L'ho scritto e qualcuno mi ha risposto cose tipo "Tranquillo, sei perfettamente ricambiato", dando per scontato che io l'abbia scritto come pensiero vero, da paladino dell'odio tinto nell'invidia a prescindere verso l'altro, e non come risposta stantia, già sentita, ironica ad un modo cristiano di fare: a Natale siamo tutti buoni, mentre gli altri trecento giorni e rotti ci comportiamo da luridi pezzi di merda.
Lo hanno dato per scontato, ma ci può stare. Sul web va così. Non è assolutamente un problema. Il fatto è che, nessuno, se non io, potrà mai confermarvi se davvero intendessi che vi schifo tutti proprio assai, oppure no. Perché la fonte va sempre controllata, non a valle, ma appunto all'origine. A valle vi trovate tutta la melma dei mi è parso, mi hanno detto, ho sentito dire, non c'ero ma so per certo che. Cioè sapere quello che è successo dal diretto interessato è fondamentale. Quello che passa nella testa del diretto interessato è fondamentale. Uno fa una strage e si dà la colpa al fatto che vendeva i cd falsi sul rettifilo o che era solito tirare tre quattro jastemme alla moglie perché non gli cucinava mai la pasta e fagioli con la pasta ammiscata, ma sempre con i tubbettielli, quando, in realtà chissà che gli passava per la testa. Tipo come ne Lo straniero di Camus. Per esempio. O forse non c'entra niente. Però, leggetevelo Camus, che è bello. Però, ripeto, chissenefrega. Fondamentalmente potrei schifarvi comunque tutti indistintamente e tranquillamente accettare di essere ricambiato. Perché si sa, ad ogni azione ne corrisponde un'altra uguale e contraria, o almeno così dicono. E quindi, sapendolo, ricambia in automatico. Cioè, io potrei schifarvi solo per paura che qualcuno già mi schifi e allora, a mo' di difesa apotropaica, vi schifo pure io. Che non si può mai sapere. La miglior difesa è sempre stato l'attacco. Sono Zemaniano convinto io. Oppure no, non è vero nulla. Non schifo a nessuno. Sono un buono. Un nuovo Messia volto a porgere sempre l'altra guancia e, di tanto in tanto, quarti di natica, a chiunque faccia il simpatico, l'artista borghese, col suo libro di Erri De Luca sotto al braccio, la chitarra sulla spalla e il portafoglio di papà in tasca, incatenato al passante della cinta con la catenella. Sì, vi amo tutti, ma proprio tutti. Prima e dopo i pasti natalizi. Come un medicinale da prendere per via orale. Pillole grosse così per tenere chiusa la bocca. Non lo saprete mai. Ma se vi siete fermati all'apparenza, nemmeno vi fregherà di sapere se davvero vi schifi tutti quanti, indistintamente, senza fare la differenza tra gli stronzi e i buoni. Perché non si può odiarvi tutti. Siete troppi. Ci vuole troppo una forza di volontà che non ho. Sono pigro io per mettermi ad odiarvi tutti quanti. A qualcuno bisognerà pur voler bene. Qualcuno che non siano i propri genitori, ai quali va spesso il nostro amore incondizionato e corrisposto, ci sarà pure. Qualcuno che si comporta come un cristiano, e al quale augurare Buona fine e inizio anno ci deve essere, per forza. Mentre ci penso, vi auguro indistintamente a tutti, con la gioia nel cuore, per lo stesso principio di cui sopra, e cioè che ad ogni azione ce n'è un'altra uguale e contraria, di fare un 2016 fortunatissimo. Che non si può mai sapere. O no?
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Dopo La nobile arte di misurarsi la palla e Stronzology mi ero ripromesso di non fare più recensioni ai libri di De Silva. Non per qualcosa, eh, ma qua a finire che qualcuno pensa che me ne sono innamorato e allora farebbe bene a gridarmi “recchiòòòò”. Il fatto è che questo libro arriva nel momento del bisogno. Ecco perché la fotografia qui sopra? No, no. Sono solo un idiota e in quanto idiota mi comporto da idiota. “Degenerati - il metodo Cyrano per salvarsi la vita in un mondo di idioti” l’ho praticamente finito di leggere questa mattina, sul cesso, in un albergo di Salierne, del quale si intravedono le mattonelle del pavimento, e, adesso, a caldo, tornato a casa mia, a Napule, ho deciso di parlarvene. Perché vi dico questo? Perché è così che mi piace comunicare qui sopra. Devo darvi le mie prime impressioni, mettendoci tutto quello che mi passa per la capa, più o meno di getto, mescolandolo con le emozioni, le mie, quelle che mi fanno alluccare uà che bello. Di questo libro ne avevo bisogno, anche se non lo sapevo. Per farvi capire, sono giorni - anche prima in macchina, praticamente in loop - che ascolto Keep on Movin’ di Pino Daniele. La canto sempre di gola, fuori dalla mia tonalità, ma con la lacrima che mi scende per forza. Accennandovela, farò un lavoro che farà contento gli amanti delle comparazioni: A trent'anni nun può capì' e vulisse nun munno onesto ma te diceno sempe 'o stesso 'ncoppa 'e sorde 'a gente nun guarda 'nfaccia a nisciuno E a trent'anni nun può capì' 'e canzone te fanno fesso votta 'ncuorpo senza sentì' s'addeventa malamente e quacche vota onesto. Sarà che mi avvicino ai trenta, sarà che a sentire chi “dice sempe ‘o stesso” non ce la faccio più dei “a botta’ ncurpo senza sentì", non lo so, ma quest'è. De Silva riassume quello che ho dentro da giorni, forse da mesi, o anche da sempre. E lo fa con stile, dosando ogni parola, ogni suo pensiero, facendo esempi a iosa, esempi storici, culturali, antropologici. Lo fa prendendoti a schiaffi. Paccheri fatti col cuore, sia chiaro. Perché Amlo, prima, a mano aperta, ti vuole spingere a guardare di lato, poi, con la mano a smerza, ti mostra anche l’altra prospettiva. Il succo è che non si può procedere avanti, con i paraocchi, come i cavalli, o peggio, come un degenerato. Amlo, nel suo vademecum anti-degenerati, in uno stile fatto suo già in Stronzology, cerca di mostrarti lo stato di decomposizione generazionale specificando che, il suo, non è un rimpiangere a capocchia il passato perché si stava meglio quando si stava peggio. No, rimpiange semplicemente l'intelligenza perduta. Ma ora, come farebbe a un certo punto un buon recensore per dare una sterzata al fattariello che si sta raccontando, è il momento di chiedersi chi sono i degenerati? Per spiegarlo, bisognerebbe prima introdurre il concetto di degenerazione; a pagina 82 Amlo scrive: “ è come per la musica: il fatto che adesso si ascolti in mp3, un formato compresso di qualità a dir poco scarsa, e attraverso le asse del pc o dalle cuffiette del cellulare, non è progresso, è degenerazione. Progresso sarebbe, invece, ascoltarla in qualità superiore e più comodamente; ma se dici una cosa del genere sei un vecchio rottame che rimpiange i calepini e i tabarin con le sigaraje”. Essere degenerati è accettare tutto questo e arrabbiarsi se qualcuno prova a mostrarci una prospettiva alternativa che, al 99,99 % è decisamente la migliore o, per dirla alla Amlo, più conveniente. A pagina 75: “A un certo punto a tutti è parso, come era successo per il sapersi vendere, che scendere a compromessi fosse una cosa buona a prescindere. A prescindere da ciò che ti toccava fare per scendere, appunto, a compromessi. […] Però, a un certo punto, l’arte del compromesso, intesa come cedere una generosa fetta di culo al potente di turno, che peraltro non ne ha nemmeno bisogno, è diventata obbligatoria e, il che è anche peggio, di moda: perché una cosa è se ti obbligano i bravi di Don Rodrigo, che quelli sono armati e incazzassi, un’altra e se ti fai condizionare dallo sguardo di disapprovazione della vicina di casa”. E poi a pagina 83: “ La dittatura delle parole ha un motivo preciso: funziona, eccome. Dopo un po’ la gente ci crede e comincia a ripetere a pappagallo, e anzi aggredisce chi non accetta il nuovo significato imbastardito […]”. De Silva non esclude quindi il compromesso. L'importante è che, il compromesso, ci sia. Altrimenti, se cali il capo senza trarre giovamento, di fatto, giustamente, il compromesso non c'è. E quindi, non conviene. De Silva è furbo. Non dice chiaramente che si è fessi ad accettare certi compromessi, o meglio lo dice, ma preferisce, di gran lunga, prendervi con le buone, quasi per culo, quasi con gentilezza, facendovi notare - come dice a pagina 119 - che, fondamentalmente, "chinare la testa e ottenere dei vantaggi non è una cosa che va bene a chi finge, è una cosa, invece, che riesce a chi è. La favola del se abbassi la testa andrà tutto bene, è appunto, una favola, che in genere vi racconta chi la testa non la alzerebbe mai". Tutto questo perché - e qui mi ripeto - il compromesso senza compromesso praticamente non è un compromesso. A che serve? Adattarsi a prescindere è fuori luogo, anacronistico, inopportuno. Non c'è vittoria nel compromesso del 2015. Anzi, si finisce cornuti e mazziati. Come ne Il paradosso Van Houten, a capitolo 17. Capitolo che non vi racconto, altrimenti che diamine ve lo leggete a fare il libro se vi sinosseggio tutto quanto? Vi dico solo che, come in Stronzology, anche qui De Silva ama trarre esempi da I Simpsons. Van Houten, infatti, è il piccolo Milhouse, l'amico di Bart, quello con gli occhiali e i capelli blu. Ma torniamo ai degenerati. A questo punto, chi è il degenerato? Il degenerato è quello che si adegua o, peggio ancora, si sente a suo agio, o peggio, trova normale un sistema che vede strapagati e acclamati coppie di coglioni che stanno su dei troni a far finta di corteggiarsi, mentre c'è gente con lauree e pubblicazioni, capuzzelle davvero brillanti, costretta a sgobbare in un centro commerciale, circondata da stronzi e degenerati, e tutto ciò per pochi euro, il giusto per mettere il piatto a tavola; il degenerato è chi arriva al punto di convincersi che studiare non è affatto importante, che è inutile seguire le proprie inclinazioni e che era meglio se ti imparavi zappatore. Ci stanno riuscendo sul serio a convincerci di questo, rendendo difficile anche fare un semplice esame all'Università, nonluogo anche questo pieno zeppo di stronzi e degenerati. Categorie umane simili, ma che non vanno per nulla confuse tra loro. Un degenerato è sì stronzo nel suo volerti trascinare verso il basso, provando a distruggerti dentro e fuori, ma non è detto che uno Stronzo sia per forza un degenerato. [P.s. Nulla contro gli zappatori, per carità, ma se uno nasce cucuzziello non muore roccocò]; il degenerato è chi sbraita contro un ragazzino che fa un cazzo di gol e si mette ad esultare per la felicità; Ovviamente, questo è un elenco di esempi tutto mio, preso random dal mio flusso di coscienza che cerca di sintetizzare, a suo modo. Ora, qual è la soluzione? Perché deve esserci un metodo per salvarsi da tutto questo schifo, o no? Amlo ce lo dice senza mezzi termini. Bisogna comportarsi da guascone, tenere il capo aizzato, nonostante tutto, toccare con la nostra spada "Compromessi, Pregiudizi, la Viltà e la Stoltezza", proprio come fa Cyrano De Bergerac: Io so che alfine sarò da voi disfatto; ma non monta: io mi batto, io mi batto, io mi batto". [Cyrano De Bergerac - Edmond Rostand ] Ed ecco il mio "mi batto", il mio Keep On Movin di Pino Daniele che, letteralmente, significa continua a muoverti, che fa il 'pari' con il "Dall 'nfacc senza te ferma' di A me me piace 'o blues. Ne l'ipotesi della Regina Rossa ( cito da "Wikipedia") "in riferimento ad un sistema evolutivo, un continuo miglioramento dell'adattamento è necessario per le specie anche solo per mantenere l’adattamento relativo all’ambiente in cui esso si è evoluto ed evolve". Insomma, se si vuole migliorare e/o resistere e/o evolversi per non degenerare, bisogna continuare a muoversi, come dice la Regina Rossa ad Alice in Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Caroll, dal quale è appunto tratto il concetto scientifico: « Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto; se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce di così! » [Il parallelismo mi è stato offerto gentilmente da Michael Crichton, autore di Jurassik Park e L'origine perduta, testo nel quale ho per l'appunto scoperto il concetto "dell'ipotesi della regina rossa" ]. Correre, lottare, nonostante tutto, nonostante o grazie a un naso brutto, bruttissimo; lottare nonostante la povertà. Difendersi con orgoglio e intelligenza, proprio come Cyrano. Perché Amlo ci tiene molto a questa cosa, e ci insiste su, lo ripete senza mai stancarsi: a resistere, non si è mai perdenti, al massimo vinti, ma mai perdenti. Ora, il mio consiglio è di leggervelo Cyrano De Bergerac (traduzione di Giobbe, come consiglia Amlo a più riprese. Amore verso il traduttore che si mostra in maniera commovente lungo tutto il testo), altrimenti non potrete capire Degenerati; ma anche perché Amlo ve lo spoilera tutto quanto. E a buon motivo. Degenerati è sì un una guida su come difendersi dagli idioti ma è, certamente, anche una critica, una guida alla lettura, al Cyrano di Rostand. Una sua interpretazione dei fatti che, a mio avviso, è perfetta. Una chiave di lettura illuminante. Ma vi ho sintetizzato il massimo che mi veniva da sintetizzare, mettendoci - lo ripeto - anche un po' di me, perché a me è così che piace fare. Amlo ha suscitato in me delle emozioni, risate, incazzature, e volevo raccontarvelo così. Così come sono, degenerato a modo mio, degenerato al punto da farmi una foto sul cesso, a Salierne. Degenerato al punto da farmi un'ora di macchina ascoltando Pino Daniele in loop, urlandomi keep on movin' per chi non si stancherà, e correre a scrivere questa mia recensione degenerata, a modo mio. Complimenti a LiberAria, casa editrice indipendente, che offre ad Amleto De Silva la possibilità di fare uno dei suoi aulici, intellettuali e potenti cazziatoni al genere umano in fase di decomposizione. E soprattutto Grazie ad Amleto per la sua commovente passione verso ciò che fa. In un mondo non degenerato, De Silva sarebbe costretto ad insegnare non dico in Università, ma almeno nelle scuole. E sarebbe il maestro perfetto, di quelli che insegna non per mestiere, ma per indole. Per passione. Lettera a Babbo Natale di un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni.21/12/2015 Allora, caro one man show della Coca Cola s.r.l., qui tutti stanno a farti la letterina di Natale e ho pensato, visto che qui nessuno si applica in qualcosa di originale, perché non fartela anche io?
Lo so, sono in ritardo, mancano solo 4 giorni a Natale, però, nientedimeno, pure con Amazon, se faccio un ordine oggi, mi arriva tutto (o quasi) antro il 25: Quindi, tu, se non vuoi perdere il posto, devi per forza darti da fare. Ad ogni modo, lo sai che ho creduto a Babbo Natale almeno fino alla quinta elementare? Da come sono cresciuto, qualche maligno direbbe "e si vede"! Cioè, non è che ci credessi ancora eh. Sapevo bene che non esistessi. Sai, a quella età i bambini sono crudeli, crudelissimi. Se sanno qualcosa, devono a tutti i costi dirtela. Per saccenza e crudeltà. Quindi, sapevo tutto. E già da molto tempo. Sapevo bene che non eri altro una fottuta invenzione, e che non potessi avere tutta quella gente a lavorare per te come sosia sostituto durante le fotografie nei centri commerciali. Nessuno si metterebbe ad assumere tutto quel personale, tra stipendi, tasse, doppie, contributi eccetera eccetera. Lo sapevo bene. Però facevo il fesso per non andare in guerra. Pensavo, come tanti altri bambini: " e se ora che so tutto, non mi faranno più i regali"? Ad ogni modo, era facile capire che non esistessi. A parte il fatto delle assunzioni - a pensarci poco esose, perché di fatto sono contratti brevi a prestazione (dal 1 al 25 dicembre) - , non è normale essere così chiatti senza avere problemi renali, cardiovascolari, posturali, alimentari e riuscire, ciononostante, a girare il globo in una notte sola. E poi, dai, pure tu, la storia delle renne volanti è insensata oltre che stupida: come si fa a credere che delle bestie riescano a trascinare slitta, il tuo pancione e un sacco pieno zeppo di regali di numero infinito, senza che nessun animalista ti venga a rompere i coglioni con denunce per maltrattamento degli animali? Impossibile. Ad ogni modo, a 27 anni, faccio finta di crederci e ti faccio questa letterina, sperando da te il funzioni bene il router, non come a casa mia che, da quando abbiamo messo Telecom, non si capisce più un jingle bells. Caro Babbo Natale, innanzitutto fa che la Telecom risolva i suoi problemi e si degni di darci un servizio dignitoso, così possa condividere quanto prima questa lettera con i miei lettori. Dopodiché, fa che Putin e Obama non si appiccichino mai, che qui teniamo altro a cui pensare, e non possiamo stare dietro alle loro cerevelle. Fa pure in modo che, laggiù, in medioriente, si trovi una soluzione. Quale? E non lo so, sei tu il mago in queste cose. Fa presto però, che sennò, quei due di cui sopra non ci mettono niente a trovare una scusa a volo a volo per darsele di santa ragione. Sai, può darsi che quest'anno il Napoli vinca lo scudetto, ed io vorrei poterlo vedere, caro Babbo di rosso vestito. Lo so, queste sono preghiere che un occidentale, cresciuto in una cultura cristiana, dovrebbe rivolgere a Dio o a Gesù Cristo, ma ho fatto la conta e, dopo un pari e dispari, tra i personaggi della fantasia, hai vinto tu. No, no. Per carità. Ci credo in Dio, sì. Io sì, a modo mio, ma sì. Non è ancora venuto nessun bambino adulto crudele e saccente capace di convincermi che siamo solo frutto di una coincidenza del cosmo, un bing bang esagerato che ha rotto il profilattico sulla via lattea. In Gesù, però, non lo so; è una personalità che non mi convince. Questa storia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, delle passeggiate sull'acqua e di questo amore sconfinato verso il prossimo, sempre e comunque, da porgere guance come se non ci fosse un domani, mi sa tanto di canzone scritta da Jovanotti. E poi, Ok figlio di Dio, ma ha pur sempre avuto sangue umano, ed io negli uomini ci ho sempre creduto poco. Comunque, tornando a te, Caro Babbo Natale, vorrei che la gente la smettesse di dire che ho fatto la pancia, che dovrei trovarmi un lavoro serio e togliermi gli orecchini, che dovrei sposarmi e fare dei figli, che mi dice come dovrei scrivere le mie canzoni e le mie storie. Però, visto che - secondo me - è impossibile zittirli a suon di buon senso e logici fatti i cazzi tuoi, sterminali tutti direttamente, così facciamo prima; e lasciami solo con quelle 10 12 persone con cui condividerei questo pezzo di mondo. Quindi, a pensarci, caso mai, lascia che Putin e Obama se la vedano tra loro. Scherzo, scherzo. Peace & Love for ever. Voglio fare il simpatico a tutti i costi. Lo so che non ci riesco, non ne sono capace; è che non mi viene facile dire porta la pace nel mondo o fa che tutte le persone buone e quelle amo stiano sempre bene. Cioè, a scrivere una cosa simile rischierei una denuncia per plagio da Jovanotti. [- Ce l'hai proprio con Jovanotti? - No, dai, scherzo, è un bravo ragazzo. Peccato si sia messo in testa di scrivere le canzoni. - Però dai, c'è di peggio. - Tipo? - Laura Pausini.] Caro Babbo Natale, vorrei avere qualcosa da chiederti ma, fondamentalmente non so proprio che dirti. Le cose che voglio devo sudarmele giorno dopo giorno e, stare qui a chiederti di esprimere desideri è inutile. Questa fa il pari con quella fatta a Mattarella. Anche in quel caso scrissi un papiello di roba senza però sapere dove voler apparare. In fondo, cosa potrebbe chiedere, potesse esprimere desideri esaudibili, un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni, in un'epoca in cui nulla è certo, se non che domani mattina tua un povero cristo correrà più veloce di un'altra povera crista per portare un caffè a una Maria De Filippi qualsiasi, per compiacersela? Certo, esistessi sul serio, penserei di chiederti, per esempio, più sicurezza e di essere meno ipocondriaco, ma mi risponderesti che, più di te, farebbe meglio uno psicologo, uno bravo. Quindi, Caro Babbo Natale, ti chiedo solo una cosa, che tu esista oppure no: facci passare a tutti quanti un Natale come si deve e, soprattutto, fa iniziare l'anno nuovo meglio di come hai fatto iniziare il 2015, che quest'anno ci ha rotto un po' le palle. Con affetto e devozione, un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni. Buon Natale a tutti. Il Gallo Canterino. "Uno dei problemi che ho è che non so farmi voler bene, tipo come fanno gli altri. Il fatto è che io riesco a stare bene anche da solo. Magari con un libro e con una sigaretta, ci stavo pure bene.
Dico stavo, perché adesso non fumo nemmeno più. Deve essere così. Il problema è che ho smesso di fumare e i libri non si leggono in compagnia. No, non è questo. Altrimenti non mi spiego com'è che le persone si dimenticano facilmente di me nel giro di una sigaretta". Teneva le mani scorticate dall'allergia. Una specie di dermatite, le avevano detto. Il freddo avrebbe potuto acuire il dolore e, addirittura, le sarebbe potuto anche uscire un po' di sangue. Non fu il caso di quella sera, per fortuna. Non se l'era mai curata a dovere, la dermatite, anche perché riusciva comunque a suonare senza grossi fastidi. Sì, ok, le mani si erano fatte brutte, ma non le era mai importato. Pensava, pensava, pensava. Il suo problema era questo: pensare e troppo. Pensava a cose impensabili e dimenticava l'essenziale, il contingente. Tipo quella sera aveva dimenticato di tutto. Accordatore, il jack buono, il plettro porta fortuna. Aveva imprecato. Un amico, anche lui musicista, le aveva dato un paio di plettri che si portava sempre con sé, nel portafoglio, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Era una sua follia quella. Una mania centuplicata in fatto di fissazioni. Nonostante fosse stata sempre un tipo dalla testa quadrata, solitamente razionale, chissà perché, credeva nei portafortuna. Sarà che non ne ha mai avuta tanta e, anzi, qualsiasi cosa potesse usare per scaramanzia, tendeva a tenerselo stretto. Tipo come quella bic con cui aveva firmato la convalida del suo primo trenta e lode. Anche se non scriveva più, se non aveva più inchiostro, quella penna doveva restare sempre con lei. E basta. Queste cose le servivano come riparo dal mondo. O per sentirsi più sicura. O un po' l'una e un po' l'altra. Oppure sapeva fosse tutta una grande cazzata, però così le andava: come a non voler spostare nulla, come se a togliere questo e mettere quell'altro, si rischiasse di cambiare l'ordine delle cose al cosmo. E a lei, le cose, andavano già di merda. Non come quello lì che si era seduto di fronte a lei, vestito in stile trasandato ma per finta: scarpe firmate e barba curata. Addosso aveva un qualcosa come 300 euro. Poteva avere sì e no la sua stessa età. Le venne da pensare che, quei soldi, lei se li guadagna tanto amaramente che ci pensa due volte prima di spenderli nell'abbigliamento. "Ma no, Che ne sai tu? Ti fermi all'apparenza? Magari le scarpe gliele hanno regalate per la laurea e il padre si arrangia come può, e magari lui sta pensando di me più o meno le stesse cose: magari che io sono una sfigata, la classica figlia di papà che si è messa in testa di fare la cantautrice, chissà". Attenzione. Non è che avesse qualcosa contro chi ha avuto la strada in discesa, e quindi più fortuna di lei: soldi, agio, amicizie, parentado, raccomandazioni eccetera eccetera. No, ve lo giuro, posso garantire io per lei. Il fatto è che ha sempre avuto un tifo spontaneo verso chi suda ogni giorno per conquistarsi qualsiasi cosa: un libro, una chitarra, un paio di scarpe, le sigarette, quel corso di musica d'insieme, un piccolo spazio di mondo. Non era contro di loro, verso i più fortunati. No. Forse aveva ragione la madre a dire che, questo suo atteggiamento caritatevole, le veniva direttamente dalla cultura cristiana, ormai infiltratasi sotto l'epidermide del suo inconscio e blablabla. Ma no. Riconosceva i suoi sacrifici e, anche se non aveva ottenuto tantissimo, o forse proprio per questo, aveva stima in chi, come lei, non si arrendeva di fronte alle difficoltà. "Siamo il bene, noi. E il bene vince sempre", aveva detto una volta ad un amico, dopo il terzo bicchiere di vino. "Amo gli ultimi e impazzisco per chi inizia a correre dopo gli ultimi, e non perché gli ultimi saranno i primi e così sia, ma perché, nonostante il tempo perso, nonostante davanti a loro ci sia tutta quella fila, non se ne preoccupano e, anzi, alla fine, avranno gambe e pancia più forti di tutti gli altri, perché hanno dovuto marciare il doppio. E, attenzione, non per recuperare sugli altri, ma su loro stessi". Quando lo disse, era al quarto bicchiere. Da ubriaca, le cose le sembravano avere una loro acquietante logica. Da sobria, si svegliava con la sensazione di aver passato la nottata a dire cose stupide, o almeno a dire le cose che dicono le persone stupide. Cercava di darsi delle motivazioni. Il più delle volte queste motivazioni sapevano di scuse. Giustificazioni al fatto che, di fatto, alla sua età, non avesse nulla tra le mani. Se non una chitarra a cui teneva molto, accordata ad orecchio, e un plettro che le aveva prestato l'amico. Stava per iniziare la serata. Nel locale non c'erano tante persone. Cinquanta scarse. Però, alcune erano venute a posta per sentire lei. Iniziò a cantare, e non ci pensò più. Alla faccia della scaramanzia e delle mani rotte. Al primo, al secondo e al trentesimo ascolto credo di poter dire che "Fate, Sirene e Samurai" sia di una bellezza unica e genuina. Ma prima di andare al nocciuolo della discussione, devo per forza fare un paio di premesse, forse tre. a) questa è la prima recensione che faccio ad un disco sul mio blog; b) Tommaso è un amico, gli voglio bene, ma non è per questo che ve ne parlo: mi conoscete abbastanza da sapere che quando vi parlo di qualcuno e dei suoi lavori lo faccio col semplice entusiasmo di chi ha conosciuto una cosa bellissima e vuole ad ogni costo presentarvela; c) quella che leggerete qui sotto, non sarà una critica da 'ascoltatore', ma da 'lettore'. Già, perché non potrei mai mettermi a giudicare arrangiamenti, sonorità e blàblàblà. Oddio, potrei anche, eh, ma del cant-autore, per indole, percorsi di studi, maniacalità ed eccetera et eccetera, ho sempre preferito di più, fino all'analisi cervellotica, la parte autore a quella cant-. Quella di Tommaso è una penna felice, in tutti i sensi. Già, perché oltre al fatto che, ad ascoltarlo, ti mette addosso la voglia di sorridere sempre - cosa non tanto solita ai cantautori - ti rendi conto che c'è, nel suo creare, voglia di artigianeria, ricercatezza e letteratura. Tommaso racconta storie è vero, e lo fa alla maniera di Basile o Pennac o Sepulveda. Tra il motto morale e la fatagione. "Se dice ca po Vommero ce steve, na fata cu na veste a fronne 'e rose" Racconta, insegna, emoziona. I protagonisti non sono orchi e animali, ma donne vestite da fate, uomini camuffati da Samurai, Super Sayan e Peter Pan. Sì, perché gli eroi di Tommaso sono gli eroi dell'infanzia e dell'adolescenza di tutti: si guarda al passato, ma è il presente il suo punto di riferimento costante. Quella che racconta è un' umanità magica che deve e che fa fare i conti con la quotidianità. Squilli di tromba, samba, cartoni animati, astronavi e colori, per difendersi dalle salite, dalla gravità, dalle dune, dai quartieri e dai veleni buttati addosso alla nostra terra. Tommaso racconta con dolcezza e ti invita all'ascolto attento, quasi come se ti desse la mano e ti aiutasse a sederti proprio di fronte a lui; come quando canta, con voce quasi fanciullesca e romantica, "Amico mio, piglia nu foglio 'e nu culore e scrive ammore"; oppure come nel ritornello di "Viola", ragazza dagli atteggiamenti naif, tradita dai suoi best del quartiere, finita in galera, e non per questo è meno amata da un anonimo e tenace corteggiatore che - nonostante tutto - come un nostrano e contemporaneo Florentino Ariza, canta, alla sua Fermina Daza dei bassi, "comme o' pappece 'e a noce, primma o poje m'ha spose". (Restituendo dignità e alla musica napoletana d'autore quel vecchio motto partenopeo maltrattato dalla musica neomelodica). La narrazione ti abbraccia, parola per parola, ti consola. Anche quando, in Bumba Meu Boi, ti racconta di un popolo messo in croce, trovi la forza di sorridere, con una canzone, e andare avanti per quei nippole 'e povere 'e case. Se ci mettiamo poi che Tommaso Primo dà il giusto valore al dialetto napoletano, trattandolo davvero come una lingua, allora stiamo parlando davvero di un bel lavoro, che supera le soglie del mero ascolto musicale e varca il campo della letteratura. Il Napoletano di Tommaso è un miscuglio di tradizione e contemporaneità. Come nel caso - per esempio - della preposizione di: in base alla metrica o, in maniera particolare, alla sensazione che deve ispirare il brano, il nostro alterna o meglio accosta - anche nella stessa frase - la forma classica de a quella più moderna "aferesizzata" 'e ( "na rattata de scorze 'e luna). Il dialetto è cosa sua e ci sguazza allegramente, senza allontanarsene mai. Lo utilizza consapevole di avere a disposizione una faretra piena di frecce. Apparentemente, la presenza di tante parole tronche, come la lingua napoletana, renderebbe facile il gioco metrico e l'uso della rima, tuttavia è proprio qui il rischio più grande per chi sceglie di scrivere in napoletano: la banalità. Sì, l'ispirazione è un elemento importante, imprescindibile per chi vuole scrivere. Stessa cosa vale per il talento e la capacità di emozionare, tuttavia se non conosci i tuoi arnesi e non sai dove attingere, a che materiale fare affidamento, rischi di semplificare le tue stesse emozioni fino alla banalizzazione. Tuttavia, Tommaso non ci casca mai e, anzi, per dare vivacità ai testi e, in generale ad un dialetto forse fin troppo anchilosatosi a causa dei frequenti prestiti dall'italiano, ripesca futuri e condizionali ormai in disuso (riciarragge, vurria), parole e pillole linguistiche della nonna ( fronne, pupata, schiumme), elementi enogastronomici della tradizione ( taralle, cocozz ), e perciò riesce a far rima con qualsiasi cosa. Il dialetto usato da Tommaso è per questo vivo, vivace, nuovo e comunque attaccato alla tradizione, senza lo stantio già sentito del folklore. E poi, a parte tutto questo, a me il disco è piaciuto tanto. Ne sono entusiasta e per questo ho voluto raccontarvelo, a mio modo, attraverso i miei occhi, le mie orecchie e le mie sensazioni. Sarei potuto andare nel dettaglio, canzone per canzone, citare scrittori a iosa, ma alla fine, la musica è musica e s'adda sentì. Ecco. Fare un titolo del genere è quello che ci vuole per aumentare i followers.
Si dice così, no? Si fa così, no? Subdolo e volgare? Sempre meglio del "Morto anziano in pieno centro SCOPRI COME". E poi è provocatorio, un modo per dire un'altra cosa. Alla fine cos'è successo? Dei ragazzi hanno scaraventato a terra un albero di Natale. Come l'anno scorso. E l'anno prima. E l'anno prima ancora. Cosa c'è di strano? Qualche mese fa, è stato sfasciato il pianoforte a Piazza Garibaldi e dopo neanche una settimana è stato rimpiazzato da un altro, grazie a una donazione anonima. Ora, per l'albero, capiterà la stessa cosa. Verrà aizzato e messo a posto nuovamente, e tutti torneremo a correre nei negozi (chi può permetterselo) per fare regali - pure a chi ci sta sul cazzo - acquisti, preparativi e taggare il mondo intero su fotine del cazzo augurando buon natale anche ai nostri peggiori nemici. Così, per carità cristiana. Giusto perché, a Natale, siamo tutti più buoni. [Puff, magia. Come se nulla fosse successo] Una cosa resta però: il fatto che, se qualcuno ci viene a dire che la città ha dei problemi; la regione sta nella chiavica a causa della corruzione, dell'infiltrazione camorristica finanche dentro le unghie dei piedi; ci pigliamo collera e puntiamo il dito contro tutti, additandoli come detrattori, sputtanatori, leghisti razzisti nazisti. Rispondiamo loro ma tanto noi abbiamo il caffè, la pizza, i turisti al centro storico, il mare e abbiamo inventato il bidè, però poi, se capita che dei vandali - così come ce ne sono a Milano, Roma, New York, Tokyo, Londra, Hong Kong e Disneyland - distruggono un albero di Natale il 'commento' più usato - almeno questo è quello che mi è parso di notare - è "Siamo una città di Merda", "siamo i soliti Napoletani". Ora, chi mi conosce, sa che sono il primo a non essere tanto buono con la mia città. Questo mio atteggiamento molto critico, anche se molti non lo capiscono e/o non lo approvano, è puro atto d'amore. Riconosco alla mia città delle qualità incredibili, e proprio per questo mi incazzo ancora di più quando - troppo spesso ahimé - le cose vanno a cazzo di cane: e non c'è bisogno che vi elenchi cos'è che non va. E mi incazzo così come quando " il ragazzo ha talento, è intelligente, ma non si applica e anzi, si lascia trascinare dai ragazzi più turbolenti della classe". Ora, quell'albero è caduto e - a quanto pare - è tutta colpa di questo Dna di sfaccimma che ci fa tutti ladri, camorristi e vandali. Mannaggia a te. Ed io che pensavo fosse tutta colpa della società distratta, che non si accorge dei suoi pargoli meno fortunati, che si atteggiano a guappi, e che non vedevano l'ora che qualcuno appagasse la loro fame di protagonismo con una serie di articoli che - a rigor di informazione - si sono moltiplicati a sciorda di leopardo dopo una cena vegan al centro storico. Sì, forse è vero che i Napoletani sono un po' una merda: a) quando si offendono a cazzo di cane, senza andare oltre il "virgolettato", non rendendosi conto che - forse forse - certe cose veramente fanno schifo e andrebbero aggiustate, po' dopo facciamo i conti con chi ci critica a cazzo; b) quando troppo facilmente puntano il dito ( "Sono i soliti napoletani di merda"), senza rendersi conto che così si crea ancora di più la differenza tra nord e sud, ricco e povero, alto e basso, dolce e salato, Goku e Vegeta; c) quando, visto e considerando che è una cosa che succede tutti gli anni, potrebbe essere più facile tenere controllata nu pucurillo de cchiù la zona. Visto che lo sai, e che sfaccimma, stai attento! Potrebbe darsi che ci facciamo pure una bella figura ad acchiapparli in flagrante e magari educarli al fatto che no, non è cosa buona e giusta fare gli scemi. Ma fondamentalmente, che me ne fotte a me? È solo un albero di Natale. Basta rialzarlo. Così tutti si dimenticano tutto e tornano a prendersi il caffè di fronte al Vesuvio. Zan zà! Hanna Arendt, nel 1963, pubblicò per la prima volta un saggio dal titolo "La banalità del male", un testo davvero interessante che descrive.... no.. no... non mi pare il caso di mettermi ora a riassumere quello che c'è scritto dentro a questo libro bellissimo. I riassunti sono il male del mondo. Cercatevelo, leggetevelo e riflettete. "Che è meglio!", esclamava quattrocchi. D'altronde, e ve lo dico ammiccando, farlo, non può che farvi bene. Quello che voglio dire è che ci sono delle logiche talmente sceme, ma talmente logiche - anche se sceme - che inevitabilmente si ripetono in ogni contesto. Aspe', per farvi capire quello che voglio dire, mi sa che una piccola sintesi di quello che ha scritto la Arendt, o almeno il concetto che ho preso in prestito, interpretandolo a modo mio, devo farvela. [Riassuntino parziale: Adolf Eichman, gerarca nazista, fu processato a Gerusalemme per quello che aveva fatto durante il nazismo conto gli ebrei. Ok? Sapete cos'hanno fatto i nazisti no? Bene, cioè male. O meglio, bene che sappiate la storiella. Alla fine del processo - per farvele breve brevissima - ne venne fuori, secondo la Arendt, che i mali perpetrati da Edolf Eichman ai danni del popolo ebreo non furono causati da una malignità insita nel suo codice genetico e/o da una volontà scritta e sottoscritta consciamente, ma da una totale inconsapevolezza dei propri comportamenti. Cos'era successo? Lo stato nazista, coi suoi Hitler, Goebbles ed eccetera eccetera aveva talmente rincoglionito il popolo che, per alcuni di questi, odiare, offendere, uccidere, sterminare centinaia di migliaia di persone fosse una cosa normale, giusta, lo chiedeva lo stato, lo ordinava l'etica, lo pretendeva il manuale delle giovani marmotte. Tutto rientrava nella routine, come scendere e buttare la spazzatura, fermarsi al rosso, augurare una buona giornata al prossimo per educazione o votare per il PD. Azioni incondizionate, normali, quotidiane, banali, cretine. Fondamentalmente, Eichman, poi giustiziato a morte, non aveva fatto altro che eseguire gli ordini del proprio governo: da carnefice a vittima. Proprio per questo - e spero di non aver riassunto troppo malamente il tutto - si parla di banalità del male. Un male banale, sciocco, stupido, come quello dei bambini non ancora pronti o non ancora educati a distinguere cos'è giusto e cos'è sbagliato, e per questo si mettono a credere a tutto ciò che la mamma e il papà gli raccontano. O come chi nasce in famiglie disagiate, di criminali, e troverà giusto, giustissimo, o per l'esattezza normale, crescere secondo sistemi paralleli. La storia delle ombre e della caverna di Platone eccettera eccetare: siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, ma anche delle esperienze e dei contesti in cui nasciamo e cresciamo ]. Ora, cosa voglio dirvi io? Una cosa che può apparirvi banale, forse. O forse, di fronte a questa questione, non siete per nulla queruli, né vi mettereste a fare la questua, di porta in porta, per elemosinare pareri. Piuttosto ve ne fregate. Ecco, quello di cui vi voglio parlare è questo: La Banalità del Brutto. Attenzione! Non voglio fare processi o erigermi a giudice, condannando Tizio, Caio e Kekko dei Modà. Assolutamente. La banalità del brutto, nel 2015, è un fatto evidente: la forte specializzazione settorializzazione frammentarietà nei campi lavorativi ha inevitabilmente specializzato settorializzato e frammentato la conoscenza, e questo è sotto gli occhi di tanti, di tutti; non è un processo nato ieri, o l'altro ieri o in vigore dal '94: un laureato in lettere ne saprà poco o quasi niente di fisica quantistica. Oppure, se ci trovassimo all'improvviso catapultati, come Troisi e Benigni, nel 1400 quasi 1500, non sapremmo com'è che si crea dal nulla una semplice lampadina. Che ci azzecca tutto questo? Calma, calma. Statemi a leggere... Ora, trasportiamo questo concetto in qualcosa di diverso. Che ne so? L'arte. In tutte le sue forme: visiva, invasiva, visibile, risibile, danza, canto, letteratura, poesia e blàblàblà. Sì, lo so, c'è la storia che de gustibus non disputandum est, ma è vera solo a certi livelli e a certe condizioni, altrimenti è una cazzata. Credo sia inevitabile: i gusti sono influenzati da una serie di fattori che agiscono in compresenza: istruzione, luogo di nascita, cultura, sensibilità, estrazione sociale, emotività-emozioni. Entro in una galleria di quadri e non ci capisco niente o quasi. Ogni Annunciazione mi sembra una copia o una rivisitazione delle altre, del tutto impersonali. Può darsi, forse no. Sicuramente no. Apro un libro di Storia dell'Arte e ci capisco qualcosa in più. Forse. Certo, c'è stata una post-struttura cirtica argomentativa interpretativa ergomentativa all'opera, magari quasi certamente lontana anni luce dalla volontà stesso dell'autore, ma almeno ci capisco un po' di più in termini di pennellate, prospettive, proiezioni e vattelapesca. Beh, certo, ci sono forme di espressioni estreme dove l'io è talmente gonfio, gravido, pieno di sé che ogni forma di artigianeria va a farsi benedire e sulla parete non vedi altro che - quando ti va bene e non ti trovi di fronte a un semplice foglio arancione - chiazze di colori che, per te, saranno anche belle, per le quali l'audioguida ti darà pure una serie di motivazioni, ma che ti danno comunque la sensazione che stiano lì un po' a capocchia. Come questa cosa che feci quando tenevo diciotto anni. Fa cagare, indubbiamente.
Venuto fuori da un pasticcio di colori, potrei tranquillamente trovarvi un significato. I colori chiari ma ben definiti da linee geometriche e linee spaziali, lungo la perimetria dell'opera, rappresentano il rapporto dell'artista con l'esterno: maschere, pose e posizioni da assumere per le occasioni. Sono la routine, la catalogazione delle emozioni, il mostrarsi così come ci aspettano gli altri. All'interno, al centro del dipinto, i colori vanno a disporsi apparentemente in maniera caotica uno sopra l'altro, generando sfumature per lo più tendenti allo scuro, quasi a voler rivelare, nell'inconscio, o nel substrato emotivo dell'artista, un animo più introspettivo, potremmo dire: in lotta con se stesso. Gli occhiali, dipinti successivamente, direttamente sulla tela, quasi come fossero un oggetto superficiale, inquipollente rispetto al contesto emotivo interiore, rivelano una comunque necessaria comunicazione verso l'esterno, come a voler/dover per forza porre uno sguardo verso il mondo delle carni, del sangue, dell'esperienza. Viceversa, potremmo anche dire che le forme e i colori, al centro dell'opera, sono proprio frutto di questo sguardo verso l'esterno. Il mondo, pieno di angosce e agghiaccianti mastodontiche metastasi, passa attraverso lo sguardo dell'artista che non può fare altro che incamerare nell'animo, per poi trasportarlo sulla tela. O sono forse come gli occhi di Dio che, da fuori, osservano l'universo di dentro? Forse non lo sapremo mai. O forse è solo una supercazzola. Chi lo sa. Bene. Dopo questa lunga cazzata e dopo avervi mostrato la mia opera d'arte, continuiamo la nostra dissertazione, che la pittura - ad ogni modo, d'altronde - risponde a logiche forse un po' diverse dalla 'canzone' e dal 'libro'. Quello che voglio dire, in generale, è che non siamo più educati a ri-conoscere il bello e accettiamo per buono tutto ciò che ci viene propinato. Come i tedeschi col nazismo. Certo, ci sono degli animi gentili e sensibili predisposti a percepirlo naturalmente, talenti acchiappa bello, mentre altri invece sono disposti solo alla chiappa bella, ma questo è un altro paio di maniche. Non è stancante per voi sentire canzoni che girano sempre sulle stesse strutture armoniche, sugli stessi standard compositivi, sulle stesse logiche stilistiche? Probabilmente nemmeno ve ne accorgete e non è neanche colpa vostra. A scuola non vi hanno dato altro che una diamonica, forse un flauto, e vi hanno insegnato a suonarci la colonna sonora del Titanic. La musica, come la lettura, è stata ridimensionata - in termini scolastici - a momento ludico. Colpa del sistema scolastico, degli studenti, della società, dei docenti, non lo so, non mi interessa e forse non nemmeno i mezzi per approfondire la discussione, tuttavia è evidente. Arriverà un giorno che non saremo/sarete più abituati ai Queen, o a un testo di Gaber, o a una perfetta distribuzione metrica delle parole in un brano di De André. Arriverà il giorno in cui li ascolteremo, forse non più di trenta secondi, e non ci piaceranno. Arriverà il giorno in cui non sapremo nemmeno più chi sono. Arriverà il giorno in cui Hemingway... Hemin chi? Apocalittico? Tragico? Insomma. Vi faccio un esempio, un altro, che è anche una confessione. Fino al secondo superiore, cioè fino a quando la buonanima di mio zio non mi ha regalato la chitarra obbligandomi a prendere lezioni - che pure qualcosa dovevo farci con sta cosa in mano - per me, il più grande cantautore di tutti tempi era Gigi D'Alessio. Lo dico senza vergogna. Possiamo discutere sul fatto che alcune canzoni possano anche essere piacevoli per voi, per qualcuno. Possiamo discutere su tutto quello che volete, ma resta il fatto che di certo non è il più grande cantautore di tutti tempi. Per qualcuno è cibo per Morandi. [Che poi non si tratta di chi fa cose migliori. Non si tratta di competizione. L'arte è espressione, ma anche lavoro artigianale. E c'è chi lo fa inseguendo la scia del bello, pure ipotetico, pure utopico, pure impossibile, ma comunque del bello. E chi lo fa, viaggiando nei sottoluoghi della schifezza cosmica. Tutto qui. ]. Ad ogni modo, avvicinarsi alla musica, studiarla, fa capire le logiche, certi gioghi che sottendono alla composizione. Ora, non voglio dire che, solo perché mio zio mi ha regalato una fottuta chitarra quando tenevo sì e no 14 anni, allora sono migliore di voi o che i miei gusti siano imperfettibili per costruzione perché già perfetti ma, più che altro, quello che voglio dire è che il gusto di ciascuno è per l'appunto perfettibile: è il motivo per cui a 30 anni non leggeresti quello che leggevi a 20. Non perché a 20 anni eri un idiota, semplicemente il gusto è cambiato, si è raffinato, sei cresciuto; o anche: è il motivo per cui una canzone come "Nu Latitante" di Tommy Riccio non potrà mai emozionarmi. Non appartiene al mio modo di vedere la vita. Non ho la concezione del 'latitante' poverino non può dire che è innocente telefona la madre solo per dire "domani è Natale vorrei tornare" Di fronte a certe creazioni, non sappiamo come reagire. Il mercato musicale prodotto dalle case discografiche - l'avete notato tutti, no? - è volto solo al profitto, quindi a mettere in circolo materiale che possa andar bene per la massa, quindi - seguitemi bene - privando al creatore e all'ascoltatore il gusto dell'individualità, la masturbazione e l'orgasmo dell'amplesso produttivo. L'emozione che trae il fruitore da un'opera d'arte - che estremizza e universalizza l'emozione del creatore - dovrebbe essere particolare, unica, speciale. Ma cosa succede se uniformiamo le conoscenze e le emozioni? Il particolare, la follia, l'unicità, l'idea nuova, la sperimentazione, l'illuminazione del genio, lo studio evolutivo della materia e quindi l'evoluzione ci diventeranno difficile da capire e quindi, probabilmente, brutto. Che senso ha l'artista, la sua unicità fatta di sistemi complessi - conscio inconscio fisime mentali - se un brano è firmato da dieci e dico dieci autori? Se tutte le canzoni sono uguali e noi non ce ne accorgiamo, non è la morte del senso critico, della scelta e quindi del gusto, e quindi della libertà? [Ma ad ogni modo il mio è giusto un esempio. Si studia e si impara per conoscere e conoscersi meglio. E, attenzione, non sto parlando che gli ascolti rilassati, non impegnati, debbano essere per forza brutti. Anzi. Ma come fai a non ammettere che ad avere tutte le frecce conoscitive nella tua faretra è meglio, molto meglio? Come fai a dire che Tiziano Ferro ( uno che a me non dispiace assolutamente) è il tuo cantante preferito se non hai mai sentito tutta la discografia - che ne so, per dirne uno - di Pierangelo Bertoli? E questa è già una particellizzazione del mondo musicale. Prima di Bertoli ci sono centinaia di anni di composizione]. Per carità, non voglio prendermela con la "One direction" generation, ma la logica Pop(ular) esce dai confini artistici-artigianali e diventa mero consumo uso e getta, trasformando il tutto in un tutto uguale, pattume di piattume. Sempre lo stesso. Strofa ponte ritornello. Special. Possibilmente, anzi, perentoriamente, il ritornello va messo dopo nemmeno un minuto. È la semplificazione massima dell'atto comunicativo, la neolingua ridotta all'uso ripetitivo di schemi, respiri, sorrisi e babbonatale che si è messo il giaccone rosso perché glielo ha detto Mr o Mrs Cocacola. Marò, mi so perso. Come mio solito. Non mi ricordo manco più che cazzo stavo dicendo. Va be': È la banalità del brutto, ve lo dicevo. [Ma poi, alla fine, il bello cos'è?] |
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