"Quello che non si fa in una vita, lo si fa in due giorni". "Quando meno te l'aspetti". Me lo dice mammà, guardandomi seduto sul divano, con la pancia da fuori e l'indice intento a togliere il nippolo dall'ombellico, mentre mi guardo le repliche di Ossì ( che non è un interiezione da film porno... Ossì sta per O.C. ovvero Orange Country, non un emoticon fatta col t9 mentre sei alla guida mezzo ubriaco). Insomma, con queste parole, cosa vuole dire mammà? Che per il figlio laureato che s'atteggia ad artista, prima o poi arriverà pure un lavoro serio e si troverà, all'improvviso, sposato, con tre figli e il bastardino mezzo volpino mezzo non si sa mai cosa. O no? "Cioè, quello che non si fa in una vita, lo fai in due giorni" Appunto. Per un mese sano sano non ho scritto un cazzo, vi ho detto che avrei concluso Aprile con sole due pubblicazioni, e mo, invece, ho un altro post e un po' di tag da fare... Muahahahahha (tono diabolico) Comunque, voglio raccontarvi un fatto. Ieri pomeriggio, ero a piedi, quando sono passato fuori ad un negozio. Voi direte, embè? Che c'è di strano? Statemi a leggere. Allora, in questo negozio, una merceria, io ci ho lavorato per sei mesi sei anni fa. (Sei per sei trentasei e con un altro sei facciamo il messaggio demoniaco iperinconscio). Ogni volta che ci passo, saluto il mio vecchio caro datore di lavoro, il signor Carlo. Perché lo faccio, vi chiederete? Embè, la risposta è semplice: per simpatia, per educazione, per gratitudine. Era uno di quei lavoretti che facevi mentre studiavi. Quelle cose a nero sì, ma leggerine del tipo ottanta euro a settimana, turni ragionevoli, dalle 9 alle 20.00, sei giorni su sette,e.... e poi caricavi e scaricavi il camion, accoglievi e sbrigavi i clienti, per lo più donne un bel po' avanti con l'età, - “uagliò 'e cazett cinguanta den 'e tien”? -, andavi a fare le consegne, che il più delle volte significava portare dieci kg di cartaigienica, buste dash e assorbenti doppio velo alla signora del palazzo senza ascensore, al quinto piano di Via Lontanodagliocchi. E la signora, la mancia, non te la dava mica per così poco. Roba da far venire nella mutanda per l'eccitazione a qualsiasi sindacalista, costretto poi a strappare una pagina della copia del Manifesto di Marx, portata solitamente con onore sotto al braccio, e usato, in questi casi, per pulirsi alla meglio. Però, per carità, Carlo è un brav'uomo. E' che a Napoli, in generale in provincia, vanno ancora di moda questi lavoretti vintage, stile ebrei in Egitto, prima di essere Esodati. Poi, in fin dei conti, era curiosamente educativo lavorare per lui. Affinavi il dialetto. L'italiano lo dimenticavi. Interpretatvi e riconoscevi, pian pianino, tutte le flessioni dialettali, gli usi e le tradizioni, dei vari rioni delle varie provincie a Nord di Napoli. Una vera e propria scuola di vita. C'è da dire, poi, che Carlo si dimostrava di continuo un vero pozzo di scienza e, soprattutto, un volpone negli affari. Una volta, a una signora con la sindrome del made in italy a tutti i costi, riuscì a dire, e a persuaderla, che il destersivo che aveva tra le mani era sì di importazione - motivo per cui campeggiava in alto una bella bandiera spagnola - , ma fatto in Italia, più precisamente a Licola. Un'altra volta, invece, sorprese tutti rivoluzionando la teoria sui terremoti e delle tettoniche delle placche. Il giorno prima c'era stata la tremenda scossa in Abruzzo e, ovviamente, non si parlava d'altro. Alcune signore, sue storiche clienti gli chiesero – non so per quale motivo, come se lui avesse risposte su tutto – come mai ci fosse stato un terremoto così violento. La risposta non tardò e, anzi, convinto, con fare da esperto sismologo e con una puntina di malinconico cazziatume sulla lingua, Don Carlo disse: “E' colpa nostra, signò. E me pare pure giusto. L'inquinamento, signò. Si stanno sciogliendo i ghiacciai, e l'acqua sotto terra la fa tuculiare. È normale, signò”. “ Over, over è... Tiene ragione Carlè”. Dicevo, lo saluto ogni volta per gratitudine. Fondamentalmente mi dava comunque da lavorare. Proprio come dice il guappetiello, in “Il Camorrista”, che per nulla al mondo avrebbe tradito il suo boss: “ Chi mi dà da mangiare mi diventa padre, commissa'”. Meglio la galera. Capito un po'? In ogni caso, era divertente lavorare da lui, soprattutto quando ci diceva cosa avremmo dovuto dire se fosse entrato qualche vigile, qualche finanziere. Ruoli da attore, con tanto di copione. “ Siamo qui solo per dare una mano”. Così, per carità cristiana: uno entra in una merceria, vede il titolare in difficoltà, e per dargli una mano due minuti, ci resta una giornata intera. Lo saluto per gratitudine e per constatare una cosa. Il periodo in cui ho lavorato da lui, notai che venivano spesso a trovarlo alcuni ex dipendenti. Ragazzi costretti dai genitori a tornare magari per comprare un rotolo di cartigienica o semplicemente per farsi vedere di nuovo, che non si può mai sapere. Un lavoro, anche questo tipo di lavoro, anche se alle condizioni di cui sopra, fa sempre comodo. Ad ogni modo, Carlo, il datore, non indovinava mai il nome del tizio in questione, manco a pagarlo. Veniva Stefano e diceva “Ciao Marco”. Passava Claudio e diceva “Ciao Francesco”. Entrava Tonia e lui diceva “Ciao Maria”, eppure, a Tonia, come facevi a dimenticarla? Pure con me, ogni volta che passo a salutarlo, non azzecca mai il nome, io che già lotto col mondo per far pronunciare correttamente il mio cognome: Amoruso e non Amoroso. Con la U tra la Erre e la U. E sì, devo pure sottolinearlo, che c'è chi ha provato a chiamarmi Amuroso. Insomma, negli anni mi ha chiamato Martino, Salvio, Fabio, Nicola, Domenico, Claudio. Ma io una mia teoria in merito, ce l'ho. Cioè, credo di sapere perché non ricorda mai un nome. Il suo atteggiamento capitalista, sfruttatore, tirannico, fascista, schiavista ( termini presi random dal dizionario del Primo Maggio, edito dalla Zanichelli) ha fatto sì che nessuno sopportasse di sotto-stare più di tre, massimo quattro mesi, alle sue dipendenze. Considerando che ne ha sempre avuti tre alla volta di collaboratori (che casualmente, in contemporanea, o a turno, passavano per di lì e per carità cristiana si adoperavano per aiutarlo), fanno, in media, circa nove collaboratori l'anno, che moltiplicati per sei ( gli anni passati da quando mi sono licenziato, o per meglio dire, mi è venuto in mente che io sono un fottuto pezzo di merda e che di fare la carità mi passa per il cazzo) fanno 54. Cinquantaquattro collaboratori! E ci credo io che non si ricorda i nomi di nessuno. E' come quel professore di Storia dell'Arte che ha tredici classi l'anno e, a ogni incontro scuola-famiglia, qualora un genitore si fosse disturbato a rivolgergli la parola per sapere come si comporta il figlio nella sua materia, giusto per dar soddisfazione pure a lui, perchè anche la Storia dell'arte è importante ( ma quando mai?), non ricordando neppure la faccia del ragazzo, risponde con un generico: "Una bella classe. Un po' chiassosa, ma educati. Suo figlio è bravo, ma può dare di più". Ebbene. Per tagliar corto che vado di fretta, passo, entro, saluto e gli faccio: “Ciao Carlo”. E lui: “Cia' France'”. Come non volevasi dimostrare. Cosa vuoi scrivere più? Buona Notte del #lavoronarrato. Buon Primo Maggio.
1 Comment
Perse entrambi i genitori. Aveva soltanto pochi giorni di vita. Praticamente non ebbero nemmeno il tempo di dargli un un nome; scherniti, strappati e ammazzati, la loro unica e banale colpa fu di essere ebrei. Lui fu salvato da zia Concetta che, innocente e ariana di fronte alle leggi raziali, per quegli occhi azzurri, l’apice bionda e il coraggio di tradire col consenso assenso del suo Dio, fu per lui madre, padre e amica. Così gli diede un nome: Liberato. Non originalissimo, ma perfetto. Troppa retorica? Può darsi. Sospeso a mezz’aria tra ricordi, smorfie e parole, come il tuffatore tra cielo e mare prima di far schizzare via acqua, ansie, tutto, mi racconta spesso che con lei aveva imparato a leggere e a scrivere; Liberato la amò tanto al punto che, dopo la sua morte, l’avrebbe rincontrata più volte, in ogni verso di ogni pagina di ogni autore. Così mi aveva raccontato… Da quel momento in poi - dalla morte della zia intendo - sembra che la sua esistenza si sia fermata lì, in quei ritagli di storie e d’inchiostro. Neanche lui saprebbe raccontare la propria vita; e nemmeno le sue rughe ci riuscirebbero, che sono come espressioni enigmatiche, imbrogliate e nascoste nella pelle. E quante ne ha. Di rughe, intendo. E quando sorride si aprono, come dire?, a ventaglio. Di lui si sa poco. Per tutti è il vecchio del quartiere, lo strano inquilino del sagrato della Chiesa dell’Immicolata, lì, a piazza Capodichino, quello che ad ogni funerale, si mette a leggere. Già, a leggere… Non c’è scampo, cazzo: lo trovi quasi sempre lì, seduto sullo stesso gradino, vestito col libro migliore. Quando ti senti perso, quando credi che nella vita non ci siano abbastanza certezze per cui sorridere, eccolo lì, lui stesso disposto a sorriderti, come uno di famiglia; o che ne so, magari uno zio che non frequenti spesso e con cui, di conseguenza, non hai mai stretto alcun rapporto confidenziale ma che, se lo incontri in qualche luogo straniero in cui ti senti perso, diventa il tuo parente più caro. C’è chi si distingue dagli altri perché indossa sempre lo stesso modello di cappello da una vita o magari ha una pipa perennemente spenta, perennemente tra le labbra; chi per una mano in tasca, chi perché si trascina il piede destro, chi per una particolare balbuzie, chi per un tic nervoso; tutti hanno un segno distintivo, il suo è il libro, uno qualsiasi, quello che ha scelto di portarsi in giro, in tasca, fino alla gradinata della Chiesa. Anzi, lui è quel libro, e basta. Esagero? Può darsi. “Ma come? C’è un funerale e tu resti lì a leggere?” gli chiese qualcuno, una volta. La sua risposta fu limpida e innocente, come solo un bambino può e sa essere: “Cosa cambia, se mi fermo oppure no? Anzi, proprio ora non posso fermarmi….”. Pasolini, Pirandello, Moravia, Calvino, Flaubert, Proust, Tolstoj, Bulgakov, Fitzgerard, Salinger, Bukoskvki, Kerouac, Fante e potrei continuare all'infinito; libri di vita, di follia. Libri rilegati da stracci di libertà: di quella libertà democratica, quella che viaggia, che fa viaggiare e che si lascia percorrere; quella trasognante e disponibile, quella che ti fa diventare piccolo così, quella dimenticata. Quella che se ti delude, non è mai colpa sua, ma di chi lo ha scritto così. Una volta, per curiosità, mi sedetti di fianco a lui e neanche si accorse della mia presenza tanto che era immerso, giusto per cambiare, nella lettura. Le mani, più grandi della media, coprivano la copertina e non capii cosa stesse leggendo. Dosava lo sguardo, scandiva la punteggiatura, bisbigliava con dolcezza e trasporto i finali di ogni periodo, come a voler imprimere addosso, spalmate su tutte le rughe e dentro di sé, tutto il loro significato. Poi, d’un tratto, si fermava, si poggiava il libro al petto, cercava qualcosa nel vuoto, chiudeva gli occhi, cercava qualcosa nel silenzio, dietro le palbebre, poi, contento, tornava a leggere… Fu in quel momento che notai che ha un modo insolito e tanto dolce di corrucciare le labbra mentre legge. Le chiude come se volesse baciare l'aria e, spostandole, solitamente verso destra, come colto da una benevola paresi facciale, se le succhia dall'interno, facendole - di conseguenza - rientrare un po'. Soprattutto il labbro superiore quasi scompare. Rimane una striscia rosa sotto ai baffi e... mi è difficile spiegare questa specie di tic, ma spero di avercela fatta….può darsi. Poi si fermò, si voltò, mi vide, mi sorrise ed io contraccambiai. Non mi chiese cosa ci facessi lì, ma mi accolse come se quei gradini fossero stati l’uscio di casa sua. “ Vede, la vita stessa è un libro ed io libri li tratto, comme ve pozze dicere?, con riscpetto. Me piace assaje il profumo della carta. E attenzione, sono orgoglioso di ogni libro che ho letto, anche di quello…sì, di di di quello ca’ nun m’è piaciute. Mi accolgono, mi scelgono come se per tutta la vita non avessero atteso altro che io li prendessi per leggerli, e nun ‘e pozze deludere. Devo leggerli tutti fino in fondo, contano su di me”, mi disse ed io, shhh, senza parlare. Liberato, puoi solo ascoltarlo, magari lasciare che ti insegni qualcosa, pure quando ti sembra esagerato, lui, in quello che dice. “Conficco il naso nelle pagine, fino alla rilegatura e respiro, comme si fosse na guantiera di dolci da manciare. È come se la natura volesse ordinarti di leggere, anzi, è proprio essa, ca’ te cerca attenzione, nun vo essere sprecate. Sono le cortecce, i rami e le radici dell'uomo. E quando leggo, mi sento in pace co ' o munne”. Come al solito, mi sorrise e, prima che le sue rughe potessero brillarmi nuovamente felici in volto, aggiunse: “ Li annuso all’inizio, durante e doppe ogni lettura. È una specie di abbbitudine. Dei riti che, praticamente, non so scpiegare e nemmeno evitare”. Quando parla, è come se si coricasse ogni volta su un sorriso di accenti, vocali e consonanti, libere di sguazzare boriose nelle proprie tradizioni: tazzulelle di ‘SCpeciee, sCtampAto, praticamente, e aBBitudine” che si lasciano sorseggiare così come sono: piene piene di zucchero… …ma poi, è proprio bello sentirlo che passa dall’italiano al napoletano, così, come se tutto fosse, come dire?, non lo so, un flusso continuo di sé? Sì, un flusso continuo… Può darsi che sia proprio così. “E quando con acquisti, scelte e regali metto su una scorta buona per un anno, penso a quanti ancora mi mancano per essere felice veramente. E me vene l’ansia…Una busta piena di libri è la cosa più forte che esista, contiene il mondo... e ce ne vuole di forza per sorreggerlo, hehe...”. “ Mi scusi, ma quanti libri ha letto”? Domandai, una volta, con curiosità. Ci pensò un po’ su, si passò la mano sotto al mento per accarezzarsi la barbetta, più che altro peluria, avida e incolta, poi, scuotendo il capo, con un velo di… come dire?... non tristezza ma amarezza, sì sì, di amarezza, disse: “ Pochi, troppo. Di certo non abbastanza …”. “ Le piacciono così tanto i libri”? Osai chiedere e, sentite sentite, lui, prima inarcò il sopracciglio, poi, con un leggero gesto di innocente e onesta superbia, starnazzò entusiasta: “Sì, ma non creda che me li tenga tutti per me. Certo sono molto geloso dei testi che ormai sanno della mia pelle, hanno le mie impronte, ma se una storia mi piace, l’aggia condividere co’ tutt ‘o munne! Deve uscire fuori dalla mia testa, deve essere letta da tutti e se non vogliono leggerla, m’anna sta a sentì mentre la racconto. E poi, e poi lei parla di libri come se fossero oggetti, esseri immateriali. E invece sono talmente vivi, che non può nemmeno immaginare. Chiamarli libri è riduttivo… io ‘e chiamme ‘storie’; storie narrate, ‘e chi l’ha scritte, di chi le ha trovate, acquistate, arrubbate e in fine lette. Quando ne finisco una, devo iniziarne subito un’altra… è come se volessi sentirmi sempre pieno... devo riempirmo... comme v'aggiade dicere?... mmm...a sapite ‘a legge de’ travase? Ecc… a mo’ e travase…”. Quella non fu l’unica volta in cui gli feci compagnia: era un pomeriggio e non c’era nessun funerale, tuttavia lui era lì. E ovviamente leggeva. Mi sedetti di fianco a lui e, diversamente dalle altre volte, interruppe subito la lettura. “ Cosa ci fa qui? Non c’è nemmeno una funzione…”, gli chiesi. “Perché credete che io stia qui a leggere soltanto durante i funerali”? Lo guardai negli occhi e colsi la profondità del mio sguardo riflesso nelle sue pupille. “ Non è così”? Sorrise. Sembrava volersi prendere gioco di me, come al solito, ma lo faceva da uomo della terra, con umiltà… come al solito… E la sua pelle era scura, vissuta, e si contraeva in piccole fessure – le rughe, ricordate? - proprio come la terra: humus, terra e umiltà. Umiltà… “ Può darsi che sia così. Può darsi il contrario. Il discorso è che se io domani mi sdraiassi qui fuori a torso nudo per prendere il sole, tutti si meraviglierebbero del mio comportamento…. Tutti ricessene, chist è pazz! Ma pecché”? Non lo stavo capendo, mi stavo perdendo, lui se ne accorse. “ Vede, io vengo tutti i giorni qui, ma la gente ama raccontare ciò che preferisce credere. Mi vede solo quanne more qualcheduno”. Disse stizzato un po', con tono sornione pure. Sono affezionato a queste scale, a questa piazza. Ogni giorno ascolto i passi di chi va di fretta, di chi gioca e di chi zoppica. Osservo, ascolto e mi accorgo di tutto. Non sto qui solo a leggere, eh”! “ E cosa osserva”? “ L’ipocrisia di qualche pianto funebre; gli ossequi del quartiere al parroco e al boss di turno; gli affanni di chi rincorre un autobus già pieno al punto che sembra, praticamente, permessa ogni bestemmia, le madri del quartiere, tutte diverse tra loro…” Lo interruppi, forse stavo capendo. “ E perché osserva”? “ Ma perché amo leggere…” Ecco, non stavo capendo di nuovo. Sì, so’ scem… “ Ehm… scusi ma cosa c’entra”? “ Vuole proprio che io sia retorico,eh? Beh, che v’aggia ricere? La vita è il più bel libro che esista… io veramente credo che ogni giorno siamo circondati da descrizioni che solo chi vuole osservare sa cogliere. Non c’è bisogno mica di una laurea, ma solo voglia di capire ed ascoltare. Mi sta capendo? La vedo titubante… vede, ci sono suoni, metafore continue da cogliere… ci sono storie, tutte diverse. Basta concentrarsi su di una persona e fantasticare sul suo percorso, sul perché va così di fretta oppure sul perché ha quel viso imbronciato da giorni di barba. Basta poco per costruirsi una storia, serve solo un po’ di fantasia, poi non importa se sarà un racconto da scrivere o meno, nel frattempo si impara a leggere la vita…”. S’interruppe: sembrava volesse aggiungere qualcosa, ma soprassedeva, come il peccatore che soppesa ad uno ad uno ogni vizio, prima di decidere quale confessare per ultimo; taceva, come se dalle sue labbra, oltre che tutta la mia attenzione, pendesse un mistero da risolvere, un qualcosa di non detto ma di necessario. Liberato si piegò in avanti verso di me, il significato del suo sguardo pieno di dubbio stava per precipitare e, pieno del solito amore, si staccò definitivamente dalla bocca. "… e si ricordi, lèggere rende le anime leggére…”, si gettò a dirmi con premura, quasi a volermi accarezzare il viso con gli occhi e la benevolenza di un padre, anzi di un nonno. Sì, un bravo nonno… Rimanemmo in silenzio per qualche secondo. La primavera cinguettava e spuntava curiosa tra le fessure della scalinata dissestata. C’erano pochissime nuvole, nessuna di queste ci minacciava pioggia. Poi, Liberato mi raccontò un aneddoto: “ Due anni fa, io ero qui, come al solito, e indovini un po’ cos’era in programma per quella giornata? Un funerale… Avevo con me un libro che avrò letto già una ventina di volte. Mi sedetti proprio qui, dove siede lei e accumminciaje a leggere. Da lontano, già si sentivano il lento marciare della Mercedes nera e file di crepiti di suole in lutto. Il cielo era adatto per ogni tipo di imprecazione, mi creda, pareva fatte apposte per quel funerale. Poi arrivò il silenzio, come se tutti, amici e parenti, avessero deciso insieme che non bisognava far arrivare in cielo nemmeno un briciolo della loro rabbia. Passarono venti, trenta, quaranta facce familiari… Strinsi al petto il libro e decisi di entrare insieme a una di quelle… Riuscii a mala pena a varcare l’uscio. La navata sembrava una pozzanghera d’anime sconvolte che si facevano spazio, però, aggia ricere ‘a verità, con rigoroso silenzio e con un decoro ca quase quase me reve fastidie… Non riuscii, praticamente, neanche a sentire le solite rassicurazioni esistenziali del prete. Forse ci ho guadagnato… chissà! Comunque, per non farvela troppo lunga, ‘o tiemp è tiemp, quando finì la messa, i primi ad uscire furono i soliti disinteressati: parenti di amici di cugini del fratello dell’amico che conosceva il defunto, gente ca steve là sul per se ‘nciucià. Sa come vanno queste cose… qualcuno faceva commenti sulla morte in generale, sa, le solite leziosità, comm’è brutt a murì accussì, ‘a vite chest’è, e tutte sti strunzat ca…. altri si domandavano come si potesse morire così giovani. Uno di loro chiese ad un altro: Ma il padre non è venuto? Chist'ate, sapete che disse? Sapite che dicette? Ve lo dico io, ve lo dico: Non ha voluto assistere a questo scperpetuo e, saje comm'è, non avrebbe sopportato le dicerie sul suo conto… sai, il fatto che si drogava… come? Su! Comm'è chella faccia? jamm bell… nun ‘o sapiv?”. Il fatto che si drogava… Liberato era in debito di ossigeno. Non lo avevo mai visto così: arrabbiato. “Mi creda. Se ne avessi avuto la forza, l’avesse pigliate a cavece ‘nculo. Ma dovetti rassegnarmi all’idea che, come lui, avrei dovuto prenderne a calci tanti altri… 'a gente è cattiva… forse perché legge poco, chissà…” “Mi scusi, non ho capito molto, ma dove vuole andare ad apparare? Conosceva il morto”? “ Ha ragione… arrivo al dunque… Quando uscì la bara, fui preso dal desiderio di prenderla tra le mani, mettermela sulle spalle e portarla da solo al cimitero, ma questo corpo è gracile, stanco, buono solo a reggere un libro… l’unica cosa che potei fare fu di poggiare il libro sulla bara, chiedendo che l’accompagnasse nell’ultimo viaggio… La madre acconsentì ed io, beh, ne fui felice... se così si può dire…” Liberato si fermò. C'ha provato a trattenersi, ma alla fine gli fu impossibile. Chino, sulle ginocchia, iniziò a piangere. Non capita spesso di vedere un vecchio piangere in questo modo, come se le rughe debbano per forza insegnare il dolore, condurre all’esperienza, rinsecchire la terra e chiudere i canali d’irrigazione. La firma del tempo che, indisturbato, passeggia e passa l’aratro sul volto. Che stronzate che scrivo. Può darsi. Fatto sta, rimasi in silenzio. Ancora una volta. In imbarazzo. L’unica cosa che riuscii a fare fu poggiargli una mano dietro al capo bianco e carezzarglielo. “… mi scusi… sa, questo vecchio ne ha viste di cose, ma non si abitua al dolore… non ci riesce...nun sap c’adda fa”, disse provando a giustificarsi di tanta innocenza. Sorrisi e m’innamorai di quella sincerità. Un giorno, guardandomi allo specchio, sarò anche io come lui, felice di essere uguale a ieri? “ Di chi era quel libro”? Il silenzio durò un attimo, il tempo di un grido divertito di un ragazzino che aveva l’aria di essere felice. “ Era suo…” Un altro grido e poi ancora un altro. “ Gliel’aveva prestato”? “No. L’aveva scritto lui…e m'era pure piaciuto. Era suo, la sua anima…” La gente ama raccontare ciò che preferisce credere… Le persone vedono persone... ma poi ci dimentichiamo dell'anima nascosta sotto alla maschera di legno… ma poi ci dimentichiamo dell’anima… può darsi. -Tonì, apri la porta. -Non posso. Devi aspettare. -Non riesco, fa' presto, ti prego. -Gianlù, è inutile, qua ci vorrà tempo. -Maronna mi'! Mentre mio fratello era fuori a lamentarsi, io pure soffrivo come un cane. Non stavo mica divertendomi. Era una vita che non mi veniva un attacco di stitichezza così dirompetnte. A pensarci, mai avuto tante difficoltà ad andare di corpo. Sarà l'età, i primi segnali. Dicono. Mi spremevo con tutte le forze che avevo, eppure non riuscivo proprio a cacciarlo via, 'sto stronzo di merda. Non potevo fare a meno di farla. Ero in quelle scomode circostanze che ordinariamente vengono definite a punta di coltello: né fuori, né dentro. Uno strazio. Avevo tra le mani Tropico del Cancro, una brutta edizione della Feltrinelli: copertina rigida e il titolo scritto di viola e arancione. Brutta, davvero brutta. Che volete farci? Così vanno certi affari. L'avevo trovato su non mi ricordo quale bancarella a un prezzo ridicolo. O l'ho ordinato da Libraccio? E chi si ricorda. Sto qui a farmi il culo a tarallo per fare lo stronzo e tu vai trovando che mi ricordi certe cose? Se però l'estetica lascia a desiderare, la traduzione è di Branciardi. Quando l'ho notato sono rimasto contento e, ricordando ciò che racconta ne La vita Agra, ho pensato: chissà se tra le carte da tradurre commissionategli c'era anche Miller. -Tonì, Tonino. Ti prego, fa' presto. Poggiai per terra il povero Miller. Mio caro Enrico, anche 'sta volta dovrai attendere. Ero molto curioso di sapere com'è che andò a finire quando ti ammalasti e quel tuo amico, per non vederti morire tra i piedi, ti cacciò di casa. Avrei voluto tanto saperlo, ma niente, soffrivo come un cane. Mi spremevo, muovevo le gambe, le natiche, la pancia, facevo riti propiziatori, cercavo insomma un modo per sciogliere la situazione, ma niente. Proprio niente. Niente di niente. E mentre mio fratello continuava a strillare, manco avesse avuto un piragna nell'intestino, intento a squarciargli lentamente a morsi le interoria, cercavo di fare il punto della situazione. Qua è meglio che mi rilassi: è inutile prenderla sul serio e sforzarsi più di tanto, che altrimenti mi viene fuori un embolo, mi partono le coronarie, e per una cacata va a finire che mi faccio pure il viaggio all'altro mondo. Piano piano e si risolve tutto. Gianluca dovrà aspettare. Pensai. Mi misi a contare le mattonelle, prima ad una ad una, poi a due a due, prima quelle del pavimento, poi delle pareti. Perdevo facilmente il conto e quindi ripartivo spesso da capo. Alla fine mi scocciai. Il numero quelle verticali per quelle orizzontali: base per altezza. Che si deve fare per distrarre l'ano. -Maaa, maaamma...Tonino se sta 'ntallianne. Dovevo distrarmi, che così funzionano certi ani: se non li noti, fanno da sé. Sul mobile c'era tutta una serie di giornali, di quelli scandalistici, di quelli con le dive con le zizze da fuori e che parlano di quanto siano pie credenti della Madonna di Casapurchiano. Li presi. Cruciverba e Sudoku erano già stati svolti tutti. Mannaggia. -Tonììì... Toninooo. Ho iniziato a sfogliarli. Parlavano quasi tutti dello stesso problema: Com'è che andrà a finire tra Belen Rodriguez e il parrucchino di Sandro Mayer? Ho iniziato a leggere alcune interviste, anche se non sapevo chi fosse la gente intervistata. Però ho notato che, in alcuni di questi giornali, viene spiegato com'è che si leggono certe parole straniere: Tapis roulant si legge tapì rulà. Bene bene. Sono passato a letture più interessanti. E infatti avrò letto mille volte la composizione del bagnoschiuma Vidal. Su l'etichetta c'era scritto: emollienti ed idratanti, per una detersione dolce e delicata in tan.... ...qualcuno si chiederà perchè non abbia deciso di riprendere Tropico del Cancro. Il fatto è che cercavo qualcosa che, in un momento di distrazione, mi desse la possibilità di cacciarlo, lo stronzo maledetto. Con Miller mi devo concentrare, giacché certe letture vanno capite, approfondite, non è che leggi per fare a gara con chi ha più libri in libreria. Ho tre letture che mi trascino addosso da tanto tempo, proprio per questo motivo: Anna Karenina, L'urlo e il furore e Tropico del Cancro, per l'appunto. Non è che siano difficili, tutt'altro. Oddio, ad essere del tutto sinceri, di Faulkner mi mancano cento pagine circa e ancora non ho capito dove voglia andare ad apparare. Il fatto è che non tutti i libri si esplicitano facilmente e/o ci sono simpatici a primo achito, motivo per cui ci vado adagio, piano piano. Magari, nel frattempo, inizio altre letture, più scorrevoli, meno agghiaccianti per stile e contenuto. Così faccio. Per intenderci, da quando ho iniziato Anna Karenina ad oggi, avrò letto una trentina di libri. Già. E lo so che il tipico lettore non condividerà il mio modum legendi, però: a) non posso abbandonare definitavamente certe letture che vanno fatte nella vita, penso; b) non posso bloccarmi irrimediabilmente per sempre su di un passo un po' più ostile e non leggere più. Insomma, tornando a noi, non potevo leggere Miller proprio mentre dal buco del culo stava per partirmi un'emorroide. Avevo bisogno di altro, di qualcosa che mi facesse cacare, e infatti, riprendo i giornali di cui sopra e scopro che Moccia ha una rubrica tutta sua - non ricordo in quale - dove alle ragazzine dà consigli d'amo oooo.. oddio oddio... aaaa... ecco...ec... maronna sant... aaaaa.... uff...uuuuu... aaaaa...ah ah.... ah.... Ricordo che sorrisi. E che mi asciugai il sudore. - Gianlù, due minuti ed esco. |
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March 2019
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