione non sfigurerebbe in un programma comico) - in città e in tutta la regione, la Camorra è un elemento costitutivo delle strutture sociali amministrative politiche, e ti ritrovi sui giornali di tutto il mondo con virgolettati tipo "Presidente della Commissione Antimafia dichiara: Camorra nel Dna dei Napoletani". Ma se ti va di culo ci crede solo mezza città. Un fatto davvero pericoloso questo. Soprattutto nell'era del web, in cui spesso piovono tripudi di opinioni ai quali seguono scambi di smorte pratiche onanistiche, volte a sollazzare il proprio e l'altrui piacere interiore; azione più modernamente definita "Like". Pensa a quello che è successo alla Miss Italia. Cioè, quella ha vinto un concorso per la sua bellezza, mica per l'intelligenza. Ok, ha detto una, due, tre, quattro, un mare di cazzate e, per difendersi, ne ha dette un altro oceano, però è pur sempre una ragazza di 18 anni che avrà passato parte della sua vita sulle passerelle, mica in mezzo a gente intelligente come voi che le date in mano un microfono e state pure a sentirla. Ma la cosa che più mi preoccupa è il post mortem ( e il gioco di parole è servito). Cioè, l'impossibilità di poterti difendere, a meno che tu non sia un fervente credente delle vendette trasversali ectoplasmatiche post mortem. In vita, puoi rispondere a chi ti critica, a chi ha capito un cazzo per un altro. Certo, lo fai con i tuoi modi, con la tua intelligenza, il tuo lessico di male parole, ma lo fai. Pensa al caso di Jacques II de Chabannes de La Palice, maresciallo di Francia alla corte di Carlo VIII dei Valois. Poveretto. Dicevano dicesse tante di quelle stronzate scontate, da coniare un aggettivo costruito etimologicamente sul suo nome: lapalissiana. Ecco alcuni esempi. Fossi alto, non sarei basso. Fossi magro, non avrei la pancia. Fossi intelligente, non starei a fare polemica sulle dichiarazioni di una ragazzina di 18 anni vincitrice di un concorso di bellezza e non delle olimpiadi di Archimede (repetita iuvant), manco fosse l'illegittimo presidente del consiglio o il ministro che ha deciso che non puoi farti le analisi alla prostata, se non strettamente necessario, poco dopo l'estrema unzione. Cose così. "Uà frate' sei proprio strunz, hai detto una cosa proprio lapalissiana". Quante volte l'avrete sentito. Ebbene, il povero Giacomo, maresciallo di Francia, agli ordini di Carlo VIII che non aveva nemmeno compiuto diciotto anni, in servizio per ben quarant'anni, morto sul campo di battaglia nella guerra di Pavia, nel 1525, valoroso condottiero capace di incutere timore al nemico col solo pettinar la fluente chioma, è passato alla storia come un emerito cretino - tanto che pure la moglie lo prendeva per il culo davanti ai suoi soldati - per un semplice errore di traduzione/trascrizione, compiuto forse da uno che passava il tempo sulle piattaforme social dell'epoca, per dire sempre la sua su ogni tipo di discussione. La questione è questa. Si diceva che sulla bara, i suoi soldati, per schernirlo, avessero fatto scrivere: "Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n'était pas mort, il serait encore en vie", ovvero, "Qui giace il signor de La Palice. Se non fosse morto, sarebbe ancora in vita". E invece, a quanto pare, la "s" di "serait", per somiglianza grafica, è stata confusa con la "f", mentre "en" e "vie" era un'unica sola parola "envie". Quindi, la traduzione corretta, messo a posto l'apodosi, la seconda parte del periodo ipotetico, suonerebbe così: "Se non fosse morto, farebbe ancora invidia". Vi rendete conto? Volevano elogiarne la forza, il coraggio, la gloria, destinata ad perpetua rei memoriam per ben altri motivi. Ed invece. Dall'elogio alla presa per il culo, ci passa un traduttore incapace. Questo perché verba volant, scripta manent. Mannaggia la colonna. Magari, Mister La Palice era semplicemente un tipo taciturno, che non amava parlare in pubblico, tantomeno ha mai scambiato quattro chiacchiere con i suoi soldati, prima e dopo la battaglia. Infondeva serenità, ammirazione e coraggio con la sua sola aurea di impavido condottiero. Figuriamoci se si metteva a dire cose lapalissiane. O magari, sì, che ne possiamo sapere noi? Mica c'eravamo. Magari era un burlone, uno che amava i giochi di parole e che, a letto, corteggiava così la sua donna: " Se non hai mal di testa, ti smonto la cintura di castità". Oppure era un lapalissianista convinto e, prima della guerra, ha urlato cose del tipo "Se vi infilano la spada al cuore, potreste rischiare la vita", oppure "Se battete la Juventus, faremo tre punti importanti". Può darsi. Di certo non può dircelo il suo epitaffio. Ad ogni modo, voi state attenti a quello che dite e scrivete. Soprattutto sul web. Va a finire che, fra secoli, tramite l'applicazione "Successe oggi", ricompaia sul vostro profilo un post del 2009, e magari si dirà che l'avete copiata pari pari da un libro di Roberto Saviano, calunnia dalla quale non potrete difendervi, credenze ectoplasmatiche a parte.
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Lo penso spesso, devo ammetterlo. Scavo nell'attivismo di ogni giorno, negli amici, nelle associazioni, nel bello dal quale cerco di tirare su qualcosa di buono, come fa il prete che tira su l'ostia dalla pisside. Eppure... lo penso spesso perché i momenti di sconforto sono tanti, forse troppi. lo penso spesso perché, a rimanere soli, è facile; lo penso perché, a distanza di trent'anni, non è cambiato molto; Se è possibile, è pure peggio. O sei con loro, o sei contro di loro, ed il silenzio nuoce alla salute, più delle minacce. Lo penso spesso perché credo nelle parole del mio amico Vincenzo Strino : "Sono contento che siate in tanti a ricordare Giancarlo Siani. La memoria deve essere di tutti. La storia però è un'altra cosa e parla chiaro: quelli come lui, cronisti precari, cacacazzi con la schiena dritta in eterno conflitto col mondo ma sempre col sorriso sulle labbra, sono soli fino ad un attimo prima di morire. E questo io non lo scordo mica". E sono contento anche io. Perché ricordare è importante. Eppure - ma un po', giusto un pochino - mi viene il voltastomaco quando, a farlo, sono certi individui, certi politici, certi esseri. Gli stessi che lo hanno lasciato solo e che continuano a lasciare solo, nei fatti, chiunque cerchi di mostrare la verità. Gli stessi o, comunque sia, della stessa specie, della stessa stirpe. Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Leggetelo ad alta voce. Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Ancora: Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Ve ne siete accorti? Lo avete sentito? No, non è che è arrivato l'autunno. Mette proprio i brividi. Morire facendo il proprio lavoro. O meglio, chiariamo: Morire perché, fare bene il proprio lavoro fa paura a qualcuno. Che strano, vero? Soprattutto per noi che, oggi, a viverci col nostro lavoro, proprio non ci si riesce. O meglio: proprio non vogliono darcelo questo onore. (Lo penso spesso, devo ammetterlo. Lo penso spesso perché i momenti di sconforto sono tanti, forse troppi). Che poi mi chiedo, se nulla fosse successo, se Giancarlo non fosse stato lasciato solo, se avesse potuto continuare a vivere facendo il lavoro che amava, come si sarebbe rapportato ai nuovi modi dei media? Cioè, vi immaginate un "Affari tra politica e camorra nel napoletano, SCOPRI COME", a firma di Giancarlo Siani, magari proprio su di uno di quei giornali che, ogni sacrosantissimo anno, stanno a commemorarne la morte? Ve lo immaginate? Io No. In una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una città che sa, ma non vuole ammettere. In una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una nazione che sa, ma non vuole ammettere. No, non riesco ad immaginarlo ingobbito sul suo mac pro, intento ad impastocchiare un titolo sensazionalistico a tutti i costi, incollando tra loro dei virgolettati senza capo né coda, o ad inventarsi somiglianze tra un dipinto ed un pentito di camorra, solo per far vendere due tre quattro copie in più al proprio editore. E nemmeno riesco ad immaginarmelo pronto a svendere la propria professionalità di giornalista, a scambiarla per una mera controfigura in programmi d'intrattenimento. Non riesco ad immaginarlo pronto a fare così male il suo lavoro. Il lavoro che amava e per il quale è morto. Senza dignità. Senza amore. Senza verità. Ma forse mi sbaglio, forse si sarebbe adattato ai tempi. O forse no. No, no, no. Non ci credo. Morire facendo il proprio lavoro e mi chiedo chi gliel'ha fatto fare. Me lo chiedo ogni volta. Ogni volta che leggo di un giovane ammazzato, di un uomo ammazzato, di una città ammazzata. Ogni volta che sento che non importa se sei giovane, pieno di iniziativa e hai fatto un bel po' di sacrifici: l'azienda non puoi aprirla se... Ogni volta che senti "beh, ho chiesto a tizio, gli ho fatto un piacere, gli ho dato quello che mi ha chiesto, e beh .... ecco... non devo spiegarti perché lavoro qui"... Ogni volta che si sa, ma non si ha il coraggio di ammettere. Ogni volta che si sa, ma non si ha il coraggio di raccontare. Ogni volta che lavori per poco, niente o - se ti va bene - per un attestato di partecipazione. Torni a casa e lo metti in un quadretto o sul tuo curriculum inzuppato di sudore. Ogni volta che vedo che, più passa il tempo e più stanno riuscendo a convincerci ad amare il brutto, il pessimo, lo scadente, a discapito della ricerca del bello. Non si accontentano di nascondercelo, il bello, e di lasciare che ci si accontenti di quello che si ha. No. Vogliono che lo si ami, se possibile, che lo si adori. Che sia un libro, un programma tivù, una canzone, un paio di jeans con le caviglie scoperte, quanto più è idiota, gretto e scadente tutto questo, più noi dobbiamo amarlo. Ogni volta che un amico o un parente muore di tumore. Chi gliel'ha fatto fare. Di morire a venti sei anni. In una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una città che sa, ma non vuole ammettere. In una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una nazione che sa, ma non vuole ammettere. Eppure. Eppure un motivo, lo trovo. Devo trovarlo, per forza, in questa città, in questa nazione. Il bello c'è ed è dietro l'angolo. Credo. Il bello c'è, e bisogna studiarlo, scoprilo, amarlo, desiderarlo, mostrarlo a chi ci è vicino. Lo so, lo so, è riduttivo, ma a Ventisette anni ho bisogno di trovare le mie ragioni. Queste cose qui sono come i desideri che permettono a Peter Pan di volare, nonostante la forza di gravità: ci vuole un pensiero felice per resistere. Io, a Ventisette anni, ce l'ho e me lo tengo stretto. E poi ne rimango convinto: noi siamo migliori di loro. Anche in una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. Anche in una città che sa, ma non vuole ammettere. Anche in una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. Anche in una nazione che sa, ma non vuole ammettere. Scavo nell'attivismo di ogni giorno, negli amici, nelle associazioni, nel bello dal quale cerco di tirare su qualcosa di buono, e ci trovo facce, mani, gambe e chilometri di voglie, e ci trovo nomi e cognomi belli come le buone notizie. Belli come un motivo per cui continuare ad esserci. E allora ecco chi ce lo fa fare. E allora ecco chi glielo ha fatto fare. Credo, penso, immagino. Non lo conoscevo. In pochi l'hanno conosciuto davvero. Posso solo provare ad immaginare. Però, la città è la stessa, il magone allo stomaco pure. E allora, se Giancarlo Siani ci ha rischiato la vita, se qualcuno, ancora oggi, ha il coraggio seguire il suo esempio, porcaputtana, allora, un motivo c'è. Deve esserci. Ed è lì. Dove? Ma lì, non lo vedi? A portata di mano. Ladies & gentleman, signore e signori, bambini scassa cazzo e giovanotte grassocce con gli occhiali 'nzevati della vostra pelle unta, cinesi e koreani, russi e statunitensi in vacanza a Bacoli, orsi polari dal Dna pulito dalla Camorra, tanto pulito che vi state facendo pelle, pelle e ossa, solo brividi e polvere indossa, amanti del caffè decaffeinato e delle donne senza tette, cantautori e scribacchini, sono lieto di annunciarvi che BUKOWSKI NON È MORTO. Già già. Quel vecchio sporcaccione, che ha passato gli ultimi anni della sua vita a ingozzarsi di drink analcolici e a scrivere forse il suo romanzo più bello, “Pulp! Una storia del XX secolo”, ha deciso che vuole continuare a romperci le scatole con le sue donne, le sue scazzottate e il suo alito che sa di vomito. E menomale. Ma andiamo con calma e chiariamo le cose, altrimenti mi andate in confusione; e avreste pure ragione, tuttavia voi scusatemi se sono un blogghista, recensista, scrittorista, pennivendolista da due soldi. “Bukowski non è morto” è un libro, un bel libro, scritto dal mio caro fratello Francesco Spiedo. Francesco è un amico, di quelli che se non lo vedi per troppo tempo, dici “oh, ma che fine hai fatto? sei proprio una mappina, prendiamoci un caffè”, e poi passa tanto di quel che tempo che dopo un po' torni a fare “oh, ma che fine hai fatto? sei proprio una mappina, prendiamoci un caffè”, e così in un loop senza sosta fino a quando il caffè non va in estinzione e tu sei costretto a cercare un'altra scusa per provare a vedersi. Ma com'è che ho conosciuto Spiedo? Lo so che potrebbe non fregarvene, però serve a me per farvi capire quanta forza bisogna metterci nelle proprie idee, per dire al mondo "scusa, non per disturbare, ma ci sarei anche io". Ero su Facebook che cazzeggiavo quando, sulla home, mi comparve il video di un pazzo che, alla Feltrinelli, s'era messo con sto cartello addosso “Bukowski non è morto”, alla ricerca di adepti, per lo più pii finanziatori, per la realizzazione del suo lavoro, tramite quello che viene comunemente chiamato “Fundraising” o “ Crowfunding”. Non so bene la distinzione e se ve le andate a trovare voi su Google è meglio. Ad ogni modo, essendo io molto sensibile ai pazzi, ai coraggiosi, in sintesi, a tutti quelli che hanno il coraggio di scendere in strada, farsi il culo a tarallo, urlare le proprie idee, che sia con una chitarra o un cartello attaccato al collo, ho pensato, tra me e me, fammi vedere che cazzo è sto Bukowski non è morto. Ebbene, ho leggiucchiato un po' l'introduzione e sprazzi di romanzo ( perché dalla piattaforma del Fundraising, a ragione, non è possibile leggere più del giusto assaggio, per stuzzicare l'appetito), e così mi sono incuriosito ancora di più, ho contribuito al progetto, ho comprato il libro, l’ho letto tutto ed è così che sono diventato un groupie innamorato dello Spiedo style. Devo aggiungere, per onestà personale, che a fare da calamita, per le mie curiosità di avido lettore, è stato anche l’argomento: Bukowski. Chi mi conosce sa che mi sono laureato proprio con una tesi dal titolo “La scrittura che esplode dal basso. Bukowski, l’America e i suoi ubriaconi”, lavoro con cui, tra le altre cose, ho cercato di rivalutare la figura dello scrittore, troppo spesso considerato uno scrittore di Serie B. Un semplice sporcaccione, ubriacone e blàblablà dicono i suoi detrattori, ma non voglio stare qua a parlarvene, facendovi la casa piena di chiacchiere, proprio ora. Piuttosto, se vi va, se proprio volete, leggetevi quello che ho scritto nella tesi cliccando qui ( si scaricherà il file che potrete poi leggere con calma). Quello che ci interessa è la storia di Spiedo. Un giorno, tra un esame e l’altro all’università, tra una presentazione e l’altra del suo primo romanzo, “Neoprene”, a Spiedo viene l’idea di un romanzo che, facendo leva sul culto americano per i complotti - secondo cui Jackson, Elvis e Marilyn Monroe stanno giocando a scala quaranta su di un'isola deserta - desse nuovi natali a Charles Bukowski. A dargli lo spunto, forse, anche la bella introduzione della Viciani a Pulp! Storia del XX secolo, nell’edizione della Feltrinelli. Dovete sapere che Chinaski, oltre ad essere la maschera più caratteristica della commedia bukowskiana, è soprattutto l’alter ego dello scrittore americano. Chinaski è il cittadino medio che porta in giro, nelle sue tasche vuote, sul suo volto sofferente, tutte le angosce dell'uomo moderno disadattato, quasi apolide, incapace di trovare un punto di riferimento, incapace di adattarsi a degli schemi che, no, non riesce proprio a fare suoi. Ebbene - tagliando corto che qui dobbiamo parlare di Spiedo - in Pulp! Storia del XX secolo, scompare, dando spazio ad un nuovo protagonista: "Lo scrittore utilizza questo artifizio per rendere Chinaski immortale, Belane morirà, Chinaski mai", dice appunto la Viciani. E così, cari miei, torna in vita il nostro Bukowski. Bene bene. E cos'è che fa Francesco Spiedo? Ricostruisce i vizi, il sarcasmo, la tragedia di un uomo intelligente, arguto, romantico ma egomaniaco, perennemente in lotta con il cosmo e con se stesso; clicca su rewind e ripercorre la sua timeline, dalla pubblicazione del primo romanzo ( Post Office) all'incontro con quella che sarà il suo ultimo angelo custode, Linda; rimette in piedi i vicoli, scopre le lenzuola, riempie tutte le bottiglie. Ma attenzione, Spiedo non si limita solo a questo. - Non pensarci, non pensare a quelle pagine. Lascia perdere. Scrivere non è una questione di impegno, non è questione di parole incollate: scrivere e ritmo, un po' come ballare. Tu sai ballare? ( Tratto da "Bukowski non è morto"). Ora, non so se Spiedo sa ballare, e nemmeno me ne frega, ma quello che mi interessa dirvi è che Spiedo sa scrivere e che è riuscito a far rivivere il soul bukowskiano, nello stile così come nel plot, senza mai scimmiottarlo, un po’ come Mikie Rourke che, nel film “Barfly”, dovendo interpretare Henry Chinaski, non si limita a "prendere spunto" dal vissuto e dal modo biascicato di parlare di Bukowski, ma ci mette del proprio, ci mette l'anima. E infatti, in questo romanzo, di Francesco Spiedo, ne troverete tanta di anima. C'è la sua storia, c'è il suo coraggio di affondare nella carne e nell'anima e nella psiche di una società che non riesce più a ridere, né a farsi un bel pianto, di quelli che dopo vuoi farti due tre quattro birre una dietro l'altra, non per il gusto di bere, ma semplicemente per il gusto di capire fin dov'è che si è ancora vivi, e da dove è possibile rinascere. E basta. Ora dovete solo contattare lo scrittore per capire dove, quando e come potete leggere il suo romanzo. Potete fidarvi di me e, nel caso in cui doveste pensare che vi ho rifilato il pacco, potete sempre venire qui e riempirmi di male parole. In realtà, avrei da dirvi anche tante altre cose ( come il fatto che ho trovato molto interessante la scelta di dividere il romanzo di due parti: Born to be Ernest e The importance to be Hank, quasi dei piccoli indizi per i lettori più attenti) ma, come al solito, ho la fottuta paura di spoilerarvi tutta la trama ed io posso essere un pessimo recensista, posso non piacervi come cantautore, posso farvi cagare come scrittore, ma di una cosa sono certo: Non sono uno stronzo. Buona lettura Mi ero ripromesso di fare questa recensione in piena estate, proponendovela come consiglo di letture estive sotto all'ombrellone tra una fella di cocco, un vucumbrà, un'offesa a Salvini e qualche morto sulla spiaggia, che di questi tempi non si sa mai e, se ci va bene, potremmo farci una bella foto e condividerla su facebook, ma poi sono capitate un po' di cose e non ce l'ho fatta proprio per colpa del tempo. In tutti i sensi: spaziali, climatici, metereopatici e blablablà. E quindi, ecco il mio consiglo di lettura fuori stagione sotto all'ombrello o, al massimo, sotto al lenzuolo. Tra le altre cose, l'opera di cui vi voglio parlare capita a fagiuolo, o quasi, visto che l'ho pubblicata due minuti dopo la mezzanotte. Gli artigli dell'Aquila Nera di Ciro Abbate (YouCanPrint, copertina di una bravissima Veronica Crisci) affronta, tratta, narra – fate voi – dell' 11 settembre 2001. [ Avevo tredici anni e stavo giocando col pallone, giù casa. Non ricordo proprio con chi ero, ma ricordo nitidamente l'emozione che provai. Non quando accadde il fatto in sè, ma quando lo venni a sapere. Provai un senso di e quindi? A tredici anni, io ero un bambino che giocava a calcio nel parco, amava i Power Rangers e forse, ma dico forse, si avvicinava alla pubertà senza avere troppe fisime mentali. Non è che fossi privo di sensibilità. È che una coscienza, mica sapevo cos'era. E poi, che cazzo sono le Torri Gemelle? Poi niente, vidi le immagini. E vidi superman volare giù dal grattacielo. Correva giù, veloce, e pensai adesso spicca il volo e salva tutti. No, non è vero, non lo pensai, ma sarebbe stato bello. Cioè, sarebbe stato bello che avesse spiccato il volo. Capitemi: avevo tredici anni e credevo ai Power Rangers e, no, non sapevo manco di essere in una fase in cui la pubertà ti rende, se è possibile, ancora più indifeso di quello che sei. Credo. Però, quelle immagini aprirono una crepa nella mia infanzia. Non capii molto, ma divenni un po' più consapevole della mia umanità. Credo. Scusate la divagazione.] Di cosa parla Ciro Abbate nel suo libro? “ Forse, non troveremo mai la forma definitiva della realtà, ma dal momento in cui cominceremo a lavorare quell'argilla, diventeremo indissolubilmente parte di lei; prima o poi, sarà lei a mostrarci la forma esatta”, scrive l'autore. Ora, sono molti quelli che hanno usato e usano l'11 Settembre come argilla del proprio lavoro, e quindi capirete che, il lavoro di Ciro merita un primo importante complimento: tirare fuori l'ennesimo coniglio dal cappello e riuscire a strappare ancora un Ooooh di stupore nel lettore. Il problema di opere come queste – tra parentesi, un thriller – è quello di cercare, in fase di analisi, di non sputtanare troppo la trama. E quindi, per comodità, parto dalla domanda che si pone, in prefazione, Massimo Mazzucco, autore di documentari dal titolo 11 Settembre – La nuova Pearl Halbor e Nuovo secolo Americano: “Ma quello che abbiamo visto è davvero quello che è successo”? Se siete intelligenti, la risposta è facile. Però, siccome Mazzucco teme che voi, intelligenti, possiate non esserlo, vi dà la risposta: “Questa è la società di oggi. Una società dominata dalle apparenze, dall'impatto emotivo, dalla manipolazione visiva, dal consenso telecomandato. Solo chi sa guardare oltre il velo delle apparenze, oggi, può ancora sperare di vedere ciò che si agita dietro di esse”. [...]Giunti al secondo piano, una forte esplosione ci fece sobbalzare. L'uomo ferito alla gamba disse che ne avevano sentite della altre, l'altro parlò di esplosioni nei sotterranei; raccontò che una di queste aveva investito un suo collega, ferendolo, descrive Abbate. La storia è costruita tutta intorno a queste premesse. Nel mezzo, due semplici poliziotti, Allan e Brian, costretti a dire addio, molto presto, alla loro routine, ai loro amori, alle loro Stecy. Poi due sette segrete impegnate in una lotta fratricida, dei particolari serpenti in eterna lotta contro un'unica grande aquila nera, pronta a tutto, pur di estendere la propria egemonia sul mondo. Il bene e il male, Dio e Satana, luce e buio, paradiso e inferno, alto e basso, Dio e satana, blablablà di qui e blablablà di lì. Tutte queste venerande dicotomie ritornano e sottendono tutto lo scheletro narrativo. Gli stessi Allan e Brian sembra siano stati costruiti con queste logiche degli opposti. Laddove uno è arguto e coraggioso, l'altro sembra essere un po' troppo credulone e leggermente cagasotto, caratteristica questa, a onor del vero, che lo porta ad essere leggermente più riflessivo del compagno. E basta. Di più, davvero non (pos)so raccontarvi. Ciò che posso (ri)dirvi è che Ciro ha saputo inventarsi, con una penna e uno stile carichi di cinematografica drammaticià, una nuova storia intorno a quella che, agli occhi di molti, appare la più grande tragedia che il nostro secolo ha dovuto subire. Una sola scelta non ho condiviso. Conoscendo la poesia e il sarcasmo di Abbate, caratteristiche disseminate qua e là tra raccolte di poesie e racconti brevi ( vi consiglio di cercarvi "Paranormal Sweet Family"), mi sarei aspettato, per l'appunto, più spazio a queste due. E invece, Ciro, con cinismo, lascia che i protagonisti vengano letteralmente inghiottiti dagli eventi, senza dar loro il tempo di rifiatare, quasi come se - e forse è questa la vera volontà dell'autore - di fronte a certi gioghi, non si può far altro che correre e scappare. Un misto di crudo cinismo e realtà. Vi lascio con questa chicca dello stesso autore: “ La fantasia è un piccone che scava solchi dai quali spesso scorrono ruscelli di realtà”. |
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