All'improvviso, si sentì male il nonno. In studio, Fighetti era svenuto dopo che dalla regia gli avevano dato la notizia che qualcuno s'era fatto esplodere fuori al Senato. Erano morti tutti i politici presenti quel giorno più due turisti. Totale delle vittime: 6. Ci facemmo tutti il segno della croce. Pure io, sebbene non andassi in Chiesa dalla prima comunione. E infatti, un po' per mancata abitudine, un po' per il rincretimento generale causato dall'evento funesto, per errore, lo feci con la mano sinistra. Poco male. Il nonno si riprese, un po' a fatica ma si riprese. Merito anche di un goccetto di caffè Porchetti che avremmo voluto aprire a Natale. Altri due giorni e finalmente avremmo rivisto Zio Sergio, che erano ormai mesi che non veniva a trovarci. A Zio Sergio piace molto il caffè Porchetti e, fondamentalmente, l'abbiamo sempre preso per lui. Quando ero più piccolo, ma con la testa già dedita a ragionamenti ai limiti della schizzofrenia, gli stessi che in età adulta mi avrebbero portato a rinchiudermi in un anacronistico eremitismo, credevo che il caffè Porchetti lo si potesse trovare soltanto allo stadio, come prodotto creato ad uso e consumo dei soli tifosi. Distribuiti gratuitamente durante i macht invernali a tutti i supporters, grazie all'impiego di poveri disgraziati assunti a nero dalle società di calcio e disposti strategicamente in tutto lo stadio, pensavo che i caffè Porchetti fossero un modo con cui i presidenti cercassero di ripagare l'instancabile e incondizionato sostegno dei propri tifosi, in casa così come in trasferta. Fui costretto a ricredermi, quando, una mattina di una ventina d'anni fa, mi ritrovai ad inciampare su tre casse, e dico tre casse, di caffè Porchetti appena scaricato dal corriere. Era mezzogiorno, mi ero appena svegliato, e non mi sarei mai immaginato di trovarmele lì, nel soggiorno. O avrei dovuto? La nonna ha sempre fatto così: ogni volta che Zio Sergio si permetteva di dire cose del tipo ma sai che è proprio buona questa mela, subito gli faceva trovare decine e decine di ettari di foreste di mele. E magari a Zio Sergio, delle mele, non fregava proprio niente. Chissà com'è che gli era piaciuta quella. In realtà, a Zio Sergio, non piaceva nemmeno il caffè Porchetti. Lo ha assaggiato soltanto una volta, quando la suocera gliene regalò una bottiglia. Era il Natale del 1990. Gli bastò un solo sorso per etichettarla come la cosa più schifosa al mondo, dopo le orecchie zozze di zio Giacomo. Si sente troppo il sapore dell'alcol, diceva. (E che non venissero a denunciarmi per diffamazione quelli che producono il caffè Porchetti che de gustibus non disputandum est). Alla nonna, però, bastò sapere che fosse un regalo della suocera, per metterla sugli attenti, che a quei tempi, le due si sfidavano al chi mette sopra. Intanto, in studio, Fighetti, grazie all'intervento di tecnici, medici e ballerine, ma senza nemmeno un goccio di caffè Porchetti, si riprese alla grande. Aveva guardato in camera e, passandosi la mano tra i capelli, riuscendo a cacciare addirittura pure una lacrima, aveva confermato la notizia, quella secondo cui un uomo s'era fatto Kamikaze il giorno dell'antivigilia. L'aveva detto con l'aria scioccata di chi, in realtà, non se ne frega niente. La nonna sbattè le mani per la commozione, congratulandosi a gran voce con Fighetti, per quell'improvisazione da attore consumato. Sfiancato dalla notizia, come se gli avessero strappato l'anima dai piedi, Papà si lasciò andare sulla poltrona e quasi rischiò di schiacciare Cicisbeo, il bastardino metà husky siberiano, metà chihuahua che, lo scorso Natale, zio Sergio salvò dalle campagne di Villa Literno, appioppiandocelo a noi. Non abbiamo mai capito com'è che ha fatto il chihuahua ad ingravidare l'husky, ma tant'è. Per la cronaca, giusto per tranquillizzare gli animalisti più accaniti, la bestia s'è salvata, sgattaiolando via poco prima dell'impatto tra le natiche paterne e il comodo suppellettile. “ U gesù”, esclamò mammà dopo dieci secondi passati in religioso silenzio. Poi, Fighetti comunicò d'essere costretto ad interrompere l'intero programma per dare la linea al telegiornale. Vedemmo chiaramente la soubrette alle sue spalle mordicchiarsi le labbra, e non capimmo mai se fu per l'ansia della tragedia o perché delusa e anche un po' arrabbiata, per aver perso l'opportunità di sgambettare in tv, dopo aver passato nove mesi lontani dalla tv, causa una gravidanza indesiderata. La nonna esclamò un eloquente: “Sta puttane”! Alla prima edizione straordinaria, ne seguirono altri cento. In casa cadde il silenzio. E quando dico silenzio, voglio proprio dire silenzio. Non fosse stato per i cronisti dei vari Tg che s'accavallavano tra un canale e l'altro, a chiunque, la casa sarebbe sembrata un cimitero. E quando dico cimitero, voglio dire proprio...vabbé avete capito. Manco i soliti u marò, u gesù, che solitamente scandiscono gli spasmi di dolore di mia madre con inconscia regolarità. Figuratevi. La tv mostrò una città allo sbando, assediata da militari, carabinieri, ambulanze, elicotteri, giornalisti e poliziotti. Palazzo Madava sorrideva da terra con lunghe strisce di storia andata a male. Qualcuno chiese se non fosse necessario lanciare una campagna di sensibilizzazione per raccogliere fondi per la ricostruzione. Qualcunaltro ebbe il buongusto di consigliargli una gita a Vancouver. Intanto, il nonno si fece un altro sorso di caffè Porchetti e finì per ubriacarsi. Una di un tg regionale biascicò i nomi delle vittime. Tra questi sentimmo quello dell'ex consigliere, colui il quale, durante l'ultima campagna elettorale, era accusato di essere tra i più assenteisti tra i colleghi. Vedi i casi della vita. Dopo due ore di telegiornali, nessuno ancora aveva chiarito chi si fosse fatto esplodere e il perché. Non c'erano state minacce nei giorni precedenti e dell'attentatore non era rimasto altro che il terrore, l'angoscia, la rabbia e l'aria che sarebbe stata poggiata con cura nella bara, insieme a dei brandelli di jeans ritrovati tra le macerire e che, vista la modestia della qualità, fu logico per tutti pensare fossero stati i suoi. Nel giro di ventiquattro ore, fummo investiti da un centinaio di notizie apocalitticamente false. Le indagini erano partite in fretta, è vero, ma nessuno ancora era riuscito a mettere insieme qualcosa di vero. Nessuno sapeva dove sbattere letteralmente la testa. Ciononostante, i salotti dei più disparati talkshow si riempino di gente che aveva cose da dire: ipotesi, congiutture e congiunzioni astrali, astralogi, antropologi e orefici, psicologi e pschiatri, fu chiaro a tutti, più o meno, che era iniziata la corsa al caso, quello che strappa lacrime e dignità. Barbara Sturzo fece man bassa di testimoni oculari, sensitivi e tattili, di chiunque, insomma, fosse in grado di raccontare ai suoi telespettatori un briciolo di storia che potesse tenerle alto lo share. Nel suo studio, accolse un tale che aveva conosciuto un altro tale che aveva saputo di uno che, due giorni prima della tragedia, aveva comprato una bottiglietta d'acqua proprio al bar di fronte il Senato, e che ora andava in giro a dire hai capito? Io due giorni fa sono andato a comprare una bottiglietta d'acqua, l'ho pagata 4 euro, li mortacci loro, se solo avessi aspettato due giorni per bere, chissà che fine avrei fatto. Ti rendi conto? Gesù gesù. Lei, Barbara Sturzo, come un'abile dottoressa, li auscultava con perizia, indovinando il momento esatto in cui ignettarsi gli occhi di lacrime e incredulità. Intanto, in casa, ci imponemmo la normalità, convinti che sarebbe bastato sforzarsi per essere felici e levarsi da dosso il fetore della tragedia. Era pur sempre la Vigilia di Natale. Il giorno dopo sarebbe arrivato zio Sergio e, per questo, la nonna era felice. A casa Candela, la famiglia, lo stare insieme, è da sempre l'unico sostegno su cui ancora si può fare affidamento, l'unico modo per continuare ad accarezzare i sogni. E fa niente se non ci sono regali sotto l'albero. I preparativi per il cenone della Vigilia avevano ripreso il ritmo di ogni anno. Il nonno s'era occupato dei frutti di mare per il primo. Alla nonna era toccato completare gli struffoli. Mia madre e mio padre prepararono gli antipasti: insalata di rinforzo, insalata russa, cocktails di gamberetti, pizza prosciutto e carciofi sono alcune delle cose che mi ricordo. Arrivò presto sera. Ancora trovavamo spazio per infilare nello stomaco qualche noce, tra una tambolata e un commento gastrointestinale di Zia Maria, quando squillò il telefono. Risposi io. Dall'altro capo c'era zia Concetta. “Uagliò, appiccia 'a televisione e mitte 'o quinte canale”. Non salutò nemmeno e il modo in cui lo disse, tutta tremante, mi fece salire tutto il baccalà fritto. Lì per lì, pensai fosse colpa del baccalà fritto stesso, visto che non mi è mai piaciuto. Non ho mai capito il motivo per cui, quella sera, ebbi il coraggio di buttarne giù un pezzetto. Comandai mio fratello di accendere la televisione e di mettere il quinto canale. […] Voi capite che Papà, con la pensione che prende, a stento riesce a pagarsi l'affitto, figuriamoci ad aiutare i figli e, tuttavia, se non fosse stato per lui, nessuno di noi avrebbe potuto fare la vita che ha fatto. Non sono sicuro che qualcuno avrà il coraggio di leggerle queste mie parole in tv. E se dovessero farlo, nessuno se ne fotterà, ne sono certo. Fra qualche giorno già vi sarete dimenticati di me e di tutto il resto. È chiaro, qualcuno griderà allo scandalo. Che non è questo il modo di risolvere le cose. Ma ripeto, pochi giorni, e tutto sarà dimenticato. Ve lo faranno dimenticare. In ogni caso, credetemi se vi dico che non era mia intenzione rovinare il Natale a nessuno, ma quando, qualche mese fa, il medico mi disse che sarei dovuto morire precisamente il 28 Gennaio, dopo la disperazione, ancora prima della rassegnazione, ho deciso che sì, bisognava farlo. È che mi è venuta tanta rabbia. Negli ultimi anni non ho mai avuto un lavoro stabile. Mal retribuito, sempre. Notti insonni per i dolori alle gambe, alle braccia, alla testa, pure. Per cosa? Per sapere che mia madre a 79 anni deve chiedere un po' di latte alla vicina, sennò non può cenare? La capite - no? - la frustrazione. Tanto che potranno mai farmi? In ogni caso, sono già morto. L'idea mi è venuta, guardando la Tv. Li vedevo, li ascoltavo e mi saliva il vomito. Sono troppo lontani da noi, troppo. Vanno in giro a parlare di noi, per noi, ma non sanno, non capiscono. Non conoscono o hanno dimenticato com'è fare a pugni con tutti. Che ogni santo merdoso giorno è "la fine del mese". Ma tanto loro se ne fottono, è questo il problema. Sarò pure retorico, ma voi avete la forza e gli argomenti per darmi torto? Per mettere in pratica il mio piano, non è che avessi bisogno di molto. L'importante era fare in fretta. Non potevo aspettare un solo attimo in più. A breve, il corpo m'avrebbe abbandonato, forse prima del previsto, forse per sempre. Forza, lucidità e un biglietto del treno, niente di più-L'esplosivo? Mi è bastato mettere insieme un po' di botti illegali, comprati un po' qua un po' là. Il resto, credo, come si dice?, è cronaca. Polvere, questo è quello che rimane o rimarrà di me. È strano dover accordare, coniugare oppure scegliere un verbo quando, all'atto in cui scrivi, non sai cosa sarà di te. Quindi, non fateci caso a come scrivo. Le idee sono chiare, chiarissime, ma il dubbio di non farcela resta. Vorrei soltanto che non mi giudicaste. Non sono né un terrorista, né un eroe. Non sono nemmeno pazzo, se è quello che avete pensato. Sono lucido, lucidissmo. La malattia non ha intaccato il sistema nervoso. Potete trovare conferma di quel che dico nella cartella clinica che ho consegnato, insieme a questo foglio che sto scrivendo, all'unica persona di cui mi potessi fidare: me stesso. Ho messo tutto in una busta sigillata che mi sono spedito a casa con la ricevuta di ritorno, e che ho poi nascosto sotto al materasso. Un paio di giorni e troverete tutto, ne sono certo. Ho preso delle precauzioni, ovvio, per evitare che qualcuno possa parlare a sproposito, ma sono certo che sarà impossibile fermare il chiacchiericcio dei tanti. Temo pure che qualcuno possa nascondere e bruciare la cartella clinica, per poter dire “è solo un povero malato. Tutto è tranquillo. Non c'è un pericolo terrorismo”. Già lo so che faranno così, ma che volete farci? Nutro ancora l'illusione che gli ultimi desideri scritti col cuore in mano da un condannato a morte contino ancora qualcosa. Credetemi se vi dico che spero di non trovare nessuno al Senato. Non voglio far del male a nessuno. Non sono un violento. È solo un gesto. Una metafora. Quale? C'è bisogno di dirlo? Devo fare filosofia? Va bene: con la disperazione, la fame e il culo della gente non si gioca. Minaccia? Nessuna, tanto sono già morto, ve l'ho detto già. Sono sicuro di lasciare del vuoto nella mia famiglia, lo so, ma l'idea che i miei genitori si sarebbero dovuti occupare di un figlio malato per poi vederlo spegnersi lentamente, mi lacerava il cuore. Ah, loro non sanno niente, nemmeno che sono malato. Quindi è inutile che li interroghiate. Lo giuro sui figli che non ho mai avuto, ma che avrei tanto voluto dare alla donna che amo. Non lascio nessun rimpianto. Ho fatto sempre quello che volevo. Di quello che ho fatto, di quest'atto di reazionaria razionata follia, non me ne vergogno, sappiatelo. Non preoccupatevi nemmeno di farmi il funerale, tanto di me non saranno rimaste nemmeno più le ossa. E comunque, un suicida, seppure destinato a morire, se non sa gioire delle sofferenze donate dal signore, non è degno di entrare nella sua casa. Funziona così, no? Vorrei soltanto che mia sorella e mio fratello abbracciassero forte forte mio padre e mia madre e a lei, soprattutto, ve ne prego, ringraziatela per tutte le mele che, ogni giorno, per trent'anni, mi ha sbucciato e messo nel pranzo di lavoro. Vostro, per sempre, Sergio Candela. P.s. Non date retta a gnente. Vi auguro Buone feste :)
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Restare in equilibrio sul bordo di una piscina. Da un lato i pescecani e dall'altro le iene. Il pavimento è quello che è: scivoloso e pieno di merda. E tu ci vai pure a piedi nudi e non per scelta, ma per necessità: le scarpe ti vanno tanto strette che, in fondo, è meglio calpestarla un po' di puppù. Bisogna camminare a piedi nudi, sentire il freddo, la sporcizia che s'infila tra le dita, i sassolini appuntiti che s'infilzano nella pelle, lasciare a terra il segno dei propri passi imperfetti, feriti, sanguinanti, propri. Certo, è una metafora brutta, bruttissima, neanche Fabio Volo l'avrebbe pensata, ve ne chiedo scusa, ma non ho saputo fare di meglio. È come stare in fila alla Posta, ai primi del mese, quando danno le pensioni. Tu hai il numero centosedici e la Posta ha aperto da due secondi. Non sai com'è che è capitata 'sta cosa, cioè, che prima di te ci stanno centoquindici persone. Un po' non te lo chiedi, un po' te lo immagini, un po' fai finta di niente, e per non fare la parte del coglione, ti ritrovi ad a interpretare quella del fesso. Ma ha una logica tutto questo. Non so qual è, ma c'è. La senti, la vedi, la puoi perfino toccare. Fende l'aria, è nell'aria, e tu non puoi negarla. E se la neghi, non so che dirti. Deve esserci una logica, altrimenti che fai? Impazzisci? Non si può. Bisogna restare aggrappati al bordo della piscina con le unghie dei piedi. La Posta è la metafora perfetta, brutta pure questa, lo so, ma calzante, anche se, per un fatto di comodità, abbiamo detto che è meglio stare a piedi nudi. Qui, alla Posta intendo, l'aria è irrespirbaile e non è soltanto colpa degli effluvi corporei o dei nostri piedi nudi sporchi della merda calpestata sul bordo della piscina che alla fiera dell'est mio padre comprò. No. È la calca, l'ansia, l'attesa, la rabbia, le crisi di panico, l'orologio, i numeri che passano e ancora non è arrivato il tuo. L'impiegato postale se la prende con la vecchietta, che se la prende con l'impegato che torna a casa e prende a botte la moglie che, alla fine, come in un bruttissimo giallo allegato al Corriere della sera, si scopre che è la figlia della vecchietta. Alla Posta, incontri volti, culi e tette diversi, ma i ruoli sono sempre quelli. È un florilegio di maschere. È come andare al teatro e vedere diecimila volte Natale in Casa Cupiello, e ogni volta cambiano gli attori, e ogni volta sono sempre più scarsi. Ti annoi, ma t'hanno legato alla poltroncina, e a quel punto che fai? guardi, osservi e credi di aver capito com'è che si apprezzano i dettagli. In Posta, trovi il rivoluzionario, quello che ce l'ha col sistema e che parla di complotti, massonerie e marmitte catalitiche. Lui cerca consensi e uomini da arruolare, volontari disposti a tutto pur di mettere a ferro e fuoco la sede centrale delle Poste italiane, ma in realtà, e lo capiscono tutti, sa solo prendersela con l' impiegato di turno. Non manca mai la vedova, ma di lei non c'è molto da dire: è tanto silenziosa che, se non fosse per il vistoso lutto di flanella che la copre da capo a piedi, non la noteresti nemmeno. Poi ci sono i tipi semplicemente fashion: li vedi tutti lampadati, con gli occhiali Rayban e che sembrano aver scambiato la fila allo sportello con quella del guardaroba di chissà quale locale delle periferie di paesi di provincia. In Posta, trovi anche la donna trascurata, tutta baffi e panza, in stile Chef Tony o Umberto Smaila. Il più delle volte ti verrebbe da abbracciarla e urlarle Maradò, Maradò, perchè non torni a giocare nel Napoli, non vedi come fanno schifo quelli?, ma, in generale, potrebbe ricordare la Mrs Doubtfire di Chiaiano, quella di cui vi ho parlato qualche racconto fa. La differenza è che questa categoria ricopre più fasce d'età e non importa se hanno dieci, venti, o sessant'anni, loro si mostreranno agli astanti con la maglia zozzosissima di ragù, cioccolata o chenesoio e le babbucce al piede. Poi, c'è quello che controlla ogni due secondi dove ha messo il bigliettino col suo numero. Lo cerca in tutte le tasche e una volta che lo trova, lo guarda, osserva il tabellone luminoso, si assicura che no, non è il suo turno, poi lo riposa ma cambia tasca, sperando, ogni volta, di ricordarsi dove l'ha messo. Passano due secondi e il gioco inizia da capo, ogni volta, sempre. Dove l'ho messo? Ah, eccolo. No, non è il tuo turno. Vivi d'ansia, vivi d'attesa. Fumi tante sigarette. Tutt'intorno ce n'è una fioriera. Non sono solo tue, è vero, ma molte sì. Entri ed esci mille volte per controllare se il numero da aspettare corrisponde al numero effettivo dei presenti e viceversa, e ti poni, ancora, di nuovo, la stessa domanda: com'è che quello sta prima di me? C'è pure quello che dice delle cose tra i denti e tu non puoi capirle perché le dice tra i denti, ma lui si rivolge a te e pretende che tu lo segua nei suoi discorsi intedentali. Non ti capisco, come te lo devo dire?, non ti capisco! Poi, seduto, in disparte, in attesa che arrivi il suo turno, c'è quello che legge, ed è l'unico in tutta la Posta. Di solito, ad intepretare questo ruolo, sono io. Ed eccolo. Forse è proprio questo il problema: resto instabile, sospeso, in equilibrio su capoversi, punteggiature e pause delle storie di altri e poi, la realtà che mi circonda non riesco proprio a farla mia. D'accordo, anche questa è una frase di merda, scritta anche malissimo, ma anche in questo caso non ho saputo fare di meglio. E d'altronde, è semplicemente la realtà. Ah, dimenticavo. C'è anche il furbo che in realtà è solo una persona cattiva, molto cattiva. L'ho scoperto un giorno in cui con me non avevo nulla da leggere. Manco a dirlo, c'era una fila immensa, lunga ore, straripante e, come al solito, per passare il tempo, c'era chi organizzava prediciottesimi, partite a briscola e rappresaglie ai danni dello Stato. L'aria era tesa, pesante e puzzolente come sempre. Un ragazzo, avrà potuto avere sì e no diciassette anni, chiese al tizio se sapeva com'è che si fa una prepagata. Timido, impacciato, insicuro, aspettava già da cinquanta numeri. Voleva solo essere rassicurato. Voleva capirci meglio. Col sangue agli occhi, lui gli guardò il numero, si accorse che gli stava davanti così gli rispose che probabilmente non gliel'avrebbero fatta, che c'era troppa gente e che gli conveniva tornare il giorno dopo. Guarda che chiavica, ho pensato. Stavo per dirgli non ti preoccupare, ce la fai a farla, al massimo, chiedi prima di andartene, quando è proprio lui a dire queste cose, aggiungendo ho aspettato tanto, sono un fesso se me ne vado ora. Insomma, anche questa è una metafora di merda, ma ci siamo capiti, credo. Son fesso io? Può darsi. In definitiva, l'equilibrio è una cosa che non mi è mai stata chiara. So solo che mi ci metto io in queste situazioni, ma non so però in che misura, cioè quanto è da imputare a me, quanto al resto indecifrabile. Non so neanche questo. Non so niente, in realtà. Anche questa è una merdata, ma almeno non ho scritto una cosa tipo che siamo noi a metterci in queste condizioni universalizzando una condizione di disagio personale, cercando solidarietà e/o trovandogli una conclusione ad effetto. No, almeno questo. Ho paura di risultare banale, di scivolare e cadere dal lato sbagliato. Cioè, se proprio devo cadere, fatemi scegliere da chi devo essere sbranato vivo: l'acqua mi fa paura, meglio le iene. Oppure no, 'na bella sciuliata, 'na capata 'nderra, e poi che me ne fotte dove vado? Tutto sta nella scelta. Ma anche nel ricordo. Ricordarsi e poi scegliere. Scegliere di ricordare. Ricordare di scegliere. Non ci sto capendo niente. Perché scrivo 'ste porcate? Sto in confusione. E tutto questo per aver fatto quattro ore di fila in Posta per pagare un bollettino di merda. P.s. no, non potevo pagarlo né alla tabaccheria, né su internet. Che vita di merda. Ciao Ho passato la giornata sul divano. Lo so, dovrei uscire, prendere aria. Credimi, me lo dico tutti i giorni. Mi alzo, vado in bagno, quasi sicuro del fatto che non m'imbottirò di farmaci questa volta, ma poi mi guardo la barba, vecchia di tre settimane, e non ho il coraggio di tagliarla. Mi risiedo sul divano e amen. Tutto passa così, tra rabbia, rassegnazione e autolesionismo da film di serie b. Inetto, incapace, ignavo. Che ne sai tu? Sono stati giorni di 'a bucchine ra mamma, ma che le ho fatto?, è na zoccola, nemmeno più un ciao, iss 'e chillu curnute do frate, perché?, perché?, chella granda cessa, basta, basta, un foglio bianco, freddo, Barba D'Urso, lasciami qui, scendo domani, le divisioni a tre cifre non me le ricordo, passami la calcolatrice, il thè è pronto?, vaffanculo, la amo, ti amo, la odio, co cazze ca me faccie fa' 'sta vote, non ci torno, nemmeno se, però la voglio, mi manca, ti voglio, mi manchi, sai chi schifo di più in questa situazione?, la mamma, la zia, la nonna, lei, lei, lei, lei, lei, no, è stata colpa mia, l'ho trattata coi guanti?, non mi merita, non la merito, passami quel libro, ancora Fante?, che bello, almeno c'è il Napoli, ti odio, odio pure te che mi vieni a dare pietà, no, scusa, resta qua, grazie, no, la barba?, ti piace?, me la sto facendo crescere, dovrei farmi una doccia, ma che le ho fatto?, che mi lavo a fare?, apri la finestra, si sente assai?, è na zoccola, sìsì, sta volta non la saluterò nemmeno, cambierò strada, chiodo scaccia, 'a bucchina ra mamma, la amo, la amo, hai visto?, mi ha regalato il pupazzo di walle soltanto il mese scorso, ué vedi ca mo' fa 'o Napule, chillu curnute ro purtiere nunn'è bbuone proprie!, Pascà, ti ricordi in curva tutti insieme?, lo so, lo so, mi ha tradito col meglio amico mio, lasciami qui, Barba D'Urso, il foglio?, sì ho scritto due cazzate, Giuà, ma mica so' scrittore io?, le ho mandato pure i fiori, lo so, ha fatto schifo, che bella però, quando le ho mandato le rose, pronto? uè mamma', dai lasciami stare, sto bene, ti prego, i carabinieri?, sì lo so che te l'ho detto?, che ho fatto?, pronto? No, Caterì, lasseme sta', niente le ho mandato le rose, ha detto che avrebbe chiamato i carabinieri, embé?, che ho fatto?, Barba D'Urso, basta, basta, basta, la amo, ti amo, ti odio, la odio, mi manca, e niente, ho detto basta, sto trovando come odiarla, abbiamo fatto l'amore soltanto ieri, l'altro ieri, e il giorno prima ancora, perché i carabinieri?, avrò fatto due tre quattro chiamate in più, volevo capire solo perché, Barba D'Urso, alla fine ho smesso, perché?, ma che le ho fatto?, è na zoccola, mi hanno detto pure che l'hanno trovata dietro allo stadio con quel zozzoso di Tonino, 'o meglio cumpagne mio, ci manca solo una denuncia per due tre quattro telefonate, mi faccio la barba ja, mo scendiamo, no Giua', ho cambiato idea, il the è pronto?, vaffanculo, aaaaaaa, passami Fante, anzi no, passami un po' Fedor, anzi no, dammi il cuscino, vattenne mo' me cocc nu poc, ho sonno, mi ma manca, Rai 1, Rai 2, Rai 3, nun fa maj nu cazz 'nda sta sfaccimme 'e televisione, mammà, hai visto il nuovo video dei the jackal?, ma poi l'hai sentita più?, ma che?, so quattro mesi che non la vedo e non la sento, sì dopo mangio ja, fammi na camomilla, Barbara D'Urso, sì leggi quelle parole, ti piacciono?, le ho scritte ieri mentre, Barbara D'Urso dai The Jackal, ti amo, la amo, non so se sono poesie, non c'ho buttato manco il sangue, sono uscite così, come, hai visto il Napoli?, quello è colpa del presidente, uè grazie Luì, si 'o meglie cumpagne mij, ma mo mica la prossima la ragazza me la fotti tu?, hehehe, sì, sto meglio, eccerto, sono passati dieci mesi che non la vedo e non la sento, chella 'bbucc....Forza Napoli, sì Luì, sono uscito con una ragazza e mi piace assai assai, le rose, le poesie, la ferita? La ferita è bella profonda, ma il sangue s'è fermato. Me lo hai detto tu ieri, guardandomi alle spalle. Non ti ricordi? È rimasto il segno, ma mi è passato tutto. L'ho tolto io da solo il coltello dalla scapola. All'inizio, è uscito un po' di sangue, però ora si è fermato, te l'ho detto, me l'hai detto tu, dallo specchio non capisco, non vedo niente. Lo so, sono stati cattivi nel pugnalarmi alle spalle. Il coltello? C'è del sangue, secco, raggramuto, è nero, puzza di merda, è vero, ma ora ce l'ho dalla parte del manico. L'ho pulito. L'ho usato per farmi la barba e le basette. L'ho buttato via. Sono felice. Rabbia? Adesso no e d'altronde a chi non è capitato? E poi, anche i migliori amici ti pugnettano alle spalle. Sì, ci vediamo fuori al Cinema. l'arte di misurarsi la palla in una little stronzology (altrimenti detta scuola di scrittura)6/12/2014 E niente. Amleto De Silva mi ha riconquistato. Detto così sembra tanto una cosa gay, ma quando un lettore annoiato trova lo scrittore giusto per sé, è l'inizio di una lunga storia d'amore e fanculo a tutti. Fa gnente se mi fate notare che ho gli occhi a cuoricini e che sembro una fan isterica di Juestin Bieber. Prometto, però, di mantenere un certo contegno: giurin giurello. La cosa che mi piace di De Silva è la sua capacità di essere e restare scrittore, anche e soprattutto quando sfotte tutto e tutti, anche se stesso. E non è facile essere autoironico ma se ci riesci, allora sei un grande. La nobile arte di misurasi la palla parte da questo Enea che fa tutta una serie di sforzi per arrivare e restare in questa scuola di scrittura romana e vedere coronato il suo songo: pubblicare un cazzo di libro. E, per riuscisrci, dovrà fare i conti con i tanti sposta questo, scrivi meglio quest'altro, il protagonista deve essere gay che funziona dippiù, sposta il ponte e fallo diventere lo special, il ritornello è bello, ma cambia il giro armonico, ma in questa salsa hai messo il sale? Circondato da un ammasso di idioti, superbiosi, figli di figli di figli di figli di potenti figli di papà, nel pentolone dei cretini della scuola, il protagonista di De Silva, tra tutti, è la prima forchetta nel brodo, come si suol dire. Ricordate Stronzology? Ecco, la Scuola ( e leggendo il romanzo capirete perchè va scritto con la ESSE grande) è una specie di microstruttura sociale in cui stronzi e cretini s'incontrano e si scontrano con una facilità incredibile. Tuttavia, il protagonista, pur sapendo di far parte della schiera dei cretini e quindi destinato a soccombere, pur realizzando che è un mondo, quello della scuola, ripugnante e viscido, vi si tuffa a cufaniello. D'altro canto, o sei con la Scuola o non hai altre chance per aggrapparti a nomi noti, promesse e speranze. Quindi si rimbocca le maniche, pronto a fare il culo così a tutti. E, ovviamente, non si sarebbe chiamato Enea, se la sua vita non fosse stata caratterizzata da una continuata lotta contro il destino e, quindi, da tutta una serie di falli roteanti predisposti ad infilarglisi nello sfintere. Quindi, è chiaro che c'è tutta una serie di peripezie e rotture di scatole che il nostro eroe dovrà affrontare. E mi fermo qui. Davvero. La trama è tutta così perfettamente aggrovigliata che se vi anticipassi anche mezza cosa, rischierei di rovinarvi il gusto della lettura. Ho goduto ad ogni capoverso, trascinato dall'impeto di quel fiume di stile che è De Silva. La trama, a un certo punto, ti inchioda sulla sedia e ti fa dimenticare facebook, twitter, la tua vita sociale, tua madre e tuo padre ( più o meno in questo ordine), e siccome vorrei capitassero anche a voi quest'attimi di gaudente follia, taccio su altro. Compratevelo, leggetelo, regalatelo e diffondente il verbo. Chiudo solo con una citazione, la stessa che De Silva ha usato per chudere il suo romanzo: mi stupisco che qualche imbroglione non abbia ancora inventato le scuole di scritture (Arthur Cravan). P.s. l'altra volta l'ho dimenticato di scriverlo, ma vi ho detto o no che non sono un recensista? Stronzology è edito Liber Aria. La nobile arte di misurarsi la palla, invece, è edito 'Round Midnight edizioni. Complimenti ad entrambi gli editori per avere un cavallo di razza della portata di Amleto De Silva, nelle loro scuderie. Torno a scrivere un po' di cazzi miei, a mo di fattarello come piace a me, che con la storia delle recensioni tutti hanno iniziato a dirmi perchè, anche io, che bravo, pure?, fai bene, a tavola, è pronto. Che poi ne ho fatta una sola. Che poi chiamarla recensione sembra una cosa da coglioni. Basta dire solo che mi è piaciuto Stronzology e, come mi capita ogni volta che mi entusiasmo per qualcuno o qualcosa, non ho potuto fare a meno di raccontarlo. Ma dicevo, torno a raccontare qualcosa di diverso. Piglia i ricordi, riscrivili a caso, così come ti passa per la testa, e poi boh. Cosa credevi di fare? Letteratura? Ma va. Comunque... Avevo sì e no sedicianni. Eravamo io, Salvatore e suo cugino, uno di cui non ricordo il nome, ma a noi non frega niente visto che anche Salvatore è un nome preso random. Meglio evitare di dire i nomi veri, che il mio amico potrebbe offendersi. Essere tirati in ballo, così, pubblicamente, brutalmente, su di un blog, ma vi pare? Potrebbe vergognarsene. Vero Gennaro? Vi dicevo, avrò avuto sì e no sedicianni e portavo i capelli a spazzola. Li ho sempre portati così i capelli. Beh, un paio di volte ho avuto l'ingegnosa idea di radermeli a zero o di farmeli crescere tipo il clown dei Simpsons, Krusty. Perché è questa la forma che assumono i miei capelli, ogni qual volta mi vien voglia di farmeli crescere, cercando di assomigliare a non so che ricchione di Hollywood. Però, il più delle volte li ho portati così, a spazzola. Ma non come pensate voi, tipo due, massimo tre centimetri di pelo irto, in stile Bart Simpsons ( è già la seconda volta che li cito, ora mi aspetto la denuncia di Matt Groening). No, vi sto parlando di vere e proprie antenne pelifere, con le quali avrei potuto chiedere un sostanzioso vitalizio per aver fatto da ripetitore alle frequenze di RadioRadicale. Insomma, senza dubbio un taglio piuttosto appariscente, un po' a pesciolone, e non domandatemi perché avessi osato tanto. Avevo sedicianni e Dragonball Z era già alla 324esima messa in onda. Che le cose fossero collegate? Bah, chissà. Fatto sta che io, “Salvatore” e il cugino (di cui continuo a non ricordarne il nome) stavamo per prendere la metro a Chiaiano. Prego, allontanarsi dalla linea gialla. A un certo punto, arriva un gruppo di ragazzi davvero simpatico e, infatti, subito incomincia a prendermi di mira, facendo riferimento al mio taglio eccentrico. Ora, è vero, me la sono andata a cercare con la mia acconciatura, ma eravamo nel 2004 e contavo sul fatto che, nel 2004, ognuno potesse fare e indossare quel che cazzo gli paresse, senza dover essere sfottuto dal primo coglione che s'atteggia a guappo. A dire il vero, ci fu una cosa che quasi mi fece commuovere: porto gli occhiali da quando avevo 10 anni e, la presa in giro più ricorrente, dimostrazione che è solo un luogo comune il fatto che a Napoli siamo dotati, in origine, di creatività, era e resta 'o spicchià! C'è da dire, però, che, nell'ultimo periodo, la moda di indossare gli occhiali, anche quando si è in possesso di dieci perfette diottrie, anche da parte dei boss di un paesino in provincia di Rejkiavic, ha calato, di molto, l'uso di quest'offesa gratuita e ai limiti della discriminazione. Fatto sta che, quel pomeriggio, essere preso in giro solo per i capelli fu un qualcosa che – non scherzo – mi commosse. La cosa più gentile rivoltami fu: - Uà, par Draongbo'. Poteva andarmi peggio. Non risposi, anche perchè il gruppo di guappi era abbastanza corposo e, soprattutto, ce n'era uno che, a primo sguardo, doveva essere almeno il triplo di me, per altezza e per chiattezza. Però sia chiaro, non stetti zitto per paura di prenderle, no. Sono un tipo coraggioso io, che pensate? Semplicemente, non volevo che si rovinassero i capelli. Comunque, si stancarono presto. Volevano solo trovare la questione e, toltogli il terreno fertile, smisero di prendermi in giro. Succede quasi sempre così. Quel pomeriggio, riuscimmo a prendere la metropolitana e, se vi dicessi di ricordarmi dove andammo, cosa facemmo, chi frequentammo, vi direi una bugia cosmica. Non mi è rimasto nulla nella memoria. Niente, tabula rasa. Vuoto totale. Magari ho fatto la posteggia più megagalattica grazie al mio ciuffo sbarazzino, ma giuro che non me lo ricordo. Forse è stato l'evento traumatico e, allo stesso tempo, tragicomico capitatomi al ritorno, ad aver creato questa lesione al continuum spazio temporale della mia memoria, ma boh, così, su due piedi, non saprei dirvi. Ma nemmeno da seduto saprei fare di meglio. Voi ora, ovviamente, vorreste sapere qual è l'evento traumatico e, allo stesso tempo, tragicomico capitatomi al ritorno. Giusto. Per farla breve, al ritorno, beccammo nuovamente la giovane comitiva dispensatrice di goliardici paragoni, di cui vi ho parlato poc'anzi. Come noi, anche loro stavano aspettando l'autobus per poter tornare a casa, ed è inutile dirvi che ho fatto finta di non sentire i loro mirabolanti complimenti verso la mia persona, con la certezza che, prima o poi, sarebbe arrivato il loro autobus. Ed è inutile anche dirvi che, in silenzio e con la devozione di una perpetua di campagna, pregai l'altissimo affinché il loro autobus non fosse lo stesso nostro. Intanto, i miei amici, Salvatore e il noname del cugino, restavano in disparte come se il fatto non li riguardasse, come se fosse stata una colpa quella di voler imitare a tutti i costi Vegeta secondolivello. Poi, a un certo punto, arrivò un pullamn. -uagliù 'o pullma'. Jamm ja. Era il loro. Grazie Dio, dissi tra i denti, promettendogli che, da quel momento in poi, sarei andato tutti i giorni in Chiesa, come una perfetta pecorella del suo gregge, tornata per onorare la sua magnanimità. Corsero tutti, spingendosi come porci a cui è stata appena gettata la cena nel letamaio, come rattusi con i testicoli gonfi, ai quali si era appena concessa nientepopodimentochè Aida Yespica. Penso sia la soubrette in voga dell'epoca. Salirono tutti, la porta si chiuse, l'autista accese il motore, stavano per partire, mi fecero un ultimo saluto, in forma di epigramma encomiastico in stile catulliano, e fu in quel preciso momento che mi feci forza. Alzai la testa e gridai, computandone le sillabe con visibile godimento, un sontuoso e soddisfacente Va-ffà-ncù-looo. Mi sentii bene, fiero, in estasi, con una sensazione di egoteina diffusa in tutto il corpo. Vaffanculo Vaffanculo Vaffanculo Vaffanculo Vaffanculo Vaffanculo Vaffanculo! Avevo dimostrato di essere un uomo. Senza palle, ma pure sempre un uomo. Non passò molto per rendermi conto, però, che dio non aveva creduto alla mia promessa da pecorella viagliacca. L'energumeno, quello trevolteme, aprì con violenza le porte dell'autobus e, accompagnato dalla combriccola, scese dirgendosi proprio verso di me. - n'agg capite, che 'e ritte?, disse, sputacchiandomi in faccia, e con una ferocia da vero capuzziello gomorriano. Un Ciro Savastano antelitteram, insomma. Tornai in me, quel senso di benessere dicuisopra andò dritto alla pancia, spingendo il mio ego nei canali intestinali, laddove la luce è una fantastica sinossi della realtà. Che cazzo vuol dire? In sintesi, che la vita non finisce mai di mostrarsi così com'è: una merda. Tornai a non parlare. La paura spense completamente il cervello e scaraventò la gola in culo allo stomaco. I miei amici scomparvero. Non so che fine fecero e non lo seppi mai. Rimasi io da solo, circondato da una tribù pronta a fare di me ciò che voleva. Stetti comunque fermo, a guardare davanti a me, senza reagire, pur conservando una certa dignità. Non risposi ai loro nuovi epiteti, certo, ma nemmeno chiesi scusa. Ero lì, a testa alta e con la merda nella mutanda. - stu spicchiate 'e mmerd. Eccola lì. Sembrava strano che non si fossero ancora accorti del mio handicap. Adesso me li faranno volare a Frullone gli occhiali, pensai. Poi... poi dio si ricordò della mia buona fede. Avevo sì fatto una promessa che non avrei mai mantenuto, ma sapeva benissimo che, in fondo in fondo, un po' di fede in lui l'avevo riposta. Sarebbe stato troppo crudele, da parte sua, non aiutarmi. Arrivò sottoforma di vecchietta, una specie di Mrs Doutbfire del rione Chiaiano. Alta la mia metà, con un capello azzeccato al cranio grazie a due etti di sugna e senza manco un dente, e ciononostante dotata di un aspetto tenero e materno, la nonnina si fece largo tra la ressa omertosa, tra cui, ne sono certo, s'erano nascosti Salvatore e quel suo cugino di cui non me ne frega un cazzo di ricordarmi il nome. - Giuvinò, lasciato' sta', disse con una voce da contrabbandiere sudamericano. Bastò questo per allontanarli e, come Mosè di fronte a quel mare di H2O e sperma di pesci, la folla si fece largo. Uno solo ebbe il coraggio di chiederlo: -Signò, ma è 'o nepote vuoste? -sì è 'o nepote mij, vabbé? - No niente, ve vuleve sule dicere che è proprie nu bellu giuvinotte. Poi? Poi la cercai tra la folla, ma non la trovai. Avrei voluto almeno dirle grazie. Ma niente. La vecchietta sparì, forse trascinata da un vortice di pendolari eccitati dall'arrivo dell'autobus, o forse fu solo il parto immaginifico di una commozione cerebrale causata dalla boy gang: Oggi resto ancora convinto che - a dispetto di ciò che vi ho raccontato - fui malamente picchiato e che nessuno si prodigò realmente per salvarmi. Ma in mancanza di altre testimonianze, quel che vi offro e il ricordo che mi resta. Data la scomparsa del mio angelo custode di stracci vestito, pensai che mi avrebbero malamente picchiato fino a farmi avere una commozione cerebrale. Tuttavia... tuttavia non successe nient'altro. Rimanemmo tutti lì a farci compagnia, in attesa dell'autobus e, come in un perfetto racconto di Natale dickensiano, finimmo per fare addirittura amicizia. Tutto fu meravigliosamente bello. Parlammo di Dragonball e delle montature degli occhiali di nuova generazione, in stile Mughini. I ricchi mangiarono a tavola coi poveri, lasciandoli a digiuno. Walt Disney denunciò per plagio Charles Dickens per Christmas Carol. E sul corso di Secondigliano furono finalmente messe le illuminazioni natalizie. Fine. |
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March 2019
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