Ci risiamo. Si fa presto a commentare. Alzi la mano libera chi, il video in questione, non l'ha visto, per curiosità, per riderne, per commentarlo, per dire - come sempre - la sua. Alzi la mano libera chi, prima di oggi, si era chiesto che fine avesse fatto la ragazza. Alzi la mano libera chi in quell'altra non ha il mouse da scagliare in mezzo alle pietre di chi è senza peccato. Questa è una brutta storia. Pietosa per com'è iniziata, drammatica per il finale. Nel mezzo, il vuoto e qualche grasso sibilo di risate, già. Ora? Ora pare che non si aspettasse altro per giudicare. O forse no: la verità è che nessuno ne ha più parlato. Come tante altre cose, il web ha saputo fagocitare e trasformare in deiezione-ricordo anche il caso Cantone. Così come il terremoto, poi le vignette, poi la bambina violentata di 13 anni, poi Renzi, poi Monti, poi Berlusconi, poi il capello biondo di Insigne. Si vede, si mangia, si caca - magari assumendo una posizione di 35° gradi che è meglio - e il tempo di una sigaretta e anche questa ce la scordiamo. Sinceramente, stranamente, in questo caso, le idee chiare non le ho: è che mi urta questo puritanesimo della coscienza. Tutti candidi, tutti puliti. Resta il problema Mi pare facile parlare di cyber bullismo. Facile accusare. Facile commentare. Facile criticare. Facile dopo. Facile prima. Quindi, shhh.
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L'inquisizione ai tempi dei Charlie Hebdo. Quando una vignetta ci fa salire l'Hitler che è in noi.4/9/2016 Cerco di mettere ordine, almeno per me. Si è detto di tutto. 1) "Ah, come si sono permessi, hanno riso sui poveri morti"! Si è provato a consigliare, con calma (prima), con ardore (poi) che, a leggerla, lentamente, cercando di imparare a capire il linguaggio della vignetta, non c'è nessuna risata. Nessuna offesa ai morti, semmai una difesa. Ma niente. Molti hanno preferito restarsene inchiodati, fermi alle proprie posizioni, come degli inesperti di geroglifici egizi che vogliono interpretare, ad minchiam e a tutti i costi, simboli di cui non conoscono il significato. La satira ha un suo linguaggio. Anzi, la satira ha i suoi tanti linguaggi. Provare a ingabbiarla, proponendo modi alternativi del tipo "Avrebbero potuto fare questo, avrebbero potuto fare quest'altro" è come affermare che Manzoni avrebbe dovuto descrivere la peste ne "I Promessi Sposi" in un altro modo o come dire ad un piastrellista come andrebbe fatto il suo lavoro. Troppe note, dice il re a Mozart. Sì, ma quali note? A me sta bene questo conformismo del buon gusto, dunque poniamo per assurdo l'idea che, per evitare tutto questo spreco di parole, si diventi tutti uguali, tutti con la stessa testa. Sì, evviva!, conformiamoci tutti. Bellissimo! Yeah! Ehi, scusa un secondo! ma conformi a chi? Tutti uguali a cosa? Cioè, chi è che decide chi, chi è che decide cosa? Cosa facciamo? Chi si occuperà della censura? Però dai, sono d'accordo, in Turchia hanno già messo al bando Shakespeare e Cechov, perché noi dobbiamo essere da meno? Buttiamo via Céline ed il suo cinismo cattivo oltre ogni regola, oscuriamo Bukowski e le sue depravazioni, strappiamo le pagine de Il Candido di Voltaire e i suoi preti sgozzati, spegniamo I Griffin! Dai! Se ci sbrighiamo e rimettiamo in piedi l'Inquisizione, ricomponiamo la lista di libri ed autori da mettere all'indice, reintroduciamo la tortura, siamo ancora in tempo per organizzare il primo torneo di caccia alle streghe, con tanto di arbitro, moviola in campo e gironi di qualificazione. Chi acchiappa meno streghe va in serie B. Potremo fare il fantacacciastreghe. 2) "Hanno paragonato dei morti alla lasagna. Non fa ridere". Gesù, non è proprio così, ma non ho capito una cosa: vi indigna di più il paragone o il fatto che sia andata proprio così? E dove avete letto che la satira debba far (per forza e sempre) ridere? Chi vi dà questa convinzione? 2 bis) "I morti non si toccano". E allora lasciateli sotto alle macerie! Così stanno meglio, magari resuscitano. E, comunque, la vignetta non narra de i morti, ma de la morte. 3) "Sì, ma avrebbero potuto, se proprio volevano fare critica sociale, colpire direttamente la politica". Ancora con "avrebbero potuto". A parte il fatto che è proprio quello che hanno fatto, ma se avessero messo Renzi, Alfano e Boschi nella vignetta, vi sareste indignati di meno? Avreste addirittura riso? La morte, per voi, cambia in base alle vostre simpatie? Quindi, per assurdo, se tra i cadaveri ci fosse stato qualche pezzo di merda, qualcuno che vi era sul cazzo, sarebbe stato tutto ok? Cosa vi preoccupa? Che il candore di qualcuno sia stato intaccato? Dove? Io ci vedo (così rispondo ai punti N° 2 e 2 bis, ché volutamente ancora non avevo fatto) volti sfatti, un popolo stanco, addolorato, sporco di dolore-sangue-pomodoro, schiacciato, tritato, sfruttato dal magna magna italiano. Ma io ho i miei occhi, voi i vostri, ed ognuno può vederci quello che vuole: il bello della satira. 4) "Sì, però offende i morti". Ancora? Chiariamo: i morti non sentono, non parlano, non guardano, non più. I morti, in quanto morti ( perché forse vi è sfuggita questa cosa), non possono più offendersi. Semmai, l'offesa sta proprio nel fatto che siano morti, in quel modo, di notte, nell'intimità della propria casa. La risposta di Charlie Hebdo è stata "Non siamo stati noi ad aver costruito le vostre case, ma la Mafia" che è un po' come dire "Non sono le vignette ad uccidere, ma l'idiozia dell'uomo". Ditelo, allora, la vignetta offende voi. Non ve ne frega un cazzo dei morti, né dei parenti. Il vostro è più un pretesto per tutelare voi stessi, le vostre considerazioni, il vostro buon gusto. Volete essere rassicurati e restare chiusi, al riparo delle vostre considerazioni, lontani dalle paure; volete sentirvi dire che: è stato solo e soltanto una catastrofe naturale. Ditela la verità. 5) "Ho capito, dai, però se fosse capitato a te? Ad un tuo parente"'? Sì, è stato detto anche questo e qualcuno lo ha fatto anche con un pizzico di cattiveria in gola, uno stridìo in fame che nasce dal fegato insofferente e perbenista. Premettendo che suona come una minaccia, chi scrive vive nel la terra dei fuochi e conosce la morte, conosce lo strazio, conosce il pianto che ti strappa via da dosso l'anima, ma soprattutto la speranza. Conosce (e prova a conoscerla meglio) la satira e conosce anche l'indignazione. Sì, perché nessuno è immune. Non è che chi la apprezza, è sempre pronto a subirla. O stia nelle condizioni di poterla capire, subire, apprezzare, amarla. Anche io, che cerco di tutelare questo tipo di satira qui, ho la mia sensibilità, la mia anima, i miei pianti laceranti. Alla saccenteria (di alcuni) di chi si è posto a mo' di pedagogo della satira (anche non avendone le competenze, tipo il sottoscritto, eh, che ha molto da studiare), avete risposto con l'atteggiamento aprioristico di conoscere la sensibilità degli altri. Come se, solo perché abbiamo capito/accettato questa vignetta, fossimo dei criminali insensibili, al pari dei kamikaze, al pari dei nazisti. Che ne sapete del subbuglio dell'anima di chi vi è di fronte? 6) "Quando c'è stata la strage di Nizza, noi tutti abbiamo espresso cordoglio e nessuno ha fatto ironia". Premesso (mi piace farne tante di premesse) che trovo assurdo questo continuo porsi - in una discussione - a rappresentante di una nazione intera, come se tutti la pensassero nello stesso modo ( così come Charlie Hebdo non rappresenta tutta la Francia, e trova in sé contraddizioni, detrattori e dissidenti, così il tuo pensiero non può essere - e menomale! - uguale al mio), anche qui c'è l'errore. La satira è transnazionale: uscirono delle belle vignette ITALIANE piene piene di Satira riguardanti - ad esempio - la strage di Nizza. Faccio parlare la vignetta ( perché le vignette parlano e, quando uno parla, bisogna stare attenti a ciò che dice, altrimenti, si interpreta male il messaggio e, invece, se uno parla una lingua diversa dalla mia, dovrei sforzarmi a conoscerne il linguaggio, se proprio voglio averci a che fare, nel bene e nel male): 7) "E a me fanno schifo anche questi qui italiani. Il mio discorso è un altro: loro hanno saputo prendere in giro l'Italia. Chi sono loro per criticarci? Questi francesi di merda. E se fosse capitata a loro una strage simile? Ne riderebbero ugualmente"? Ancora il "se fosse capitato a te". Ad ogni modo, per non ripetermi, mi limito a porre un'altra domanda. Allora, il vostro è un atteggiamento patriottico sentimentalista antifrancese? Siamo tornati al 2006 quando, a dividerci, è stata la capocciata di Zidane a Materazzi? Meglio la pizza o l'omelette? 'Sti francesi di merda che non hanno il bidè! E comunque, anche qui, le immagini parlano chiaro. Anche qui c'è da contraddirvi. Mi dispiace: Charlie Hebdo si pone in questi termini: forte, cruda, dura, come tanta satira. Tuttavia, vi ripeto una cosa che ho scritto tempo fa, su questo blog, su Vauro e la sua vignetta su Casaleggio: voi - ma anche io - avete il sacro santo diritto di dire "non mi piace" e di restare nel vostro disgusto: è comprensibile. Non potete però criticarne i modi, i tempi, le tecniche, i contenuti, fino al punto da volerla negare, se non ne conoscete il linguaggio. Ripropongo l'esempio dei geroglifici: potrete stare ore e ore davanti ad osservarli, ma se non sapete leggerli, per voi resteranno un mucchio di occhi, femmine e uccelli incisi nella pietra. O ancora: come andare in un museo di arte contemporanea e non capire una benamata minchia di quel florilegio di cornici. 8) Qualcuno ha messo in mezzo il caso Siné, cacciato dalla redazione di Charlie Hebdo perché accusato di antisemitismo, a causa di una vignetta su Jean Sarkozy e la sua presunta conversione all'ebraismo. Caso delicato e particolare, è stato riproposto dai detrattori del giornale, a mo' di critica, come se nessuno fosse immune dalla stupidità. Per questo io non sono Charlie Hebdo. Io sono per la satira, per la sua libera espressione. Chiaro? 9) "Sì, ma nella seconda vignetta hanno fatto peggio di prima: ci hanno accusato di essere Mafiosi. Sono stati superficiali nell'accusare solo la Mafia". Su questo avete ragione. Nel volersi spiegare, per un eccesso di zelo, hanno fatto un errore: non è solo la mafia ad aver costruito quelle case, ma anni e anni di strafottenza, di soldi investiti male, di altri soldi messi in tasca, di mancata prevenzione, anni di silenzio così che, dal terremoto dell'Irpinia ad oggi, ogni volta che la terra trema un po', il giorno dopo, stiamo lì a contare i troppi morti. Poi, fa niente se un atteggiamento simile è proprio tipico della Mafia; bisogna ripeterlo: non è stata solo la Mafia. Non quella di Corleone almeno, non quella de "Il Padrino". In una vignetta non ci entra tutto, sono stati approssimativi(?), ma resta che "le case, in un territorio sismico, sono, costruite male e i centri storici non restaurati" ( cit. Mario Tozzi, Geologo, mica una soubrette di Pollenatrocchia). Avrebbero dovuto tacere, se non altro perché la bellezza della satira sta nel fatto che deve scaraventarti a terra, lasciarti senza fiato, col capogiro; deve o spingerti nel suo linguaggio o farti scappare via. Se me la spieghi a) dovrei solo vergognarmene; per la serie "mi prendi per un idiota"? (sì, n.d.a.); b) non c'è più gusto. 10) "Fanno soldi, speculando sul dolore". A Napoli si dice "la carne sotto e i maccheroni sopra". Considerazioni a soqquadro. Un giornale vive del proprio lavoro (fare satira) e noi stiamo a condannarli! Mannaggia mannaggia! Che scandalo! Che orrore! Dove andremo a finire? Magari, domani, potremmo anche non pagare gli artisti, decurtare i cachet ai cantanti e... ah... sono arrivato in ritardo. Ma poi, fatemi capire, per voi, solo perché non vi piace il suo lavoro ( vi disgusta, dite, ma in realtà non lo comprendete, il suo lavoro!), un giornale non può guadagnarci, però poi può farlo chi NON FA IL PROPRIO LAVORO, facendovi crollare le case in testa? Dove avete deciso di puntare il vostro sguardo? Un giornale fa satira, ci guadagna, mettendoci la faccia, il nome, rischiando che dei coglioni facinorosi estremisti passino alle minacce, e dalle minacce ai fatti, li criticate senza sosta, definendoli speculatori, e poi tollerate i siti-sciacalli che tirano a campare, con articoletti rubacchiati qua e là, scritti malissimo, privi di personalità, riportando pari pari le notizie degli altri, facendo click baiting? Cos'è il click baiting? Funziona tipo così: C'è un titolo: "Morto un ragazzo del napoletano", generico, sì, per incuriosirvi e spingervi a cliccarvici sopra; il link viene condiviso a raffica, da specifici addetti, su tremila gruppi social categorizzati, quelli tipo "Sei di *******" (ce li avete presenti?), con tanto di didascalia "è proprio di qui", per spingervi a scoprire chi è questo povero cristo deceduto; magari lo conosci, magari è un tuo amico e scopri che invece vive da trent' anni in Uzbekistan e che non sa nemmeno dove si trovi tale paese è proprio di *******. Questo non è speculare sui morti? Però, per me va bene, tutti devono pur campare. Davvero, accetto tutto. Accetto anche la vostra irreprensibile condanna al linguaggio, alla satira. Sì, sono delle merde, puah, puah!, sono dei violenti, puah, puah!, sono degli schifosi, puah, puah!. Però. Avete trattato Charlie Hebdo come se fosse Libero ed è questo che ci meritiamo: Io di figli voglio farne tanti e voglio dare loro quello che i miei, a botta di sacrifici, litigate e di cristi stracciati dalla croce, hanno dato a me.
La possibilità di studiare, per esempio, e di comprare - anche se usati, di decima mano - tanti libri, una chitarra, un paio di scarpe e un taglio di capelli decente. Sì, le scarpe servono: comode, ché il percorso e lungo e in salita, possibilmente belle, ché anche l'occhio ha i suoi capricci. E sì, pure i capelli sono importanti, per le motivazioni diottriche di cui sopra. Io di figli voglio farne tanti perché credo di poter essere un buon padre, quindi pieno di difetti, iracondo, ma anche aperto e comprensivo, almeno fino a quando i miei tempi avranno la forza di adattarsi e trasformarsi ne i suoi tempi. Ho voglia di scoprirmi, di ascoltare, di imparare dalla vita, dalla vita dei miei figli; ho voglia di insegnare, di leggere loro un libro, di consigliare quale canzone ascoltare, di farmi consigliare e di inventarmi, curioso dei suoi gusti, ogni giorno. Io di figli voglio farne tanti, ché il tempo è galantuomo, almeno fino a quando non si rompe il cazzo, smette di attendere e ti manda a fare in culo senza complimenti. Io di figli voglio farne tanti, perché so bene cosa significa essere figlio, e quanto sia dura fare i conti con le ore, i giorni e gli anni. Basta un giro con gli amici di una volta, un caffè al vecchio bar fuori al viale, un occhio al calendario e ti scopri maturo e pronto con la testa. Io di figli voglio averne tanti, ché avrei l'amore per poter far mie le voglie di un figlio meno fortunato, nato al di là della sorte. Detto questo, l'Italia non è terra di creatività, figuriamoci di creazione. In bocca a lupo, a tutti i candidati genitori. Abbiamo il vostro curriculum, vi faremo sapere. Domanda pesante? Troppo generalizzante? Già, può darsi. Correggiamo il tiro: alcuni napoletani non sanno perdonare? Pare di no. Soprattutto se colpiti nel loro cuore bianco azzurro a forma di Vesuvio, con in mezzo un pezzo di sole grosso così. Patriottismo ad uso e consumo personale, da utilizzare a mesi alterni, tre volte al giorno, possibilmente vicino ai pasti, tra una pizza ed un babà. Anzi no, nel babà c'è il rum e, si sa, non si bevono alcolici se si assumono medicinali. Un sentimento forte, leale, sentito che rende la città unita sempre, solidale ogni attimo, pronta a barricarsi a difesa della propria identità. Già. E guai a toccarla, guai a parlarne male. Cioè, per carità, tra noi possiamo pure dircelo che è piena di problemi e che spesso, per colpa dei nervi che ci fa saltare, si è costretti a sperare in nuove canonizzazioni per poter pescare nuovi nomi dalla lista di santi bestemmiabili, ogni dì, però, oh, guai a chi ne parla male fuori dai confini domestici. E questo ci sta. Tua madre è una puttana, ma che non siano gli altri a dirlo: al massimo, concessione limitata ai soli figli e clienti. Tutto nella norma. Il caso Alex Schwazer ha però dell'incredibile. Non me ne frega di entrare nel caso specifico della squalifica, o di parlare dei presunti complotti a suo danno eccettera eccetera. Spero non sia un nuovo caso Pantani questo, ma non posso tuttavia deciderlo io al di qua di una tastiera. Non ne ho i mezzi e, credo, azzardo, purtroppo, forse, la vera verità non la sapremo mai. La cosa che più mi preoccupa, però, è questo cazzo di dito puntato. Un popolo intorpidito in un'artrite irrigidente a forma di enorme indice. "Posso giurare che non ho fatto niente di proibito. Sono altoatesino, non sono napoletano" Disse l'atleta, in una e-mail privata al suo medico. Bene, un errore. Una frase lombrosiana. Una cazzata. Intanto, le scuse ci sono state. Come quando un allenatore di calcio, in un momento di stress particolare, dà del frocio ad un suo collega: è parola gergale, bruttina, fuori posto, ok, ma scappata troppo in fretta dalle labbra, per poter provare ancora a trattenerla tra i neuroni. A chi, nei momenti di rabbia, di stress, mentre si aspetta l'autobus, la circumvesuviana, la cumana, dopo aver subito uno scippo, quando pagate l'assicurazione dell'auto troppo troppo alta - insomma la città regala tante tante belle occasioni di sconforto - non è scappato un "questa fottuta città di merda", " noi napoletani facciamo schifo"? Ma mo, al di là del fatto che qui, di cazzate, se ne dicono ogni giorno e di ogni tipo, parlando per luoghi comuni e per sentito dire, eccetera eccetera, considerando che il fatto risale al 2013 ( ma quanto siamo permalosi?) e ribadendo il fatto che parliamo di una missiva privata ( e nel privato, se volessimo stare lì a precisare su ogni singola frase che diciamo, passeremmo tutti per razzisti, femministi, maschilisti, omofobi e blablablà), esiste il perdono in questa terra circondata da mille chiese, inzuppata di miracoli, capuzzelle e cristi velati, e in cui tutto è permesso? Viste le offese, le ingiurie, i 'crepa', mi verrebbe da dire di no. Per il popolo del "chi ha avuto, ha avuto, ha avuto chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce 'o ppassato simmo 'e Napule paisá, non esiste perdono, per chi non è napoletano, per chi non canta le canzoni napoletane, per chi non ha un moto d'orgoglio per chi ha inventato il bidè. Capirei se Alex Schwazer si fosse messo a raccogliere firme per aderire alla costruzione di un campo di concentramento in cui internare napoletani, rom e Lorenzo Insigne ( che a sentire molti, ultimamente, è un po' l'uno, un po' l'altro), capirei se fosse recidivo, ma, fino a quando non arrivano nuovi aggiornamenti, pare non sia accaduto nulla di tutto ciò. Capirei l'indifferenza, la diffidenza. E tutto ciò per cosa? Una frase, una semplice e piccola frase; certamente un paragone sbagliato, inzaccherato di ignoranza e superficialità, ma cosa serve la lezioncina che si può imparare dai propri errori, se le scuse non servono a niente, se non si è disposti ad accettarle? Mi viene in mente quella puntata dei Simpsons in cui Marge è vittima del gioco d'azzardo. Guarita dal vizio, perdonata da Homer, quest'ultimo non perde comunque occasione per ricordarle che, anche se lui ne ha fatte tante di cazzate, lei, col gioco d'azzardo, ne ha fatta una ancora più grande. Marge, giustamente, gli ricorda che quando si perdona una persona, non si può stare sempre lì a rinfacciare. Non sembra questo il caso, visto che, a quanto pare, per come viene rimessa sistematicamente in mezzo la frase incriminata, il perdono non c'è proprio mai stato. Anzi, pare quasi ci sia del mefistofelico godimento nell'apprendere che all'atleta sia stata confermata la squalifica. Per la serie, te lo sei meritato ( che, tradotto in dialetto, suona più o meno così: "afammoc"!), e non perché hai barato, no, ma perché ti sei permesso di dire certe sozzerie. E perdonatemi, ma non solo questa morale intransigente stride con la nostra (a questo punto presunta) congenita inclinazione verso l'accoglienza, ma godere degli errori altrui - a patto che quest'altrui non si chiami Adolf Benito detto Salvini - è da uommenicchi e non da Napoletani. Con la Enne grande. Passo e chiudo. Come quando, di spalle, lanci la monetina in una fontana. O come quando, in contemporanea, tu e un tuo amico dite la stessa identica cosa e, allora, flic&floc, pizzico a te, zippato, esprimi un desiderio ed eccetera. O anche come quando ti attraversa il gatto nero e allora aspetti che passino tre persone, prima di attraversare e, a tavola, sedersi agli angoli, porta male, va a finire che non ti sposi. Oppure, una preghiera, prima di dormire, male non può farti. Non ci credi, non sai se crederci, ma in fondo che fa? Non ho lo sguardo volto al cielo. C'è troppa luce in paese e non vedrei comunque niente, ma dicono che in questo giorno ne cadano talmente tante di stelle che non vederle è praticamente impossibile. E allora, diciamo pure che io ne abbia vista una. E facciamo che io sia a pancia in su, disteso, sdraiato sulla spiaggia, sopra l'erba, sulle tegole con la testa dentro al cielo, tra le nuvole e una corona di pensieri. E qualche desidero. E immaginiamo che, all'improvviso, mi passi di fianco una stella, e che riesca ad acchiapparla, stretta stretta, tra le mani, il tempo di imprimerci il pensiero, svuotandomi per osmosi, come sfogando quello che non ho detto e che ho dentro da quando la maestra ha spiegato i poligoni regolari a scuola. Ecco, ho fatto finta, l'ho fatto, e ora sento pungermi il palmo della mano. Bene, la apro, ci soffio sopra, ma non ci vedo il segno della bruciatura, del fuoco, dello sfogo, dell'osmosi. Sono poligoni dagli angoli smussati. Stelle spente da lustri e lustri di luce, ché ormai hanno dimenticato come si fa ad affrontare il buio. E i desideri sono tutti lì, non ancora esauditi, ma comunque intatti. Non ci credi, non sai se crederci, ma in fondo che fa? San Lore', facce 'o piacere. 26 Luglio 2004 All’epoca sembravamo più esperti avvocati, tra ricorsi al TAR, speranze e rabbie, che allenatori civettuoli, di quelli esperti - senza motivo alcuno - di cambi di gioco, moduli e calciomercato, di quelli col patentino preso di diritto dopo tanti anni di appiccicate al bar. Gaucci aveva proposto il fitto del ramo d’azienda. Non glielo permisero. La Coavisoc aveva bocciato l'ultimo ricorso del Napoli che sarebbe fallito da lì a poco. Vista com'è andata a finire all'ex proprietario del Perugia, mi sa mi sa che a noi è andata meglio così. Ad ogni modo, proprio Gaucci aveva messo su un evento dal titolo "Orgoglio Partenopeo": non ho mai capito bene cosa fosse, se un concerto, un bagarre di proclami vuoti e populisti, un po' l'uno, un po' l'altro, ma io avevo sedici anni e l'idea che il Napoli, il mio Napoli - anche se brutto, sciatto, vergognoso, infarcito di, Manitta, Tosto, Quadrini, Vieri (Max), Renato Olive, Giuseppe Savoldi, David Sesa, Mario Cvitanovic, Zanini, Pasino e altra gente che oggi probabilmente lavora in un Call Center - potesse essere cancellato dal pianeta calcio, mi faceva soffrire assai. Che volete? Vi ho detto, avevo compiuto sedici anni da un paio di mesi scarsi, tenevo mezza fidanzata e una marea di altri problemi. L'adolescenza è a modo suo un macigno sul groppone, sopra al collo, in mezzo all'acne. Per l'occasione, le due curve, tutti i gruppi della tifoserie azzurra si unirono sotto l'omonimo e unico nome "Orgoglio Partenopeo". Ero stato solo altre due volte allo stadio, ma non mi aveva entusiasmato. Pigro, pantofolaio, abituato alla telecronaca, al replay, alla bestemmia domestica, ho sempre preferito vedermela comodamente sul divano, la partita. Però quella era la nostra 'festa', un modo per dire "uèuè, ma che state cumbinanne? Lasciatece sta 'o Napule". Già: "Con tutta la merda che c'è in giro, la camorra, la sfaccimma della gente, i parcheggiatori abusivi, Berlusconi e Prodi vari, voi vi mettete a pensare al calcio"? Da premettere: il ricavato delle vendite del biglietto (5€) fu devoluto per metà all'Ospedale Santobono. Già, e comunque bisogna volgere lo sguardo da una parte e dall'altra. Qua non possiamo mica piangere sempre: Troisi, pace all'anima sua, docuit. Diffido sempre di chi ha come unica preoccupazione i mali del mondo, soprattutto se non ha ancora capito come si lavano i panni nella lavatrice, soprattutto se si ricorda de "i mali del mondo" solo quando deve ricordarteli a te. Comunque, ci andai con mio Zio. Volevamo dare il nostro contributo. Volevamo anche noi dire "uè uè, lasciateci stare 'o Napule". Erano previsti 40.000 spettatori, 40.000 macchie azzurre. Da fuori, mentre ci avvicinavamo allo steward, si sentivano tutte. Anche io tenevo la maglietta azzurra, una del Napoli, una di quelle sintetiche che già normalmente ti fanno sudare e puzzare come un elefante dopo che si è fatto una sciammeria con l'elefantessa più zozza della savana, figurati in pieno Luglio. Salimmo le gradinate, passo dopo passo ancora ricordo le sensazioni, quelle sensazioni, le mie, sudate, maleodoranti, tremanti, innamorate, tenevo sedici anni, mezza fidanzata, ché l'altra metà del cuore era per Manitta, Tosto, Quadrini, Vieri (Max), Renato Olive, Giuseppe Savoldi, David Sesa, Mario Cvitanovic, Zanini, Pasino, per il Napoli. Anche con Ignoffo, anche in C contro la Massese. Per il Napoli. Eravamo lì, sentivo sotto i piedi il coro, le gole, le mani. Raggiungemmo la cima, vidi il campo, tutte le grida del coro, 39.998 voci, mi entrarono in petto. [ "39.998 trogloditi che si lasciano rimbambire dal calcio, poi se aumentano le tasse, esplodono le bombe, ecc....". "C'avite rutte 'o cazz". ] Ricordo che esclamai "Madonna" e niente più. Capii di essermi innamorato, follemente, oltre ogni logica, oltre la rabbia, oltre i torti sportivi, oltre il dramma di un'esistenza che regala poche gioie, ma ti dà - a volte, per fortuna - la possibilità di scegliertele. Io ho fatto le mie: la famiglia, l'amore, i libri, la musica e il Napoli. Anche se mi ero promesso di dire basta con il Calcio. Stop. Buon Compleanno. 90 anni, ma comme si tosta! "Un giorno all'improvviso mi innamorai di te". Vorrei che la smettessi di stare lì, muto, in silenzio, e che approfittassi del poco tempo che abbiamo a disposizione, il tempo di fumarmi questa sigaretta, per dirmi tutto. Poi, puoi pure sparire in un risucchio, nella cenere. No no, certo, lo so, si potrebbe almeno avere il decoro di riflettere prima di aprire bocca, non tanto per l'alito, quanto per il rispetto, il silenzio, le pause, ma che vuoi farci? Questi sono i tempi che corrono. Affanni, deviazioni, buche. Un po' come i tuoi, soltanto che oggi è tutto più veloce. Tv, giornali, internet, smartphone. La fretta. Veloci, veloci come te, i tuoi pensieri, le tue parole taglienti, coraggiose, telegrafiche. Scendono giù calde, dalla mente e poi dritte sullo stomaco, come un goccio di assenzio ingoiato senza rimorsi. Dalla gola allo stomaco, poi dritto nella mente. Sì, so anche questo. In realtà, lo sanno tutti. Non raccontiamoci bugie. Non raccontarmene più. L'hai fatto perché ti eri stancato del mondo. Non è la migliore delle scuse, tutta opinabile, sì, ma è pur sempre una scusa. In altri tempi ti avrei dato ragione, ora non lo so. Non c'è quasi mai una buona ragione per ammazzarsi, ma chi sono io per giudicarti? Resto seduto, ti passo la lenza, ascolto le onde che si muovono lente sotto questa barchetta di cartapesta, fumo ancora, lancio l'amo, aspetto che tu dia risposte. Lo so che lo sai. Sono solo tre i libri per cui non ho pianto per poco: Chiedi alla polvere, Storia di una Capinera e quel tuo Addio alle Armi, nudo, crudo, violento. Sento ancora sanguinarmi lo stomaco. Certe notti, mi sveglio convinto d'essere io il medico, io a doverti portare la brutta notizia. Mi sveglio sudato, tremante. Ho paura della tua reazione, ho paura della tua rabbia, ho paura della tua vendetta, che mi scaraventi in mezzo ai tuoi tori a Pamplona. Soffro di vertigini, temo l'altezza. Altre notti sogno di precipitare. un volo che dura una dormita. Il tempo di atterrare qui al tuo fianco, in una trincea, tra te, Maria e Pilar. Passami un goccio, lasciami bere, dammi la tua verità. In attesa della prossima campana. No, devo essere franco con te, no no, scusa la gaffe, volevo dire sincero: con Addio alle armi ho pianto proprio. Non ce l'ho fatta a fermarmi. Ehi, cosa vuoi? Sai, ci ho provato ad appigliarmi al bordo dell'ultima pagina, ma son caduto, come corpo morto cade, sulla quarta di copertina. Che schianto, un knockout mai letto prima. Restano le impronte delle carta graffiata sotto le unghie. Sapevo bene fossi di quelli posseduti. Di quelli dai the end maledetti, eppure ci ho sperato, sai, giusto per non morire, giusto per non dover restare lì a tamponare le ferite dello stomaco, giusto per non essere trafitto alle palle da un toro imbufalito. E comunque, è stato proprio quel tuo spleen intossicato e contenuto in bottiglie da un litro a farmi sedere al tavolo con te. In fondo, noi tutti non siamo qui seduti in attesa delle ferite allo stomaco? Non resistiamo per le milze gonfie d'asma ed enarmonie? Già, tu non ce l'hai fatta. Troppo stanco, dici. La noia, già. Questo mondo tutto uguale, immensamente minuscolo, epilettico, edipico, adiposo, questo mondo sempre bravo a deluderti, a farti ciao ciao con la manina, se ti va bene, e poi pronto a lasciarti tra i rifiuti, tra un frigo ed un tostapane rotti. Con i topi a rosicchiarti i lacci delle scarpe; è la fame, dicono. Sarà stato questo il problema, vero? La milza salita al petto, la mente sanguinante, la bottiglia vuota, l'indifferenza al sangue, le troppe corride e poi le troppe parole vuote: è il mondo che abbonda di respiri, non è vero? No o non lo sai? Taci? Non mi rispondi? Sei impegnato nella tua schifosa caccia o cerchi ancora di togliere la merda del tuo compagno di trincea dalle suole degli anfibi? Non vedi cosa accade al mondo? Che fai? Non scrivi e dici niente? Ah, ti nascondi? Dove sei? Oh, perché non rispondi? Hem, perché non parli? Oh! Dannazione, si è spenta la sigaretta. In pratica, c'è questa coppia bellissima, innamorata e affiatata da fare schifo, che, a Las Vegas, cerca di sbarcare il lunario alla roulette. Ovviamente, come nei migliori romanzi di Verga, se provi ad alzare la testa, a sbattere i piedi e a far capire che pure tu vorresti lo yacht a mare, la casa a Sperlonga, la macchina quanto meno lavata all'autolavaggio, il cane col pedigree, inevitabilmente perdi i soldi, la faccia, la dignità, la casa del nespolo e pure tutti i lupini. Questo se lavori come un mulo, ti gestisci la vita in mezzo a 3.000 lavoretti mal pagati, investi su te stesso, nel mattone, nei bond argentini, figurati se cerchi un po' di ciorta nel gioco d'azzardo. Ad ogni modo, per farla breve, la coppia, interpretata da Demi Moore e Woody Harrelson, si ritrova letteralmente col culo per terra. Ad un certo punto, però, arriva il Dolce&Gabbana di turno, John Cage, l'imprenditore ultra miliardario, quello con lo yacht a mare, la casa a Sperlonga, a Courmayeur, a Casapesenna e pure in Canadà, il cane col pedigree, i fiori di lillà, la casa col nespolo, la dignità, i lupini, la 'mpepata di cozze, ma soprattutto con la macchina lavata. Il tipo di persona che quello che vuole quello ottiene: mette mano al portafoglio, strofina la carta magica ché, a confronto, Aladin con la sua lampada è un pezzente, e il Genio il pakistano che, al semaforo, per tre euro, ti lava il parabrezza, ti dà un pacchetto di fazzoletti del Napoli e ti sorride pure. La tracotanza del danaro. Quando uno c'ha i soldi ed inizia a frequentare i posti belli, d'altronde, poi ad un certo momento affina il palato, si diventa pretenziosi, e va a finire che ci si innamora di Demi Moore, un femminone esagerato oggi, figuriamoci nel '93, quando fu girato il film. Così, all'imprenditore, mentre sta vantandosi della casa che tiene a Sperlonga e del cane col pedigree che si mangia i croccantini gusto Sushi, guardando a mo' di malato pervertito in mezzo alle zizze di Demi Moore, comincia a venire un certo languorino, al punto da porre alla coppia la famosa proposta indecente: 1 milione di dollari per poter passare una notte a letto con Demi Moore, chiudere la città con la ZetaTiElle e affittarsi il Maschio Angioino. I due inizialmente rifiutano, poi ci ripensano. Alla fine è solo una notte. Alla fine ci dà i soldi. Alla fine cosa perdiamo? Poi lui mica è brutto. Tu mica sei così santarella, chissà quante volte m'hai messo le corna per senza niente, a gratìs. Poi corna in più corna in meno. E poi avremo tanti di quei soldi che ci ricompreremo la casa del nespolo, la 126 del nonno, indosseremo scarpe Prada, ché Dolce&Gabbana non mi piacciono, restaureremo il centro storico, compreremo nuovi autobus e faremo ripartire le corse estive, creeremo nuovi posti di lavoro, il Napoli vincerà lo scudetto, Alessandro Siani è il nuovo Massimo Troisi e a me mi assumeranno a tempo indeterminato. P.s. Arrendiamoci all'evidenza: siamo paese di conquista. Sono passati i Francesi, gli Austriaci, i Savoia, gli Americani, che cosa fa se ci teniamo per qualche giorno pure i Dolce&Gabbana? P.s. 2 La cosa drammatica è che l'argomento per molti è che Dolce & Gabbana, due imprenditori kitsch che verranno dimenticati, spero nel giro di qualche decennio, spacciati per artisti ( di che?), dovrebbero fare pubblicità a Napoli, NAPOLI, e non il contrario. A carn a sott e 'e maccarun a copp. Anni fa, con mio padre, giocavamo a chi contava più bandiere dell'Italia esposte ai balconi. Sembra ieri: Mondiali '98, Francia. Me lo ricordo bene quel Mondiale, nonostante fossi piccolo, nonostante i miei 10 anni. Odore di capelli asciugati, brillantina, gelatina al cocco, Proraso e caffè. Cesare Maldini in panchina, duello-staffetta Del Piero Roberto Baggio, Fabio Cannavaro in difesa. Tutti erano preoccupati del fatto che, col suo metro e settantasei (comunque più alto di me), il napoletano avrebbe potuto avere problemi a marcare Tore André Flo, un colosso norvegese alto un metro e novantatré. Solita stampa italiota tutta ferma alle forme, in questo caso alle dimensioni e non a quello che si può fare con i mezzi che si ha. Morale: Flo non toccò un pallone. Ricordo anche quelli del '94, in realtà: eravamo a casa di amici. Odore d'estate, di spalle bruciacchiate, Leocrema pizza e citronella. Ai calci di rigore, a quello di Baggio, tutti ad incrociare le dita, tranne io. Semplicemente non ci riuscivo, le giravo, accartocciavo, accavallavo ma niente, mi facevano male. Avevo sei anni. Una ragazzina mi disse "incrocia, incrocia le dita, sennò perdiamo". Divin Codino sparò in curva quel pallone e per anni ho creduto fosse stata colpa mia, almeno fino a quando, a 10 anni, quattro anni dopo, le mie dita fedelmente incrociate non riuscirono comunque a spingere il tiro di Di Biagio qualche centimetro più sotto la traversa. Il gioco del conta bandiere era difficile ché erano tante, troppe, e poi tutto avveniva in auto, in movimento. Dopo un po' mi stancavo, mentre i miei fratelli continuavano entusiasti a contare: uno, due, dieci, cento. "Ho perso il conto, me ne ho viste sicuramente più di te". Da Villaricca a Secondigliano, per esempio, rischiavi le diottrie a furia di sgranare gli occhi, contare, divorare, giocare. Oggi ancora incrocio le dita, ma per altro. Il calcio resta il mio gioco preferito ché quando vedo dei bambini con ai piedi un pallone, vorrei buttarmi in mezzo a loro, portiere volante, nessuno vuole andare in porta, io gioco in attacco, dai passala, non sei il figlio di Maradona. Ma ho 28 anni, poco tempo per il gioco e, al massimo, posso tornare a contare le bandiere. Italia - Germania, 2006. Odore di pizza, di brace pre partita, di vino, di spray anti-zanzare, di gas della trombetta, odore di bruciato. Esame di stato, la perfezione. Bandiere, ancora tante, abbastanza per dare un senso a quell'ansia per una partita di calcio. Italia Germania, Europei 2016, Francia. Odore di pomodori, tonno e olive. Trentacinque gradi all'ombra, odore di caffè, birra e sonno che si posa leggermente sugli occhi, agli angoli degli occhi. Non è questione di menefreghismo. Forse dietro tanta retorica, dietro la muffa della dialettica, oltre qualche sgrammaticata ideologia, c'è un velo opaco di verità: si chiama schifo, o giù di lì. Un po' di noia, un po' di nausea, un po' dell'una, un po' dell'altra. In questi giorni ho provato a farlo, a contare le bandiere dico: ho ancora tutte le poche diottrie rimastemi intatte. Poche bandiere, forse troppo poche. Non lo so. Forse è che i tempi sono cambiati, sfiducia, un'identità nuova, rinnovata, revisionista, sveglia, un paese stanco, più che altro spossato, come dopo una giornata in cui hai sudato maledettamente e non hai più sali minerali sotto pelle e ti basterebbe solo un po' d'acqua fresca o un bel tuffo al mare per riprenderti, ma t'hanno chiuso i rubinetti, t'hanno tolto il mare. Una, due, tre bandiere, dieci. Non vado oltre. O semplicemente, la tratta Villaricca-Secondigliano ha perso i suoi condòmini patrioti incrocia dita di qualche decennio fa: avranno solo cambiato civico, svoltato l'angolo, traslocato altrove. Magari giri lo sguardo da un altro lato e trovi un mare di bandiere. Tutto è relativo, come la tua home di Facebook, parcellizzazione atomistica di cinquecentodieci milioni e cento mila chilometri quadrati di terra, in cui le tue idee, le tue ideologie, i tuoi spazi, i tuoi tempi, le tue considerazioni contano praticamente un cazzo. Capito? Sottotitolo: Mamma! Guarda come sono felice!Uno scrittore sa sempre come cogliere le sfumature adatte per poter raccontare bene le emozioni che si muovono tra le frattaglie, sopra lo stomaco, dietro al cuore, su e giù per i polmoni, conficcati nei fianchi, dentro la testa, oltre gli occhi. Però io non sono uno scrittore, al massimo un amanuense che tenta di registrare, alla meglio, sia chiaro, tutti i ricordi che hanno ormai appestato il DNA coi loro stronzi sentimentalismi. Ho imparato, a mie spese, che fare arte è anche un esercizio al sacrificio continuo: una lotta tra quello che trat-tieni nascosto per te e quello che vuoi svelare, riponendo tutto in una forma, un ripostiglio a cui hai dato tutto, a cui devi tutto, in cui accogli chiunque. Tenerti in piedi, at-tenerti agli occhi, tenerti vivo a discapito di ( c'è sempre un a discapito di), in bilico tra paure per l'ignoto e speranze, tra ciò che sei e ciò che credono tu debba essere. Fare arte è la quiete dopo i bombardamenti, le ferite che ti sanguinano mentre succhi ancora il sapore della fine. Una cosa è certa, però: col fare vinci sempre, non si perde mai. Poi, se quel fare sia davvero arte, a deciderlo - che ci piaccia o no - saranno i sensi, la pelle, la carne, il ticchettio del tempo ... degli altri. A te, tocca fare. Senza mai stancarti ché, fare arte, significa soprattutto scavare, allargare, costruire, soffrire, ma unire, piantare, insistere, crederci, e - [attenzione spoiler] - vivere. Non so scrivere le emozioni, non so stracciarmele da dosso, non saprei donarvele ed è forse per dispetto che me le tengo care care su di me, per me. Però è da quando ho 12 anni - qualche chilo in meno, qualche brufolo in più - che scrivo lettere d'amore. Ho imparato ad accatastarle, risma su risma, per vincere il silenzio, per contenere le dislessie otorinolaringoiatriche, le balbuzie del cuore che, inevitabilmente, incespica tra le labbra, sulla lingua, già solitamente misoneiste. E ora che ne ho 28 - qualche fisima in più, qualche diottria in meno - a scrivere lettere d'amore, proprio non mi stanco. Già, perché in fondo questa, se la guardi bene da vicino - non tanto vicino se soffri di presbiopia - non è altro che una lettera d'amore, perché così fa l'innamorato: anche se non ha le parole, le cerca, inizia a scarabocchiarle ché, tanto, prima o poi qualcosa ne esce. E poi è così facile scrivere una lettera d'amore. Basta partire dalla cosa più scontata: dalla dedica. E così farò io: dedico le lettera d'amore presente all'amore, ovviamente, giusto per partire; alla vita, per forza - vuoi non ringraziarla? a Secondigliano - sicuramente; al Secondigliano Block Party, in maniera particolare; al coraggio e ai coraggiosi - necessariamente; ai sognatori, soprattutto; al Larsec, capolavoro tra capolavori; a tutti i ragazzi dell'organizzazione; ai ragazzini che gravitano intorno all'associazione: hanno capito, prima di tutti, prima dei grandi, che la felicità è dietro l'angolo, ai lati della bocca, in mezzo ad un sorriso; a Vincenzo, Chiara e Michele; agli artisti che hanno contribuito, firmando, controfirmando, testimoniando con la loro arte, le loro fisime, i loro stomachi, i loro sacrifici che sono palindromi di coraggio e resistenza, ché a botta di dai e dai, alla fine, vinciamo noi; e quindi, ad uno ad uno, dedicato a: Fabio Giobbe, agli Errore 404, a Monica Riccio, ad Antonio D'Angiò, ad Enzo Colursi, a Nello Romagnuolo, a Simone Amoruso, a Leonardo Chianese, a Sara Magdalena, a Valerio Polito, a Roberto Ormanni, a Daniele Ciaravalo & Friends, alle ragazze di GASH, a Gianluca Raro, a Luigi Gallo, ad Alberto Orso, ad Antonio Mascolo, a Roberto Della Ragione, a Mario D'Onofrio, alla loro arte, ai loro dischi, ai loro quadri, ai loro libri-inchiostri arteriosi, alle loro voci, alle loro gambe, ai loro occhi, alle loro mani, al loro sudore, al loro sorriso, alle associazioni sportive e, mannaggia la miseriaccia zozza, sono sicuro che a qualcuno l'ho dimenticato tra i cespugli. A scanso di equivoci, dedicato anche ai cespugli. A quelli potati giusto poco prima dell'evento e a quelli invece lasciati erigersi senza sosta anarchicamente verso l'infinito, verso il sole. Vedi? Non sono per niente uno scrittore bravo. Nemmeno le lettere d'amore so più scrivere ché ho sbagliato pure a fare la dedica. Resto ancora l'adolescente - peletto sul mento in più, peletto sulla lingua in meno - insicuro, impacciato, incapace di esprimere bene, senza incasinarsi troppo con le parole, le proprie emozioni. Però, posso dirvelo? A mo' di confessione, ché questa forse la so fare: per quanto mi ha dato questa seconda edizione, per i calli ai piedi, le gambe indolenzite, il cuore grasso di gioia, le mani che ho stretto, le anime che ho abbracciato, gli occhi che ho conosciuto, il sudore, vi voglio bene. Si riparte anche da qui, insieme. Mamma! Guarda come sono felice! "E lievete 'a cammesella, a cammesella no no no no." Ma cos'è questo terrore? Come se di uno spettacolo non vi interessasse altro che il finale. Ok che per una serie Tv, un racconto, un film, il the end e, in generale, lo svolgimento/scioglimento della trama, restano gli elementi più attesi, ma state sfidando le leggi delle fisica e della cinetica per quanto siete capaci di far girare le palle con 'sta storia dello spoiler, che uno non può aprire più bocca senza aver paura di poter svelare stralci di storie. Sembrate come quegli americani sfigati che non possono vedersi la finale del Super Bowl, se lo registrano e, durante tutta la giornata-puntata, cercano di non farsi dire il finale. State rovinando amicizie intere, matrimoni saldi dal 1922: è come se di una donna, prima dell'atto sessuale vero e proprio, scopriste, in anteprima, a mano a mano, lembi di pelle - una zizza di qua, un gluteo di là. Non fareste comunque l'ammore con lei? Ok, potreste dirmi che il finale è proprio la scopata in sé, il climax di tutti i preliminari, corteggiamenti, essemmesse e trilli (quanto sono anni '80?) messi insieme, sta bene, ma vi pongo un paradosso: ammettiamo poteste chiedere ad una palla di cristallo com'è fare all'ammore con la persona che vi piace, quali posizioni farete, se si è lavata i denti o tiene il ciatillo Vodka e peperoni imbottiti; a prescindere dalla risposte, cosa cambia? non fareste all'amore con lei lo stesso? non sperimentereste voi stessi, sulla vostra pelle, com'è baciare una/o con l'alito da camionista polacco ben integrato a Casapulla? Non andreste fino in fondo comunque per poter dire che bello o che schifo? Lo so, è un paradosso idiota, ma se Anna Karenina muore, l'infermiera di Addio alle armi pure, così come il figlio di DiCaprio in Revenant, Salvatore Conte e il vibratore di Chanel - per suicidio - in Gomorra 2, per esempio, cosa vi cambia?
Scherzo, non è vero.
Adoro Andrea Tartaglia e sono contento che una canzone così bella e così ben fatta sia riuscita a raggiungere una così grande popolarità ( i dotti direbbero mainstream): anzi, probabilmente, Range Fellon' è finalmente l'esempio di come sia possibile fare della letteratura musicata, ironica, intelligente, impegnata, coinvolgente, simpaticamente casinista, napoletana, senza dover per forza rimettere a lucido la vecchia scatola di latta con dentro il sole, la sfogliatella, pulcinella, la pizza, il mare e il mandolino. Essere napoletano senza dover fare il napoletano. Range Fellon, contenuta esclusivamente nel concept-album-reunion "Capitan Capitone" di Daniele Sepe, ha permesso a molti di scoprire il talento di Andrea Tartaglia che in "Per Errore", con gli Aneuro, dimostra di essere tanta tanta roba. Come sempre, mi limito a parlare dello stile delle parole, dei racconti, del lato narrativo della faccenda musicale che, come sempre, è la parte che più sento di poter essere in grado di recensire. In Andrea, con fluida ispirazione (come direbbero i critici fighettoni), la scrittura è un continuo fondere l'italiano al dialetto, italianizzando l'uno, dialettalizzando l'altro, senza però cadere nelle apocopi e nelle rime più scontate e banali. Se in Range Fellone storpia goliardicamente francese e spagnolo lasciando che, in maniera quasi freudiana, spuntino fuori dai geni stesso del dialetto, la mia sensazione è che, in "Per Errore", piuttosto che rischiare di cadere nel banale (come purtroppo capita a molti cantanti che preferiscono comunicare in dialetto), Andrea scelga con cura le parole più idonee per impreziosire una musicalità che parte dalle parole stesse: ironiche e profonde allo stesso tempo, zompettando a destra e sinistra tra cantato e rap, tra rap e recitato, le parole sono il primo suono su cui i cori, gli arrangiamenti, i musicisti si distendono per completare l'atmosfera di ogni singolo brano. La playlist è eterogenea per argomenti e per atmosfere: "So Vivo" ha un zen appeal che ti acchiappa nella gola e ti fa venire voglia di gridare "So Vivo", ignudo, con tutte le sconcerie da fuori, in mezzo piazza Municipio, correndo verso il porto, per fare un tuffo a cufaniello; le fantastiche allitterazioni mitragliate in "Nebbia" sparano con pacifica violenza contro le paure, quel fastidioso strato di nebbia che si poggia sugli occhi che frena le azioni, inibisce e ti blocca: quasi in continuo ideologico con la prima track, Andrea torna a ricordarci che siamo vivi e non semplici macchine - piuttosto, siamo delle incredibili fonti di miracoli; simpaticissimo l'ironico rap "O' Fierr - rap delle casalinghe"; istrionicamente rude e 'cattivo' in "Ceccis", E potrei continuare così circumnavigando l'intero disco per ore e ore, ma vi annoierei. Il discorso però è questo: ascoltatelo bene, non fermatevi alle parole, scavate in profondità, cercate la skizzophrenia nascosta dietro e in mezzo ai suoni. Andrea Tartaglia, per concludere, insieme a Tommaso Primo, di cui ho già parlato qualche mesetto fa, è per me - linguisticamente e cioè nell'uso della lingua napoletana, nel renderlo nuovo, vivo e comunque legato alla tradizione - uno degli esempi più belli, originali e per questo interessanti del panorama napoletano contemporaneo. Gambe ancora tese per la salita di Mezzocannone, labbra affannate, nervi stracciati per la giornata, il caldo, la gente, ché la gente ha sempre un non so che di urticante come la mia camicia azzeccata addosso, il pantalone lungo che all'Università vuoi mica andarci col bermuda porca puttana hai ragione che non sono solito bestemmiare, non ad alta voce, non in presenza di altre persone di cui, a pensarci, non me ne frega un cazzo però non posso mica prendermela con loro se ho deciso di mettermi sto sfaccimma di pantalone lungo, col calzino che si è sfilato e mo ho il tallone che struscia nella scarpa, mannaggia la colonna. Fischietto un tema e si distendono i muscoli intorno ai zigomi. Si sono conentrati tutti sulle labbra. Seguo una melodia raccontata da 10 dita. Non è che io abbia controllato se ce le avesse davvero tutte e dieci, ma per come viaggiavano le note, immagino fossero tutte e dieci e, in fondo, perché avrebbe dovuto avere qualche dito in meno? Gli do un euro. - Grazie, si vede che a te piace. Eri l'unico a sorridere. Questi non capiscono niente. - Come ti chiami? - Savio. - Savio? - Sì, Savio. - Ah! - Perché? - Non niente, comunque tu sei bravo, davvero bravo. - Grazie, grazie. Pure tu suoni? - Un po', ogni tanto pure io, per strada, ma tu sei più bravo. - Quindi tu mi puoi capire? - Sì, sì, ma tu davvero ti chiami Savio? - Sì, mi chiamo Savio. - Ok, ok. - Ma hai capito tu questi? Non capiscono niente e magari si lamentano pure. Ma poi, dico, questi vanno in chiesa, che ci vanno a fare in chiesa? - Eh, lo so, c'hai ragione, ma la musica non la capiscono tutti. Riparte con un giro. Destra, sinistra, apre e chiude. Bella, davvero bella,suona benissimo. Smette e mi torna vicino e, poggiandomi la mano sulla spalla, indica le persone intorno. - Non dico tanto, però pure 5 centesimi, con tutta questa gente, cioè io faccio venti trenta euro in due tre ore e vado a casa, però fanno pure finta che non esisti, che non sentano, che non respirino. Next stop Materdei. Fisarmonica in spalla, mi dà la mano e fa per andarsene via. - Te ne vai? - Sì ma vado dietro, può essere trovo qualcuno buono come te. Il sudore si è asciugato addosso, ho ancora il pantalone lungo, ho i talloni tutti consumati, mannaggia 'sti calzini di merda, le gambe pesanti, le orecchie calme. Mi siedo, tra poco arrivo a Piscinola. Un signore piuttosto distinto, coi capelli bianchi, la barba grigiastra, come le sopracciglia, gli occhiali tondi, tiene sulle cosce un giornale. Renzi, De Magistriis, il Referendum, Benigni e la Costituzione, la gente è cattiva, silenziosa, fa finta di niente, sono manichini, però ascoltano, sentono i rimproveri ma restano manichini, uno, due, tre, non leggo, non sento, non capisco, ma ho le gambe tanto stanche ché dimentico i nervi stracciati. Scendo, sono arrivato a destinazione ed in testa ho i tasti della fisarmonica scolpiti nella memoria. Ovviamente il titolo è provocatorio, meglio chiarirlo. Però, in generale, ci sono dei ma. A volte mi sembrate come la Corea quando decise che avrebbe trasmesso la partita dei mondiali col Brasile in differita, solo in caso di risultato positivo. La Corea subì una valanga di gol e per i coreani quella partita non sarebbe mai esistita. Premessa: anche io, qualche anno fa avevo le mie perplessità, soprattuto mi rendo conto benissimo di quanto possa essere davvero fastidioso il fatto che il proprio quartiere, casa propria, debba essere scenario di un film in cui si raccontano assassini, guerriglie, spaccio e blablablà. Seconda Premessa: non c'entra nulla Saviano, la presunta speculazione o meno. Quelli sono fatti suoi. Terza Premessa: di Gomorra in sé non me ne frega niente ché ho visto poco, non seguo la serie, però una mia opinione me la sono fatta uguale e per me siete fuori strada. Scrivo a difesa dell'arte, della libertà di espressione: l'arte è arte e non deve avere PER FORZA finalità educative. O comunque sia, resta una scelta personale. Fare arte significa, il più delle volte, porre lo sguardo su un qualcosa e caricarlo di significati personali, sia che se ne voglia dare una descrizione oggettiva, sia il contrario. In entrambi casi, è sempre il proprio sguardo a dare valore alle cose poste al centro di un obiettivo, di una cornice o di un foglio di carta. Sei tu e solo tu. Il resto è blàblàblà. Possiamo discutere se quest'opera ci piace, non ci piace, è fatta bene, è fatta male e potremmo starci per ora, ma non si può cincischiare intorno all'idea secondo cui, pubblicando, mostrando, esaltando certe immagini ci sia il rischio che qualcuno possa imitarle. Vi spiego la mia opinione con due esempi: primo esempio: ne faccio alcuni random di carattere letterario ché parliamo pur sempre di scrittura. Il naturalismo in generale, Flaubert e Zolà in maniera particolare. Criticati per aver espresso cinicamente, fin troppo per alcuni, la realtà, l'ipocrisia della borghesia da un lato, la corruzione fisica e morale delle classi cosiddette inferiori dall'altro, non fecero altro che fotografare - ovviamente dal loro punto di vista - una realtà, un dato di fatto. Cinico, ma pur sempre reale. Non l'unica, ma pur sempre un fotogramma della realtà per costruzione idiscutibilmente vero. Di cosa li si poteva biasimare? Di aver distrutto l'idealismo romantico fatto di inverosibili passioni e ipocriti lieti fine? Quella Parigi ha criticato, ha puntato il dito, proprio come fa oggi Scampia, come fanno certi benpensanti, convinti che il problema sia la forma, il modo e non il contenuto che trasporta. La fiction è il mezzo, non la causa. Se c'è la camorra, se c'è chi entra in un bar indisturbato e fa partire dei colpi di pistola, minaccia tutti di uscire per poi incendiarlo, non è colpa di una fiction che racconta, con i metodi della fiction, partendo da spunti realistici o verosomiglianti. Ad uccidere è sempre la camorra, non Gomorra. Meglio ricordarlo. Per il problema dell'emulazione vi propongo un altro paradosso squisitamente letterario. Prendiamo il caso dei "Dolori del Giovane Werther". Era un periodo in cui il suicidio sembrava per molti (anime inguaribilmente sensibili, perennemente a disagio in una realtà a cui non sentivano di appartenere) l'unica soluzione a tutto. Goethe, a modo suo, ne ha parlato. In seguito, alcuni corpi senza vita furono trovati avvinghiati all'ultima pagina dell'opera dello scrittore. Potremmo mai accusare Goethe di aver istigato al suidicio? No. Semplicemente ha colto il sentimento di un'intera generazione e ha saputo capire, ha saputo raccontare. E, d'altronde, sarebbe come dire che "Il Vecchio e il Mare" istighi allo sterminio degli squali. Sarebbe bastato che a quelle pagine, a quelle di Goethe, fossero seguite delle risposte invece di lasciarle all'oblio del silenzio assordante dell'esistenza, dell'indifferenza, invece di non capire che c'era un popolo di giovani persi, abbandonati, isolati, svuotati e che avevano bisogno di aiuto. Ancora: quando Bukowski vi parla della sua esistenza, fatta di ubriacate, cazzi in culo, malinconie, offese, tristezze, sfortune, davvero a voi viene voglia di imitarlo? A me no, sinceramente. Bukowski - che pure ha molto spettacolarizzato un certo modo di vivere, un certo modo di fare - scrive gran parte delle sue opere al caldo, comodamente seduto nella sua bella casa con la sua bella mogliettina ela sua bibita analcolica. Se racconta certe cose è per mettere su carta la sofferenza di una gioventù passata ai bordi della periferia dell'esistenza. Ora a noi non interessa sapere se lo fa per fini edonistici o educativi, fatto sta che regala una finestrella dal quale affacciarsi e conoscere porzioni di angosce umane grosse così. Bukowski era maledetto perché maledetta era la sua vita. Era la sua realtà. Vuoi imitarlo? Vuoi leggerlo per capire qualcosa in più su questa strana vita? Non è un problema di Bukowski, ma tuo. Non vi piace Gomorra? Benissimo, non guardatelo, ma non perché vi mostra una realtà che a voi pare diseducativa, ma semplicemente perché non vi piace - che ne so - la fotografia, la recitazione, la tessitura narrativa, l'intreccio. ( E notate che io non vi sto dicendo se la serie mi piace, perché non è questo il mio discorso). Mi direte che non c'è una morale e che i personaggi vengono mitizzati al punto che l'imitazione pare una conseguenza inevitabile. Benissimo, vi rispondo così: ne "I promessi sposi", voi tifate per i due sposini o per Don Rodrigo che ostenta potere e ricchezza? Mi potreste rispondere che Manzoni ha comunque mostrato la scia, indicando dove puntare l'occhio della vostra/propria morale, e avreste ragione, ma a me è bastato vedere compiere il soppruso, l'ingiustizia, per capire su chi avrei scommesso. Se anche non ci fosse stata la Provvidenza a castigare tutti i bravi, gli infami, comunque non avrei simpatizzato per il nemico. Ecco, la differenza la fa la consapevolezza. E non perché si è migliori o peggiori di qualche altro. Non è questa una gara a chi ha il cuore d'oro e l'anima di diamantite. Il discorso è semplice: incontrare dei maestri, degli esempi rispettosi, poter contare sulla famiglia, leggere leggere leggere, imparare la differenza tra giusto e sbagliato, imparare a cogliere la linea sottile che divide giusto e sbagliato, fa la differenza. (Tra i 14 e i 16 anni andavo in giro a distruggere le pensiline delle fermate degli autobus, i vetri delle scuole, ad incendiare la carta nei bagni. Così, per di-ver-ti-men-to. Nulla di così "gomorristico", per carità, ma nemmeno tanto lodevole. Avevo e ho una famiglia fantastica, non mi ha mai fatto mancare niente, eppure emulavo-seguivo la spacconeria, l'andatura di quelli più grandi e, all'apparenza, più fighi di me. Poi ho conosciuto la chitarra, poi c'è stato un corso di lettura al liceo su Pasolini: è bastato che un professore mi desse la possibilità di imparare ad amare la letteratura. Ne sono stato travolto come una mitragliata di protiettili in petto). Essere consapevoli di se stessi, delle proprie forze, di cosa si può fare per sè e per gli altri, restare alla ricerca continua di un posto giusto in questa stimmate di universo: questo conta. Non è sempre facile, quasi mai lo è, ma l'ambiente, il mileau, il modo in cui ci si arrampica tra le fenditure del cemento e dell'asfalto, chi te lo insegna, quanto sono forte le radici, queste sì che sono le cose importanti. Non una cazzo di serie TV che - repetita iuvant - non ha mai ucciso nessuno, nè può farlo. Sarebbe come voler dire che tutti i racconti distopici andrebbero banditi perché potrebbero dare agli psicopatici lo spunto per poter realizzare future dittature. Vi rendete conto che è assurdo? Ad un ragazzino cresciuto in un ambiente sano, un ragazzino seguito, istruito, a cui si mostrano i percorsi, non verrebbe mai l'idea di scendere per strada con in braccio un kalashnikov. Ad un ragazzino simile, Gomorra parrà solo una serie di Tv da parodizzare - come hanno fatto i the Jackal - o semplicemente da ossevare. Ve lo ridico col secondo esempio. Secondo esempio: quando ero al liceo, lo stesso periodo in cui distruggevo vetri e pensilini, tra i banchi di scuola, andava molto di moda ripetere ossessivamente - come accade oggi con i tormentoni made by Gomorra - le battute de Il Camorrista. "O Prufessor è n'omm cu 'e palle". "'O Malacarne è nu guappo 'e cartone". "M'ha fatt arrezzà o cazzo". "Nun saccio chi è iss, ma saccio chi sono io", che, a confronto, i "due frittur", "biv", "l'omm ca po' fa almeno 'e tutt cos" non sono niente. ( Vi rendete conto che i toni, i modi spavaldi e le frasi sono quasi gli stessi? Il primo è tratto da una storia vera, mentre il secondo si basa su eventi verosomiglianti. Cambiano i costumi, le automobili, gli occhiali da sole, ma sembra quasi un'unica pellicola. ). E avrebbero potuto continuare per ore e ore. Tanto che ormai sapevo il film a memoria senza averlo ancora visto. Ricordo che in classe si fecero discorsi vari su quel film e ricordo pure che qualcuno azzardò a riconsiderare la vita del camorrista che, in fondo, era pur fatta di donne, soldi e potere. La scena 'eroica' in cui Cutolo scappa dal centro psichiatrico con un kalshnikov in braccio, il fatto che la Nuova Camorra Organizzata desse lavoro e cibo a milioni di cittadini disoccupati, ad alcuni, davano la sensazione che, in fondo, il camorrista potesse avere le sue ragioni. In questo tipo di riflessioni, la morte, l'idea di vivere rinchiuso in uno scantinato con la paura del dover scappare, del chi va là, l'assenza di una persona che fosse realmente fedele al 100%, il tradimento, il vivere fuori la legge, oltre la legge, oltre ogni etica e morale, no, tutto questo non c'era. Ed erano figli di buona famiglia, ragazzi spigliati, 'diversi'. Però ricordo che ne uscì fuori una bella chiacchierata tra quindicenni e, in conclusione, di quel gruppo di amici, oggi nessuno è un Camorrista. Dunque, ad ogni modo, il problema non è il film, il libro o il racconto di una realtà, e nemmeno lo è la presunta mitizzazione di certi personaggi (che tra l'altro muoiono e si tradiscono a vicenda mostrando una realtà esistenziale che, a volerla imitare, è da deviati), ma la capacità di analisi, di riconoscere - come dice la volpe al Piccolo Principe - l'essenziale nascosto dentro/dietro alle cose. L'arte non deve educare o comunque sia non può farlo con i metodi da catechesi. L'arte è arte e fa quello che gli pare e piace. Chè altrimenti dovremmo gettare al rogo secoli di letteratura e pittura, coprire con le braghe tutti i giudizi universali del mondo, occultare cadaveri e nudi scabrosi, ricoprire di fiori e arcobaleni tutti i sobborghi del neorealismo pasoliniano, censurare la satira, far dilagare il perbenismo a iosa, costruendo argini di cemento armato, riscrivere i the end di Hemingway, editare tutto Kerouac, moralizzare l'intero ingegno umano, chiudere le idee, fonderci in un unico grande pensiero etico morale. Ok, mi sta bene, facciamolo, ma la morale di chi? In sintesi, sperando di essere stato più o meno chiaro, per dare una mia idea della cosa, piuttosto che lamentarsi di una fotografia, occupiamoci del paesaggio reale. Prendi due scrittori bravi, mettili in uno shaker, sbattili bene bene ed ecco a voi "Ogni donna è un segreto" (sottotitolo: "Come sopravvivere alle donne"). Francesco Spiedo e Mario Emanuele Fevola, presi singolarmente, non erano per me una sopresa: folli, appassionati, pieni di talento e ispirati. Insieme, non sapevo cos'avrebbero potuto combinare. A metterli vicino, seduti allo stesso banchetto, col grembiulino uguale, quella pazza sognatrice di Miryam Gison, di cui vi ho già parlato un paio di novel fa, e che non solo gestisce una libreria indipendente ma ha messo su anche una casa editrice con cui aiuta i piccoli bravi scrittori. Hai capito tu che donna? Già. "Ogni donna è un segreto" , e non solo. Ogni riccio è un capriccio e la messa in piega è una rottura umana di un certo spessore. In mezzo a bigodini e colpi di sole si nascondono pettini e pettini di inciuci, invidie, sogni, pensieri, ideali, rabbie, fraintendimenti, no che sono sì e sì che sono minacce, che solo un bravo parrucchiere di quartiere come Luis è in grado sbrogliare. Ed è tutta qui la storia: sentimenti, umori, ricordi, amori da curare con uno shampoo, carezze di attenzioni a forma di polpastrelli. Luis è del quartiere e nel quartiere ha deciso di professare la sua arte, aggrappandosi alle pietre, dandosi, prendendosi e appartenendo per sempre alla sua Napoli. Spiedo&Fevola non dicono di preciso quale quartiere, basta che sia uno, sì, uno qualsiasi ché, dove sopravvivenza speranza e disperazione sono un tutt'uno, ogni mondo è quartiere e ogni quartiere è il milieu romantico adatto in cui far nascere storie vere, in cui Annarelle e Carmele si sfidano a colpi di luoghi comuni, occhiatacce e tinture. Luis ha la ricetta per sopravvivere alle donne, gomitoli imbrigliati di capricci, manie e gelosie, sa come sciogliere la matassa, filo dopo filo, con pazienza. Raggiungere il cuore di quest'intreccio, locus amoenus dell'anima, il perno su cui tengono in equilibrio secolare tutti gli infiniti del mondo, è un arte per pochi ma, se ci si riesce, quando ci si riesce, giocare agli equilibristi insieme a loro è la sfida più divertente che la vita abbia offerto all'uomo. Lo stile è pulito e scorrevole ché quasi ti dimentichi che a scrivere sono due autori, quattro mani, diversi occhi, molteplici sensibilità: devi concentrarti se proprio vuoi scorgere le incrinature, le cuciture tra una penna e l'altra. Come a volersi muovere di pari passo con gli inciampi dell'animo femminile, anche la storia è un intreccio di fatti, descrizioni ed escursioni nell'anima dei protagonisti. Come mio solito, mi fermo all'uscio della trama, giusto giusto un attimo prima che mi venga da spoilerarverla tutta, finale compreso. Mi limito ad offrirvi delle impressioni, le mie: si legge in un morso, anzi no, il giusto tempo che ci vuole prima che arrivi il vostro turno dal parrucchiere, di Sabato pomeriggio. Semplice, divertente e commovente. Una lettura giusta, consigliabile, soprattutto per quel finale che..... Non so se ve ne siete resi conto. Un giorno dovremo spiegare ai nostri figli che, se non troveranno spazio, una collocazione giusta nel loro pezzo di mondo, sarà colpa dei loro mamma e papà; che se volessero conquistarselo, lo spazio, uno qualsiasi, non propriamente quello che più si addice a loro ma comunque uno spazio, uno qualsiasi, uno che li renda uguali, almeno simili, non dico assai, quanto meno accettati, nonostante il mondo intorno giri proprio al contrario di come gira al loro interno, al loro senso, sì, se proprio lo desiderassero questo spazio e non riuscissero a trovarlo, la colpa sarà dei loro mamma e papà; che se porgendo l'orecchio al passato non saranno capaci di riconoscerne i suoni e gli odori del futuro, la colpa sarà dei loro mamma e papà; che se crederanno di essere nel torto, malsani, malati, insicuri, persi, sbagliati, abbandonati, non capiti, violenti, repressi, sbandati, infelici, insoddisfatti o semplicemente impreparati a cogliere il buono, a distinguerlo dal marcio, la colpa sarà dei loro mamma e papà che, non rendendosi conto che sarebbero diventati un giorno mamma e papà, hanno agito da figli senza balia, ai quali nessuno ha mai detto che si sarebbero sentiti nel torto, malsani, malati, insicuri, persi, sbagliati abbandonati, non capiti, violenti, repressi, sbandati, infelici, insoddisfatti, o semplicemente impreparati a cogliere il buono, a distinguerlo dal marcio. Sembra che io sia arrabbiato? No. Fatalista? Nemmeno. C'è una coscienza, una forza, una lotta continua. Una consapevolezza. Alla mia età, alla nostra età, non è più possibile sbagliare, senza che si infulenzi inevitabilmente gli inciampi futuri: questa sfida mi entusiasma, anche se mette un po' di malinconia. Colpa del tempo, dicono, delle pause, o di quando, guardandoti allo specchio, cerchi di capire cos'è che è cambiato sulla tua faccia, per far finda di non vedere quella chiazzetta bianca in mezzo ai capelli. Tornare a giocare coi Power Rangers, il camper delle Micro Machines, le biglie, le figurine, le sorprese nelle buste di patatine che inevitabilmente sapevano di plastica, giocare insieme a miacugina con le bambole e rimanere freudianamente perplessi di fronte al pube di Ken, farmi intossicare dalle Crystal Balls, azzeccare sull'anta del mobile della stanzetta l'adesivo del formaggino Susanna, subire le cazziate di miamadre per aver rovinato il mobile buono, giocare a nascondino e scoprire lì, in quei momenti, di quanto fossi un rattuso pervertito, vomitare l'anima dopo la prima sbronza, ritrovarla in mezzo alle canzoni, ai libri, trovartela tra le tue braccia, al mattino, al risveglio, in mezzo a una promessa e alla voglia di sorprese belle. Brucio, mi ustiono, vivo, esisto, credo, ho fede e fiducia: osservo e racconto. Nuotare controcorrente o far parte del flusso: è una scelta, ma anche questione di carattere, di pelle, di resistenza, anzi di sopportazione, di insofferenza cronica, per non arrendersi all'infinito oceano che è apparentemente un mare di possibilità, ma nei fatti un democratico niente. Saggezza, dilettantismo, idealismo impastocchiato e un po' confuso, orgoglio, non lo so. Però, di certo, tanta consapevolezza. Troppa? Non direi. Perché infondo, tutti noi vorremmo essere un po' come Carletto Mazzone quando corse contro i tifosi dell'Atalanta, rei di aver offeso, coi loro cori, durante tutto il match, i genitori defunti dell'allenatore. "Se facciamo 3 a 3 vengo sotto la curva", promise. E così fece. Ad accontentarlo, a soli tre minuti dal triplice fischio dell'arbitro, la provvidenza, una punizione, il divin codino, il suo miracoloso destro, Roberto Baggio. Non appena la palla entrò in rete, Carletto non ci pensò due volte, gli venne d'istinto, scattò come un ingranaggio a molla. Un dirigente aveva pure provato a fermarlo, ma lui, controcorrente, un fiume in piena contro il costume, l'ipocrisia del perbenismo, l'argine, la censura, si divincola e va a sfogare tutta la sua rabbia contro i soliti fessi, i soliti violenti che - non so se ci avete fatto caso - continuano a governare le cose del mondo. In quella corsa, in quei piedi, c'è tutta la filosofia di una generazione che si sta facendo anziana senza aver avuto ancora modo di essere adulti: però si è lì, con i nervi tesi e un vaffanculo in gola. Sì, perché a 28 anni ho forse capito cosa vorrei essere da grande. Non dico per me, ma almeno per l'idea - romantica, retorica, come un racconto di Nicholas Sparks, ma comunque comprensibilmente fantastica - di non dover aver paura di volere un figlio. Per fare il papà, per giocare con lui, per insegnargli a leggere, per provare a non essere la colpa dei suoi silenzi, dei suoi screzi del cuore, delle sue inquietudini. Per fare come hanno fatto i miei genitori. Sì a 28 anni vorrei essere la Corsa di Carletto Mazzone alla fine di Brescia - Atalanta.
- Guardate un po', è uscito il 13 e non il 14, che sfurtuna.
- Non lo dite a me, signurì. L'altro ieri aspettavo il 33 ed è uscito 63. Allora, quattro numeri su novanta, per quante ruote? Allora novanta diviso quattro fa... no, aspe', non era così, mannaggia. Una volta me lo ricordavo: è stato l'unico esame che mi andò bene quell'anno in cui frequentai la Facoltà di "Biologia Generica e Applicata"; poi ho capito che per me le parole contavano - o sarebbero contate - più di numeri, parabole, equazioni ed integrali. Le parole, già. Quelle su cui ho deciso di scommettere: parole mie, sgrammaticate, veloci, libere di fare il cazzo che pare e piace a loro. Le sento sotto la pelle, sopra a quella di una tastiera fredda che si riscalda, tra le dita, in mezzo alla carta, in mezzo alla musica. Parole in libertà, parole libere, senza il guinzaglio del gusto, se non il mio che ha da crescere, ha da studiare, ha da migliorarsi; ma sia chiaro: solo per me. Non mi interessa imparare a scrivere per il pubblico. Mi interessa conoscere più modi possibili per esprimere quello che ho da dire; è una questione di onestà, verso me stesso e - di riflesso - verso chi mi ascolta/legge. Le parole pesano, sono macigni. Puoi vuotarle, sfocarle, disporle a cazzo di cane su un foglio, farne un logo pubblicitario, anagrammarle, stenderle in lunghe metafore piene zeppe di analogie apparentemente senza senso, fare quello che vuoi, ma resta che, nei loro confronti, delle parole dico, hai delle responsabilità: è la differenza che passa tra chi vuole fare arte (con artigianerria annessa) e chi l'artigiano (e basta) ché, non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che sputa sulle parole, su se stesso e quindi sul suo pubblico, sulla responsabilità che ha verso di loro (pubblico e parole). A distinguerli, artisti ed artigiani, non è comunque semplice, anche perché, ad ogni modo, può capitare, è capitato e capiterà che ci sia dell'arte anche in chi fa solo semplice artigianato, ma questo è un altro discorso: si chiamano scelte. Vivere per l'arte (libera, personale, sublime, vera) o adattare l'arte alle nostre ambizioni materiali? - Dovrei pagare una bolletta. Mi fanno aspettare un po'. Anche se è venuta dopo di me, devono fare presto presto prima che escono i numeri. - Mi giochi di nuovo questa? - Guarda qua, mannaggia, mancava un numero. In cinque minuti, tolte le vincite, in due spendono più di quanto debba spendere io per la mia bolletta. [Il gioco d'azzardo è un po' come il premio dell'aldilà. Ci scommetti, anche se sono nulle le possibilità di vincere. Oddio, credo di comportarmi da buon cittadino per regole (etiche?, morali?, non lo so), per motivazioni che vanno oltre, sopra, dentro, sotto un cielo stellato sporco di gas e sonde spaziali. Non c'entra nulla il premio]. Poi, se chiedi loro di investire, di scommettere su di un libro, su di un disco, ti guardano strano: è la spinta del mondo che vuole farti fuori, ti spinge verso il baratro, ti allontana dalle cose che contano e - senza nemmeno che te ne accorgi, senza nemmeno poter far ormai più nulla - ti aggrappi disperatamente al primo/ultimo appiglio che ti passano ( che vogliono farti credere ti resti). Ma anche questo è un altro discorso: sono scelte. Stavo per pagare la mia bolletta, trentatré euro, e mi è venuto da pensare ai soldi, allo studio, alle fatiche, ai cessi lavati e che laverò pur di tenere pulita questa mia sporca fede, pensavo alla musica, ai libri e, toh, epifanie su epifanie - che Joyce mi fa un baffo - mi viene da pensare a Miryam Gison. Una pazza, una giocatrice d'azzardo furiosa, una cretina che ha l'assurda idea di dare fiducia alle parole. Quante possibilità ci sono che una libreria indipendente lotti, combatta e quindi resista nell'epoca e nella terra delle apparenze, del tutto e subito, del nulla cosmico, delle poche Orchestre, nell'epoca che Se studi sei uno scemo e te ne sei quasi convinto, dell'Uomini&Donne, del "Tizio ci ha saputo fare, è stato furbo, tu che avresti fatto al posto suo"? (oh, non sono idiota: certe nullità sono forse sempre esistite, ma oggi sta divorando tutto e tutti). Secondo me, potenzialmente, nonostante tutto, comunque tante, molte di più di quante non ce ne siano, giocando d'azzardo. Allora, per scrupolo, facciamo un calcolo sciuè sciuè: un libro per ogni lettore, diviso il costo di un gratta e vinci, elevato al numero di dischi venduti da un artista indipendente, sommato a enne risvoltini per un numero imprecisato di gambe, gambe che corrono, passeggiano ma non sanno dove vanno, meno il numero di scarpe di Emma Marrone... - Vedi che qui ho vinto, giocamene ancora un paio, ti devo dare ancora dodici euro, vero? A San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, Miryam Gison cammina, pensa, riflette, progetta, dà spazio, crea spazio, rimugina, crea, produce, investe, scommette sul bello, non sulle probabilità: per questo è una bella persona. Una persona che sa bene che in ogni singola parola c'è un macigno da sollevare, una scommessa che bisogna vincere, che va vinta, non c'è altra alternativa. Ma per farlo, bisogna essere insieme ché da soli, per fortuna!, non si va da nessuna parte: siamo una grande spaziale enorme officina, anzi una Bottega, operai, faticatori, inzozzati di inchiostro e bellezza. Perché abbiamo scelto di scommettere sulle parole, sulle nostre, quelle degli altri, quelle di ieri, domani e dopodomani e, porca puttana, bisogna crederci! Per noi, per la responsabilità che abbiamo, non tanto nei confronti di chi c'è stato e di chi sarà, fanculo, ma per ciò che dobbiamo a noi stessi ché, se una libreria indipendente chiude, perdiamo tutti. Si perde in gruppo. Né buoni, né cattivi, ma solo un enorme gigantesco baratro, lontano dalle cose che contano, senza più nessuno appiglio, senza più nessuna chance, doppia chance, gol, golgol; nulla da guadagnare, nulla da mettere in tasca, nessun gratta e vinci, niente di niente, niente per nessuno. Nessuna differenza. Perciò: Lettori di tutto il mondo, uniamoci! (E, niente, ero andato a pagare una bolletta). Mi piacciono molto i libri, soprattutto quando me li regalano: è come scartarlo due volte, il regalo. La prima, quando togli via il fiocco e stracci la carta. La seconda, quando leggi il titolo, sfogli piano piano le pagine e lo fai tuo. Comunque vada, sarà una sorpresa. Una casa non è una casa se non c'è una libreria piena di libri letti, con affianco un'altra, immensa, infinita, poeticamente eterna, piena piena di opere da leggere, o più realisticamente da riempire. La felicità è una libreria a cui si posso aggiungere blocchi di scaffali e mensole, mani che si tengono, arterie che si incontrano, maglie che s'intrecciano. Leggere è un'ossessione, una droga, un bene di prima necessità. Questo è l'antipasto, per poi andare dritto al sugo, anzi per offrirvi il dolce. Il 30 Aprile, a Secondigliano, di Sabato sera, si è tenuto il primo incontro del Piccolo club del libro di Secondigliano. Immaginatevi la scena: - Dove vai stasera? - Resto a Secondigliano. - Ah, a fare cosa? - Per parlare di un libro. Fantastico, no? Si ribalta tutto, anzi, si ristabilisce l'ordine esatto della bellezza: è la resistenza eroica di chi crede ancora a quella stupida leggenda secondo cui, per far sì che la terra produca fiori e frutti, bisogna ararla, prendersene cura. Una cosa così sciocca, banale, semplice, che capisci perché molta gente non ci crede o, più semplicemente, ne ha paura. Oddio, ho parlato di resistenza, ma non è proprio il termine più adatto. Il verbo Resistere mi ha sempre dato la sensazione di qualcuno che, inginocchiato, piegato su se stesso, con le braccia intente a coprirsi la testa, il cuore, le parti vitali, tenta di parare i colpi, fino alla fine, fino allo strenuo delle proprie forze. Si difende con onore, è vero, e anche con coraggio, ma dà la sensazione di essere stanco, che sta lì lì per perdere. Questa qui invece è proprio una Riscossa bella e buona: forte, energica, combattiva, consapevole e quindi pronta a riprendersi i propri spazi. Tutto è nato dall'idea di voler dare un punto di riferimento a tutti quei lettori che, dopo aver letto un libro, non hanno con chi parlarne e confrontarsi e se sei tra questi e ti va di partecipare, invia la richiesta al gruppo su Facebook, cliccando qui. Conoscere è un'arte, l'arte è bellezza: conoscere è un'opera d'arte bellissima e, come tutte le cose belle, non può non distribuire a grandi dosi di entusiasmo. Il primo incontro è stato dedicato a 1984 di Orwell: si è parlato di tutto, di dittature, di memoria, del Fratello Maggiore, di Winston, della sua resistenza, delle braccia probabilmente troppo deboli per difendersi la testa, il cuore, le parti vitali. Forse troppo piccolo per provare a riempire blocchi, scaffali, arterie e maglie, da solo. Invece qui noi siamo in tanti e abbiamo voglia di esserci a colpi di musica, letteratura e sorrisi belli, grandi, pieni di denti e che sanno accarezzarti, che sanno come addormentarti gli screzi del cuore. Perdonatemi l'entusiasmo: è che sono un innamorato e mi scoppia il cuore. Diciamocela tutta: c'era venuta un po' una mania compulsiva. S'iniziava alle tre del pomeriggio e si finiva mai. Per dimostrare cosa? Che si voleva chiavare come i ricci, ma a dirlo si passava per dei maiali. E allora giù con gli squillini. Tu pensi me, io penso te, poi mi ripensi, rispondendo al mio squillo che ripeterò per rispondere te in un loop da encefalogramma piatto. Alla fine non significava niente: uno squillo e niente più. Per alcuni era l'alternativa alla masturbazione, l'autoerotismo del nuovo millennio, per altri un pietoso tentativo disperato di non finire a masturbarsi in eterno. Qualcuno lo ha romanticamente paragonato ai cinguettii degli uccelli nella fase del corteggiamento; già, peccato che, ai tempi dello squillo, al corteggiamento era stato tolto il fascino erotico del pre e del dopo. Ve l'ho detto: Nun se chiavavaaaa! Poi venne il tempo di Messenger e la situazione non è che cambiò poi tanto. Anzi, a dirla tutta, finì solo per peggiorare la situazione. Innanzitutto si complicò la chiarezza della comunicazione. Ve lo ricordate? Ad ogni lettera-grafia della qwerty avevi fatto corrispondere un emoticon e quando volevi semplicemente scrivere "Hey, ciao come stai"?, partivano gif, emoticon traballanti, punti interrogativi giganteschi che, a confronto, un trip da Lsd dà meno visioni. E poi c'era lui: Mr Trillo, il fratello piccolo dello squillo. Il significato, dietro al significante, era sempre lo stesso: non ti posso corteggiare ché siamo lontani e se vengo sotto al balcone a farti la serenata, come si usava fare una volta, o passo per tamarro o parte la secchiata d'acqua (nella migliore delle ipotesi); se ti spedisco i fiori a casa, passo per stalker seriale e mi mandi i carabinieri a casa; se ti invio una lettera d'amore, passo per sfigato ché non si porta più, e allora sai che c'è? Mo ti trillo e vediamo che succede. E alla fine, il più delle volte, succedeva una cosa sola, e ora ve lo spiego: Qualcuno ha detto che la nostra generazione è quella più volgare e bestemmiatrice di tutte. E grazie al cazzo: un trillo ti bloccava tutto il Pentium Pc Calcio YouPorn. Tu sei lì, intento a flirtare con una che al 90% ti avrebbe friendzonato (il restante 10 % delle tue speranze erano tutt'al più riposte in una più probabile e accettabile indifferenza), ed ecco che la bruttona-antipatica di turno, che non sai nemmeno com'è che l'hai su Msn, ti trilla, facendoti bestemmiare i morti a Bill Gates. Nel frattempo, lei, quella del 90% più 10, si è messa offline, o forse ti ha cancellato. E ad ogni modo, anche se ti ha risposto, non lo saprai mai ché hai dovuto formattare il Pc. Oggi, nell'era dei social giganteggiata da Facebook, considerato che il poke - ultimo sfatto erede dello squillo, made in Zuckerberg - nessuno più sa cos'è ( e, in realtà, in pochi hanno capito cosa significasse), nell'era in cui il Corteggiamento è diventato una pietosa commedia recitata da pupazzi incelofanati in risvoltini, troni, esterne e volgarità, si è perso un po' di quel tenero romantico imbarazzo, dietro cui si nascondeva il significato dello squillo. Perché, diciamocela tutta, squilli e trilli erano metodi da insicuri, inventati da insicuri che, in fin dei conti, non potevano non suscitare un briciolo di tenerezza. Oggi, fortunatamente, si parla chiaro e, se c'è un interesse, lo si dice senza troppi giri di parole: "senti, che ne diresti se io e te, appena possibile, copulassimo e poi, magari, che ne so, da cosa nasce cosa, non si può mai sapere, va a finire che ci sposiamo pure"? Vanno così oggi le cose o mi sono perso qualcosa? Ormai, a 28 anni quasi, sono un vecchietto e non so più com'è che i giovani fanno acchiappanza. Si dice ancora così? Mado', come sono vecchio. Nel Giovane Holden, J.D. Salinger, scrive: "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira". Chi mi segue da un po' di tempo a questa parte, sa bene che mi affeziono tantissimo agli autori che leggo. Roba che diventano proprio i miei migliori amici. Ma non succede con tutti, eh: dipende da quanto valgono. È come con le persone: mi affeziono tanto facilmente, che potrebbero tranquillamente diventare i miei migliori amici. Ma non succede con tutti, eh: dipende da quanto valgono. Ad ogni modo, il più delle volte, siccome gli autori non li posso telefonare, per capire un po' di cose, approfondisco le letture, accatastandone una marea, una sopra l'altra, ché ad un certo punto mi sento accerchiato e mi sale la claustrofobia; così, giusto per cercare di dare un'oggettività - se c'è - a quello che sto leggendo Come quando ti innamori di una donna e vorresti imparare tutto di lei: cosa fa, cosa studia, chi frequenta, da che parrucchiere va, quanti nei si nascondono sotto ai suoi vestiti: una conoscenza anatomica. Poi ci sono i folli "fallen in love" dell'innamorato, cioè la pazzia più accecante. Avete presente quelle situazioni palesemente pietose, in cui siete convinti che il vostro pazzo amore sia corrisposto e, ogni occhiata, ogni strabico sorriso, credete siano rivolti a voi? (Non sia mai si permetta di offrirvi una gomma: potreste interpretarla, non dico come una proposta di matrimonio, ma che voglia abusare sessualmente di voi, sì, è probabile possiate pensarlo). Ecco: l'illusione interpretativa. Cogli cose che l'autore nemmeno ha mai pensato. Interpreti i fatti e le storie a modo tuo. L'opera, anche senza un buon motivo, anche se non corrisposto, diventa tua per sempre. E quindi, ecco le 10 cose che mi ha insegnato il caro Guglielmo Scuotiscena, o che almeno credo abbia voluto insegnarmi:
Piccolo inciso che potrà non azzeccarci nulla, ma se ci pensi, nulla proprio non è: l'arte non è come la moda che crea la passione del nuovo e l'odio-noia per il già visto e sentito. L'arte è eterna ed infinita. Tanto infinita che il nuovo, se non lo capiamo, è un problema nostro, non dell'arte. Così come non lo si deve per forza mettere in contrasto col vecchio. Ma la domanda è: cos'è arte? Pensateci. #Ciaone Faccio una premessa: nel Post precedente, mi ero permesso di fare una metafora zoomorfa, paragonando la strafottenza collettiva, ma anche del singolo, all'atteggiamento remissivo del Panda. Ho cercato semplicemente di dire, a modo mio, che in un palazzo ci sono delle regole da dover rispettare e che, se non ci si presenta mai alla riunione condominiale, diventa poi complicato far valere le proprie ragioni se, contravvenendo al contratto stipulato, ci si ritrovano imposte 30€ in più da pagare al mese. Oggi il discorso si fa più complicato: la sensazione è quella del mister che, alle telecamere, deve motivare la sconfitta della propria squadra che ha subito un gol in fuorigioco, un'espulsione ingiusta e si è visto negare un rigore. Il 50 + 1 ti mette in difficoltà, dà spazio a chi, fondamentalmente, può legittimamente fregarsene nulla: è la democrazia baby. Il fatto è che dare una spiegazione a tutto questo - del perché la gente se ne freghi, al di là degli agghiaccianti inviti ad astenersi - è talmente complicato che è meglio tacere: non sono un sociologo, né un politico, tantomeno un politicologo e se mi permetto di dire la mia, rischio pure il linciaggio pubblico e, di farmi offendere, non mi va; d'altronde, sono solo uno che cerca di farsi una propria opinione e, più che cantare qualche canzuncella, davvero non può fare nulla. Sì, ok, ho sto viziaccio di leggere, tanto, forse troppo, ma a che può servire? Tanto, ormai, tutti possono dire tutto ma nessuno ha diritto di dire niente. Tutti possono pubblicare tutto e tutti possono dirti cosa non va pubblicato: il piatto di pasta sì, la tessera elettorale no, cosa leggere sì, che bisogna andare a votare no, offendere se si ascolta musica di merda sì, a volte no, ma soprattutto mai criticare l'elettore che l'elettore non fa. "Tu non puoi avere nessun diritto di esprimere la tua fallibile opinione, autocompiacendoti delle tue azioni: questa è la mia insindacabile e imperfettibile, perché già perfetta, opinione, me ne compiaccio e te la scrivo pure su Facebook". Ecco. Questo referendum ha fatto sì che tutti potessero dire qualsiasi cosa su tutto e tutti. E non so se è un male o un bene. Già, perché avere qualcosa da dire è complicato: per molti è molto più facile avere qualcosa da ridire. Stendhal, nel 1830, in "Rosso e il nero" scriveva: L'opinione pubblica è terribile in un paese dotato della carta costituzionale. Già, in questa nostra democrazia, qualcosa non funziona, ma per certe cose c'è sempre il buon Giorgio Gaber, quindi buon ascolto: Il senso è tutto nel titolo, però non voglio darvi le motivazioni del perché sia importante che si barri la strabeneddettisima casella del sì. Ce ne sono tante, ma dovreste essere voi a farvene un'idea. Non deve essere certo il primo blogger del cazzo a dovervi dire cos'è giusto e cos'è sbagliato. Però... però una cosa voglio dirla. In un paese in cui tutto è stramaledettamente sbagliato, corrotto, capovolto, in cui il presidente del Consiglio e l'ex Presidente della Repubblica ( a proposito, ma Matterella dov'è? Cosa fa? Che dice? Esiste?) invitano a non votare, disattendendo ogni apparente logica democratica, in un paese in cui, il popolo - e cioè noi, io, tu - ha sempre meno voce in capitolo, rinunciare ad esprimere il proprio parere, disinteressarsi delle votazioni, buttare nel cesso l'unico potere che si ha, non raggiungere il quorum necessario per far valere il Referendum, è triste, molto triste: significa dare un buon motivo di pensare agli altri, a chi ci governa, che in fin dei conti sia giusto calpestarci, toglierci a mano a mano ogni potere decisionale, non farci contare un emerito cazzo. Un popolo che smette di informarsi, di studiare, di documentarsi, di capire le dinamiche che avviluppano il suo stesso paese, è un popolo destinato a dover morire. E in fin dei conti se lo merita: un po' quello che dice la Gabanelli qui sotto. Un po' come il paradosso del Panda. Non ricordo dov'è che ho letto che uno dei motivi per cui il povero mammifero made in Cina è in via di estinzione è che non è in grado di evolversi: in pratica, la presenza della sua pappa preferita, la canna di bambù, a causa dei continui sconvolgimenti ambientali, è sempre più scarsa. Ora, però, il Panda - secondo quanto ho letto - ce l'avrebbe pure un modo per sostituire il suo preziosissimo bambù nella sua alimentazione, ché gli basterebbe diventare onnivoro visto che, a quanto pare, sempre secondo quanto ho letto, il suo organismo glielo consentirebbe: sarebbe la soluzione più logica per non farsi schiacciare dall'evolversi - in peggio, ovviamente - dell'ecosistema che lo circonda. Ma il Panda è pigro, non ha voglia di andare a caccia, non vuole evolversi, si scoccia e preferisce restare così com'è. Non gli importa se un giorno morirà, se la sua razza si estinguerà, assolutamente no, fanculo a tutti: lui vuole restare uno stupido mammifero che vuole solo il suo stupido bambù. Ora può darsi che questa storia del Panda sia una grande cazzata, però mi piaceva citarla come metafora per spiegare la deriva dell'italiano medio: uno che rifiuta di evolversi, di informarsi e lascia agli altri, al caos programmato, allo sconvolgimento eco-amministrativo in cui vive, le sorti del proprio destino. Ma no, no, povero Panda. Lui almeno ci crede in qualcosa, muore per un'ideale, per un credo: già, perché il suo atteggiamento potrebbe anche essere visto - trovandovi a tutti costi una stringente motivazione assiologica - come una forte coerenza coi propri principii, come una specie di resistenza vegan-cheguevarista. Sarà pure idiota, se ti porta all'estinzione di tutta la tua specie, ma è almeno un'ideale. Mentre all'uomo che decide di calpestare un suo proprio diritto, che resta ostaggio del quorum, non permettendo che la partita si giochi lealmente, facendo vincere il disinteresse, cosa resta, se non l'obbligo di dover morire e scomparire quanto prima sulla faccia della terra? La satira, da sempre, dà fastidio. La satira dà sempre fastidio, La satira dà sempre fastidio, soprattutto quando è fatta male. Lo so, lo so, quando c'è di mezzo un morto, non la si digerisce facile facile, ma non è colpa di Vauro se Grillo è in decomposizione ormai da anni. Questa è brutta, lo so. Però, ecco, il significato del segno è lì: morto Casaleggio cade il M5s. Sarà così, non sarà così, fatto sta che la critica è nei confronti del presunto-probabile-forse no burattino Grillo. Il problema è che la satira fa discutere, quasi sempre e guai non lo facesse: non sarebbe satira, ma Made in Sud. E neanche, Made in Sud non fa nemmeno ridere. La satira deve rompere gli schemi, deve essere fastidiosa, urticante, invadente, prendere a cazzotti i costumi, l'etica e la sensibilità comune, e deve farlo subito, ora, veloce, in un secondo, deve cogliere l'attimo. In una parola, anzi due: deve fregarsene. Fatevene una ragione. Deve farvi gridare allo scandalo e, in un certo senso, perbenismo e pudore sono una buona cartina di tornasole per chi fa satira. Se non sussultate sulla sedia, almeno un tantinello, allora è vero, un problema c'è: come dice il mio amico Maurizio Capuano o siete troppo cattivi per scandalizzarvi o la battuta è fatta male e non ha avuto il suo effetto. Personalmente, non so giudicare la qualità di questa o di qualsiasi altro pezzo di satira, ma so cosa non vi si può mai imputare a colpa: che possa mancare di tatto. Se si è accorti alla suscettibilità dell'ascoltatore-utente, al "sai cos'è? l'ho trovata di cattivo gusto. Non era il momento adatto", si finisce per non fare ciò che abbiamo detto debba fare la satira: scandalizzare. Chi fa satira, semplicemente, se ne frega. E poi, la sensibilità di chi? Dei tanti? Dei pochi? Che tipo di sensibilità? Parliamo di quantità o di qualità, o di cosa? Sensibilità è sorella di Cultura che è cortigiana di Periodo (Storico) che è figlio edipico di Conformismo. No, perché qualcuno potrebbe essere sensibile alla causa dei pensionati in fila alla posta che rischiano ogni mese di essere rapinati da un manipolo di Cingolesi che in realtà sono Napoletani vestiti da Congolesi che si atteggiano a Milanesi, e fregarsene invece dei morti del Mediterraneo. Oppure si può essere (troppo) sensibili a tutto o a niente. E allora cosa succede? Limiti la tua libertà di pensiero per un pubblico intangibile, ipotetico, refrattario a tutto, dai gusti opinabili o che non conosci, oppure, a questo punto, te ne sbatti di tutto, rompi il muro del perbenismo, e lasci che il bellissimo mostro che è la satira esca e faccia un po' quello che gli pare? Perché la satira è idillio della libertà, la bellezza a forma di ghigno. Che poi, chi ha detto che chi fa satira è poco o per niente sensibile? Anzi, è proprio il contrario. C'è di fondo una sensibilità così forte che invece di piangere, ridi - di gusto, per rabbia, per non piangere, ma ridi. Per questo la Satira - con la esse grande - non è per tutti: non tutti sono così sensibili. Tornando a Vauro, giustamente opportunista - questo va detto: ma avrebbe mai potuto aspettare che uscisse dalla camera ardente? O, che ne so, il tempo della tumulazione? Avrebbe perso l'attimo! - il suo obiettivo era puntare il dito contro Beppe Grillo, e forse forse, sotto sotto, fare un velato complimento a Casaleggio? Ma ora facciamo un gioco: sostituite Gelli a Casaleggio e Berlusconi a Grillo. Ok, ce l'avete l'immagine in testa? Sì? Bene, vi scandalizza di meno? Sì? Allora siete tutti Grillini!11!11! No? Siete dei fottuti ipocriti !11!111! Va bene, ok, per voi non sono paragonabili i due casi. Per voi grillini intendo. Ok ok, è davvero così, vi accontento: non sono sarcastico. Però, il fatto è che quella - e cioè che Grillo sia stato una marionetta nelle mani di Casaleggio - resta la specifica democratica opinione satirica di Vauro. Di certo, puoi non essere d'accordo col senso, ma questo è un altro paio di maniche e non ce ne può fregar di meno: l'opinione è il contenuto di una forma espressiva - in questo caso, la satira per l'appunto - e non ha niente a che fare ( più o meno ) con la sua stessa forma che, per trascinarsi il contenuto a suo modo, deve - mi ripeto ancora - suscitare qualcosa, possibilmente scandalo. Chiaro? No? L'ho fatta complicata e ridondante? Mannaggia. Scusate ma è l'orario. Ad ogni modo, non essere d'accordo con il senso è sacrosantissimo, per carità, ma contestare la forma ( che nello specifico fa rima con finalità, quella di cui sopra ) è come voler conoscere la storia contenuta in un libro, rifiutandone però la struttura, il numero delle pagine e il fatto che lo si debba per forza leggere, o come criticare la poesia perché è scritta in versi. In conclusione, ancora un altro paio di maniche è capire - sempre che la cosa freghi davvero a qualcuno o che non sia evidente - se Vauro sia o meno organico ad un sistema che si muove con sue logiche propagandistiche contro altre logiche propagandistiche avverse. Mentre scrivevo, mi sono ricordato stavo della parodica eucaristia fatta da Grillo in un suo spettacolo e alla repentina reazione del web - sommo giudice di ogni scibile scrivibile, musicabile, digitabile: che pena, è un blasfemo!111!11! Sporco zozzone!11!!1!! Qualcuno l'ha detto: soprattutto i cattolici; qualcuno no: soprattutto i pentastellati. Ecco, siamo alle solite: quello sì, si può dire, quest'altro no. Dipende ancora dalla sensibilità di chi investi con la tua satira. E allora: gli ebrei no, i cattolici nemmeno, i musulmani sì, anzi no, no no, assolutamente no: materiale che scotta. Quando si può fare satira? Quando c'è di mezzo Berlusconi? I down no, non li si può toccare giustamente, e Renzi? Renzi si può toccare? E i bambini? Possiamo toccarli i bambini? Soltanto se hai preso i voti e indossi un saio. No, blasfemo! Maleducato! Insensibile! che pena, è un blasfemo!111!11! Sporco zozzone!11!!1!! Scandaloso !!11!11! Bah, non so che scrivere più, ma come si dice? Ai Post(eri) l'ardua sentenza. Non mi interessano gare di solidarietà verso nessuno. Siamo seri: è uno sport, un gioco. Avrei vergogna, oggi, in quest'epoca, coi problemi che realmente abbiamo, a mettermi in questi lungaggini patetiche. A rendermi partecipe in questo volo pindarico generalizzante che ci fa passare dagli attentati di ieri a un JesuisHiguain di oggi con un colpo di reni. Parliamo pur sempre di uomini che in questo mondo ci vivono, lo conoscono e ci mangiano. Intelligenti pauca. Il discorso è un altro: che proprio perché è un gioco, mi hanno fatto venire il latte alle ginocchia tropo presto. Ne ho sempre fatto una malattia, perché adoro proprio il gioco ai limiti del fanatismo da nerd: l'album delle figurine, imparare a memoria la formazione della Lazio di Cragnotti, o la Roma dello scudetto, elencare, durante le feste di compleanno alle scuole medie - mentre le donne iniziavano ad impomatarsi e a capire quanto fosse importante tutto il loro apparato riproduttore - tutti i bidoni del Napoli: da Prunier a Bordi, e poteva durare tutta la compilation Hit Manda Dance. La formazione tipo degli anni '90: Buffon; Cafù Cannavaro Nesta Roberto Carlos; Zidane Veron Davids; Totti Shevchenko Ronaldo. E avevi fuori gente come Batistuta, Baggio, Del Piero, Thuram, Owen, Raul, Morientes, Casillas, Kahn, Stam, Cordoba, J. Zanetti... Le partitelle erano una riproduzione sportiva, in erbetta sintetica, modalità calcio a 5, raramente a 8, di Avatar: ognuno col suo numero di maglia, emulavamo, ovviamente nei limiti reali di una riproduzione per niente fedele, i nostri campioni. Poi c'era sempre il famoso figlio di Maradona, quello che non la passava mai a nessuno, scartava tutti e a porta vuota sbagliava. L'odore del campo sintetico, prenotato di fretta e furia dall'amico più voglioso di giocare, la bottiglina d'acqua, chi perde paga il campo, ok, dai, la pizzetta al bar, va be', facciamo chi perde si prende gli sfottò, quante reti hai fatto?, uà ti sei divorato quel gol, esci purtié, facciamo il tocco per chi va in porta, raga', perdonatemi, ma senza occhiali non vi vedo. Va be', cose che accadono ancora oggi. Perché poi, sì, poi c'è il tifo vero e proprio, che va oltre alla mera passione sportiva: il grassone che canta sugli spalti che ne sa dello sport? Io ne ho fatto sempre un fatto di appartenenza, anche se il presidente della società è Romano, il capitano e Slovacco e l'idolo della tifoseria - di ieri e di oggi - è un Argentino. Nei tempi adulti, per un periodo, ho messo da parte il tifo per dedicarmi ad altro: a me, alla scrittura, alla musica e durante tutta la fase di registrazione del disco - per farvi capire - ho perso praticamente un campionato intero. Avevo approfittato per disintossicarmene. Poi però ci sono ricaduto, come quando provi a toglierti il vizio della sigaretta e intorno a te c'è gente che fuma in continuazione. Per carità, non voglio fare piagnistei, ma rendiamoci conto che il calcio, come qualsiasi cosa che esiste sulla faccia della terra - figuriamoci in Italia - è lo specchio della società in cui si vive. Dove girano soldi, ci sono gli interessi, i poteri forti. Chiaro no? Semplice? Ma non da oggi, ovviamente, non dal fallo di Bonucci non sanzionato con ammonizione. No, assolutamente. Da sempre. Vedi in casa FIFA, per esempio. Senza voler contare i cori, la violenza e la frustrazione di alcuni: per ora, lasciamoli fuori dal giro, quelli lì. Solo che, alla mia età, c'è sempre voglia di illudersi, di credere che alla fine della corsa, della pedalata, della salita - continuo? - della maratona, c'è qualcuno pronto a premiarti, a dirti bravo hai vinto con merito, il mondo è pulito, e tiè eccoti una borsa piena di soldi, diamanti e barrette di cioccolato dimagranti, fanne quello che vuoi, te lo sei meritato. Si è ancora inclini a credere alle fiabe, al fatto che non sono i soldi, le scommesse, i poteri, gli interessi, le percentuali, i pesi e le misure su misura, le trivelle a muoverei i crani delle persone. Macché. Un rigore mancato, un goal non dato, un fuorigioco non visto, interi campionati mossi, falsati, a discapito dei tifosi, a discapito di chi immette - a torto o a ragione, fate voi - tutto se stesso in un gioco, in una maglia, in dei valori che, sì ripeto, ok, potrebbero essere esagerati, ma sono pur sempre veri e onesti. Nemmeno i tifosi di quelli lì, sì, quelli non a colori, meriterebbero tutto questo. Queste falsificazioni nuocciono alle passioni, al calcio, e trasforma tutto in fanatismo. Già, ho il latte alle ginocchia, mi è salito il vomito e ho pure la nausea. Colpa delle sigarette dicono, a no, io ho smesso. Complimenti a me. Sono riuscito a smettere con le sigarette, sarà mica difficile smetterla col calcio? Salve, mi presento, sono un pesciolino rosso e giro giro giro tutti il giorno in questa boccia di vetro che puzza di plastica. Dicono che, a noi pesciolini rossi, la memoria vada via ogni tre secondi, puff, tiri via la spina, e zero, non ricordi più niente, del tipo che mentre sto girando girando girando girando... toh, cosa stavamo dicendo? Non lo ricordo più. Ultimamente non so dove metto la testa. A proposito di memoria, sapete cosa dicono di noi pesciolini rossi? Che riusciamo a ricordare le cose per un massimo di tre secondi. Poi puff, zero, vuoto totale. Però chissà com'è che a lui me lo ricordo ancora bene. Com'era fatto? Chi? Cosa? Chi siete voi? Che volete? Siete proprio odiosi come lui, voi. Lui chi? Ma come chi? Il ragazzetto col cappello che al papà ha detto "Babbo babbo, me lo prendi per favore"? Tra tutti, ha pescato proprio me. Capriccioso, petulante, invadente, infantile. Chi? Ma siete peggio di me con la memoria? Pure voi siete come lui. Infantili, invadenti, petulanti, capricciosi. Sempre a chiedere, sempre a volere le cose. Ho cercato di non farmi afferrare io, eh. Sono un tipo libero, collerico, cocciuto, fondamentalmente anarchico. Nessuno può tenermi in gabbia. Nessuno può mettermi in una boccia di vetro, piuttosto mi do al sushi, a un amante del sushi. E soprattutto va bene chiunque, ma non lui quel piccoletto malefico. Non so perché mi stesse particolarmente antipatico, non me lo ricordo, ma un motivo ci sarà stato. Sai quando uno ti sta antipatico a pesce? No, volevo dire, a pelle, cioè no, a squame, sì, a squame di pesce? Ecco, lui mi stava sulla squama di pesce! La paletta a fendere l'acqua, gli altri pesci immobili, strafottenti, ed io fiu, schuuum, bruuum, fishhh, l'ho scansato una, due, tre volte, poi al quarto tentativo, bruuumfish, ho dimenticato da cosa stessi scappando e lì, proprio lì mi ha fregato. Ora giro giro giro giro in una boccia di vetro. Anche prima ero in una gabbia, penserete, è vero, ma conterà qualcosa, nella vita di ognuno, avere una famiglia, stare insieme a qualcuno che vi ama oppure no? E poi, non ricordo mica cosa ci fosse prima, dove fossi. Ora passerà del tempo prima di riabituarmi a questo nuovo habitat. Tre infiniti secondi. Sarà pure che ho la memoria corta, però io, però io, parò io cosa? Dove sono, che ci faccio qui? Ricordo solo un odore di plastica, e poi questa boccia trasparente in cui mi rifletto tante di quelle volte che mi scopro di volta in volta, quante? Ogni tre secondi. Il tempo di dimenticarmi questo brutto muso rosso e di ritrovarmelo di nuovo appiccicato su questa boccia trasparente riflettente. Sono passati altri tre secondi e mi sembra di impazzire. Sempre lo stesso giro, la stessa boccia, una mano che mi lancia il cibo e questa piantina verde che sa di plastica. Potrei impazzire o o forse sono già impazzito e non me ne rendo conto? Gira e gira e gira e gira. Basta, mi lancio. Ho deciso, un tuffo, un colpo di coda. Basta un salto e fermo questo delirio rotatorio solitario. Sì, un colpo di testa e scopro cosa c'è dall'altra parte del vetro, di questa enorme palla di vita. Dite che morirò? E cosa importa? Tempo tre secondi e sarà tutto dimenticato, puff, zero, vuoto totale. Ecco uno, due, tre ecco... Salve, mi presento, sono un pesciolino rosso e giro giro giro tutti il giorno in questa boccia di vetro che puzza di plastica. Dicono che, a noi pesciolini rossi, la memoria vada via ogni tre secondi, puff, tiri via la spina, e zero, non ricordi più niente, del tipo che mentre sto girando girando girando girando... toh, cosa stavamo dicendo? Non lo ricordo più. |
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