"Quello che non si fa in una vita, lo si fa in due giorni". "Quando meno te l'aspetti". Me lo dice mammà, guardandomi seduto sul divano, con la pancia da fuori e l'indice intento a togliere il nippolo dall'ombellico, mentre mi guardo le repliche di Ossì ( che non è un interiezione da film porno... Ossì sta per O.C. ovvero Orange Country, non un emoticon fatta col t9 mentre sei alla guida mezzo ubriaco). Insomma, con queste parole, cosa vuole dire mammà? Che per il figlio laureato che s'atteggia ad artista, prima o poi arriverà pure un lavoro serio e si troverà, all'improvviso, sposato, con tre figli e il bastardino mezzo volpino mezzo non si sa mai cosa. O no? "Cioè, quello che non si fa in una vita, lo fai in due giorni" Appunto. Per un mese sano sano non ho scritto un cazzo, vi ho detto che avrei concluso Aprile con sole due pubblicazioni, e mo, invece, ho un altro post e un po' di tag da fare... Muahahahahha (tono diabolico) Comunque, voglio raccontarvi un fatto. Ieri pomeriggio, ero a piedi, quando sono passato fuori ad un negozio. Voi direte, embè? Che c'è di strano? Statemi a leggere. Allora, in questo negozio, una merceria, io ci ho lavorato per sei mesi sei anni fa. (Sei per sei trentasei e con un altro sei facciamo il messaggio demoniaco iperinconscio). Ogni volta che ci passo, saluto il mio vecchio caro datore di lavoro, il signor Carlo. Perché lo faccio, vi chiederete? Embè, la risposta è semplice: per simpatia, per educazione, per gratitudine. Era uno di quei lavoretti che facevi mentre studiavi. Quelle cose a nero sì, ma leggerine del tipo ottanta euro a settimana, turni ragionevoli, dalle 9 alle 20.00, sei giorni su sette,e.... e poi caricavi e scaricavi il camion, accoglievi e sbrigavi i clienti, per lo più donne un bel po' avanti con l'età, - “uagliò 'e cazett cinguanta den 'e tien”? -, andavi a fare le consegne, che il più delle volte significava portare dieci kg di cartaigienica, buste dash e assorbenti doppio velo alla signora del palazzo senza ascensore, al quinto piano di Via Lontanodagliocchi. E la signora, la mancia, non te la dava mica per così poco. Roba da far venire nella mutanda per l'eccitazione a qualsiasi sindacalista, costretto poi a strappare una pagina della copia del Manifesto di Marx, portata solitamente con onore sotto al braccio, e usato, in questi casi, per pulirsi alla meglio. Però, per carità, Carlo è un brav'uomo. E' che a Napoli, in generale in provincia, vanno ancora di moda questi lavoretti vintage, stile ebrei in Egitto, prima di essere Esodati. Poi, in fin dei conti, era curiosamente educativo lavorare per lui. Affinavi il dialetto. L'italiano lo dimenticavi. Interpretatvi e riconoscevi, pian pianino, tutte le flessioni dialettali, gli usi e le tradizioni, dei vari rioni delle varie provincie a Nord di Napoli. Una vera e propria scuola di vita. C'è da dire, poi, che Carlo si dimostrava di continuo un vero pozzo di scienza e, soprattutto, un volpone negli affari. Una volta, a una signora con la sindrome del made in italy a tutti i costi, riuscì a dire, e a persuaderla, che il destersivo che aveva tra le mani era sì di importazione - motivo per cui campeggiava in alto una bella bandiera spagnola - , ma fatto in Italia, più precisamente a Licola. Un'altra volta, invece, sorprese tutti rivoluzionando la teoria sui terremoti e delle tettoniche delle placche. Il giorno prima c'era stata la tremenda scossa in Abruzzo e, ovviamente, non si parlava d'altro. Alcune signore, sue storiche clienti gli chiesero – non so per quale motivo, come se lui avesse risposte su tutto – come mai ci fosse stato un terremoto così violento. La risposta non tardò e, anzi, convinto, con fare da esperto sismologo e con una puntina di malinconico cazziatume sulla lingua, Don Carlo disse: “E' colpa nostra, signò. E me pare pure giusto. L'inquinamento, signò. Si stanno sciogliendo i ghiacciai, e l'acqua sotto terra la fa tuculiare. È normale, signò”. “ Over, over è... Tiene ragione Carlè”. Dicevo, lo saluto ogni volta per gratitudine. Fondamentalmente mi dava comunque da lavorare. Proprio come dice il guappetiello, in “Il Camorrista”, che per nulla al mondo avrebbe tradito il suo boss: “ Chi mi dà da mangiare mi diventa padre, commissa'”. Meglio la galera. Capito un po'? In ogni caso, era divertente lavorare da lui, soprattutto quando ci diceva cosa avremmo dovuto dire se fosse entrato qualche vigile, qualche finanziere. Ruoli da attore, con tanto di copione. “ Siamo qui solo per dare una mano”. Così, per carità cristiana: uno entra in una merceria, vede il titolare in difficoltà, e per dargli una mano due minuti, ci resta una giornata intera. Lo saluto per gratitudine e per constatare una cosa. Il periodo in cui ho lavorato da lui, notai che venivano spesso a trovarlo alcuni ex dipendenti. Ragazzi costretti dai genitori a tornare magari per comprare un rotolo di cartigienica o semplicemente per farsi vedere di nuovo, che non si può mai sapere. Un lavoro, anche questo tipo di lavoro, anche se alle condizioni di cui sopra, fa sempre comodo. Ad ogni modo, Carlo, il datore, non indovinava mai il nome del tizio in questione, manco a pagarlo. Veniva Stefano e diceva “Ciao Marco”. Passava Claudio e diceva “Ciao Francesco”. Entrava Tonia e lui diceva “Ciao Maria”, eppure, a Tonia, come facevi a dimenticarla? Pure con me, ogni volta che passo a salutarlo, non azzecca mai il nome, io che già lotto col mondo per far pronunciare correttamente il mio cognome: Amoruso e non Amoroso. Con la U tra la Erre e la U. E sì, devo pure sottolinearlo, che c'è chi ha provato a chiamarmi Amuroso. Insomma, negli anni mi ha chiamato Martino, Salvio, Fabio, Nicola, Domenico, Claudio. Ma io una mia teoria in merito, ce l'ho. Cioè, credo di sapere perché non ricorda mai un nome. Il suo atteggiamento capitalista, sfruttatore, tirannico, fascista, schiavista ( termini presi random dal dizionario del Primo Maggio, edito dalla Zanichelli) ha fatto sì che nessuno sopportasse di sotto-stare più di tre, massimo quattro mesi, alle sue dipendenze. Considerando che ne ha sempre avuti tre alla volta di collaboratori (che casualmente, in contemporanea, o a turno, passavano per di lì e per carità cristiana si adoperavano per aiutarlo), fanno, in media, circa nove collaboratori l'anno, che moltiplicati per sei ( gli anni passati da quando mi sono licenziato, o per meglio dire, mi è venuto in mente che io sono un fottuto pezzo di merda e che di fare la carità mi passa per il cazzo) fanno 54. Cinquantaquattro collaboratori! E ci credo io che non si ricorda i nomi di nessuno. E' come quel professore di Storia dell'Arte che ha tredici classi l'anno e, a ogni incontro scuola-famiglia, qualora un genitore si fosse disturbato a rivolgergli la parola per sapere come si comporta il figlio nella sua materia, giusto per dar soddisfazione pure a lui, perchè anche la Storia dell'arte è importante ( ma quando mai?), non ricordando neppure la faccia del ragazzo, risponde con un generico: "Una bella classe. Un po' chiassosa, ma educati. Suo figlio è bravo, ma può dare di più". Ebbene. Per tagliar corto che vado di fretta, passo, entro, saluto e gli faccio: “Ciao Carlo”. E lui: “Cia' France'”. Come non volevasi dimostrare. Cosa vuoi scrivere più? Buona Notte del #lavoronarrato. Buon Primo Maggio.
1 Comment
Pattycherideacrepapelleeeeeee !!!
1/5/2015 04:27:07
😂 Moro! Dal ridere! Sarà tutta colpa tua! Vienimi a trovare all'ospedale! Portami le arance! 😄 Come mi piace questo, quanto mi piace! Bacio 😘 😘 😘 (Francè, è fantastico! Si! Saluta tua madre da parte mia. La stimo. Davvero!)
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