Lo penso spesso, devo ammetterlo. Scavo nell'attivismo di ogni giorno, negli amici, nelle associazioni, nel bello dal quale cerco di tirare su qualcosa di buono, come fa il prete che tira su l'ostia dalla pisside. Eppure... lo penso spesso perché i momenti di sconforto sono tanti, forse troppi. lo penso spesso perché, a rimanere soli, è facile; lo penso perché, a distanza di trent'anni, non è cambiato molto; Se è possibile, è pure peggio. O sei con loro, o sei contro di loro, ed il silenzio nuoce alla salute, più delle minacce. Lo penso spesso perché credo nelle parole del mio amico Vincenzo Strino : "Sono contento che siate in tanti a ricordare Giancarlo Siani. La memoria deve essere di tutti. La storia però è un'altra cosa e parla chiaro: quelli come lui, cronisti precari, cacacazzi con la schiena dritta in eterno conflitto col mondo ma sempre col sorriso sulle labbra, sono soli fino ad un attimo prima di morire. E questo io non lo scordo mica". E sono contento anche io. Perché ricordare è importante. Eppure - ma un po', giusto un pochino - mi viene il voltastomaco quando, a farlo, sono certi individui, certi politici, certi esseri. Gli stessi che lo hanno lasciato solo e che continuano a lasciare solo, nei fatti, chiunque cerchi di mostrare la verità. Gli stessi o, comunque sia, della stessa specie, della stessa stirpe. Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Leggetelo ad alta voce. Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Ancora: Morire, a ventisei anni, facendo il proprio lavoro. Ve ne siete accorti? Lo avete sentito? No, non è che è arrivato l'autunno. Mette proprio i brividi. Morire facendo il proprio lavoro. O meglio, chiariamo: Morire perché, fare bene il proprio lavoro fa paura a qualcuno. Che strano, vero? Soprattutto per noi che, oggi, a viverci col nostro lavoro, proprio non ci si riesce. O meglio: proprio non vogliono darcelo questo onore. (Lo penso spesso, devo ammetterlo. Lo penso spesso perché i momenti di sconforto sono tanti, forse troppi). Che poi mi chiedo, se nulla fosse successo, se Giancarlo non fosse stato lasciato solo, se avesse potuto continuare a vivere facendo il lavoro che amava, come si sarebbe rapportato ai nuovi modi dei media? Cioè, vi immaginate un "Affari tra politica e camorra nel napoletano, SCOPRI COME", a firma di Giancarlo Siani, magari proprio su di uno di quei giornali che, ogni sacrosantissimo anno, stanno a commemorarne la morte? Ve lo immaginate? Io No. In una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una città che sa, ma non vuole ammettere. In una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una nazione che sa, ma non vuole ammettere. No, non riesco ad immaginarlo ingobbito sul suo mac pro, intento ad impastocchiare un titolo sensazionalistico a tutti i costi, incollando tra loro dei virgolettati senza capo né coda, o ad inventarsi somiglianze tra un dipinto ed un pentito di camorra, solo per far vendere due tre quattro copie in più al proprio editore. E nemmeno riesco ad immaginarmelo pronto a svendere la propria professionalità di giornalista, a scambiarla per una mera controfigura in programmi d'intrattenimento. Non riesco ad immaginarlo pronto a fare così male il suo lavoro. Il lavoro che amava e per il quale è morto. Senza dignità. Senza amore. Senza verità. Ma forse mi sbaglio, forse si sarebbe adattato ai tempi. O forse no. No, no, no. Non ci credo. Morire facendo il proprio lavoro e mi chiedo chi gliel'ha fatto fare. Me lo chiedo ogni volta. Ogni volta che leggo di un giovane ammazzato, di un uomo ammazzato, di una città ammazzata. Ogni volta che sento che non importa se sei giovane, pieno di iniziativa e hai fatto un bel po' di sacrifici: l'azienda non puoi aprirla se... Ogni volta che senti "beh, ho chiesto a tizio, gli ho fatto un piacere, gli ho dato quello che mi ha chiesto, e beh .... ecco... non devo spiegarti perché lavoro qui"... Ogni volta che si sa, ma non si ha il coraggio di ammettere. Ogni volta che si sa, ma non si ha il coraggio di raccontare. Ogni volta che lavori per poco, niente o - se ti va bene - per un attestato di partecipazione. Torni a casa e lo metti in un quadretto o sul tuo curriculum inzuppato di sudore. Ogni volta che vedo che, più passa il tempo e più stanno riuscendo a convincerci ad amare il brutto, il pessimo, lo scadente, a discapito della ricerca del bello. Non si accontentano di nascondercelo, il bello, e di lasciare che ci si accontenti di quello che si ha. No. Vogliono che lo si ami, se possibile, che lo si adori. Che sia un libro, un programma tivù, una canzone, un paio di jeans con le caviglie scoperte, quanto più è idiota, gretto e scadente tutto questo, più noi dobbiamo amarlo. Ogni volta che un amico o un parente muore di tumore. Chi gliel'ha fatto fare. Di morire a venti sei anni. In una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una città che sa, ma non vuole ammettere. In una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. In una nazione che sa, ma non vuole ammettere. Eppure. Eppure un motivo, lo trovo. Devo trovarlo, per forza, in questa città, in questa nazione. Il bello c'è ed è dietro l'angolo. Credo. Il bello c'è, e bisogna studiarlo, scoprilo, amarlo, desiderarlo, mostrarlo a chi ci è vicino. Lo so, lo so, è riduttivo, ma a Ventisette anni ho bisogno di trovare le mie ragioni. Queste cose qui sono come i desideri che permettono a Peter Pan di volare, nonostante la forza di gravità: ci vuole un pensiero felice per resistere. Io, a Ventisette anni, ce l'ho e me lo tengo stretto. E poi ne rimango convinto: noi siamo migliori di loro. Anche in una città che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. Anche in una città che sa, ma non vuole ammettere. Anche in una nazione che dimentica troppo in fretta, ma che ama commemorare. Anche in una nazione che sa, ma non vuole ammettere. Scavo nell'attivismo di ogni giorno, negli amici, nelle associazioni, nel bello dal quale cerco di tirare su qualcosa di buono, e ci trovo facce, mani, gambe e chilometri di voglie, e ci trovo nomi e cognomi belli come le buone notizie. Belli come un motivo per cui continuare ad esserci. E allora ecco chi ce lo fa fare. E allora ecco chi glielo ha fatto fare. Credo, penso, immagino. Non lo conoscevo. In pochi l'hanno conosciuto davvero. Posso solo provare ad immaginare. Però, la città è la stessa, il magone allo stomaco pure. E allora, se Giancarlo Siani ci ha rischiato la vita, se qualcuno, ancora oggi, ha il coraggio seguire il suo esempio, porcaputtana, allora, un motivo c'è. Deve esserci. Ed è lì. Dove? Ma lì, non lo vedi? A portata di mano.
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