Anni fa, con mio padre, giocavamo a chi contava più bandiere dell'Italia esposte ai balconi. Sembra ieri: Mondiali '98, Francia. Me lo ricordo bene quel Mondiale, nonostante fossi piccolo, nonostante i miei 10 anni. Odore di capelli asciugati, brillantina, gelatina al cocco, Proraso e caffè. Cesare Maldini in panchina, duello-staffetta Del Piero Roberto Baggio, Fabio Cannavaro in difesa. Tutti erano preoccupati del fatto che, col suo metro e settantasei (comunque più alto di me), il napoletano avrebbe potuto avere problemi a marcare Tore André Flo, un colosso norvegese alto un metro e novantatré. Solita stampa italiota tutta ferma alle forme, in questo caso alle dimensioni e non a quello che si può fare con i mezzi che si ha. Morale: Flo non toccò un pallone. Ricordo anche quelli del '94, in realtà: eravamo a casa di amici. Odore d'estate, di spalle bruciacchiate, Leocrema pizza e citronella. Ai calci di rigore, a quello di Baggio, tutti ad incrociare le dita, tranne io. Semplicemente non ci riuscivo, le giravo, accartocciavo, accavallavo ma niente, mi facevano male. Avevo sei anni. Una ragazzina mi disse "incrocia, incrocia le dita, sennò perdiamo". Divin Codino sparò in curva quel pallone e per anni ho creduto fosse stata colpa mia, almeno fino a quando, a 10 anni, quattro anni dopo, le mie dita fedelmente incrociate non riuscirono comunque a spingere il tiro di Di Biagio qualche centimetro più sotto la traversa. Il gioco del conta bandiere era difficile ché erano tante, troppe, e poi tutto avveniva in auto, in movimento. Dopo un po' mi stancavo, mentre i miei fratelli continuavano entusiasti a contare: uno, due, dieci, cento. "Ho perso il conto, me ne ho viste sicuramente più di te". Da Villaricca a Secondigliano, per esempio, rischiavi le diottrie a furia di sgranare gli occhi, contare, divorare, giocare. Oggi ancora incrocio le dita, ma per altro. Il calcio resta il mio gioco preferito ché quando vedo dei bambini con ai piedi un pallone, vorrei buttarmi in mezzo a loro, portiere volante, nessuno vuole andare in porta, io gioco in attacco, dai passala, non sei il figlio di Maradona. Ma ho 28 anni, poco tempo per il gioco e, al massimo, posso tornare a contare le bandiere. Italia - Germania, 2006. Odore di pizza, di brace pre partita, di vino, di spray anti-zanzare, di gas della trombetta, odore di bruciato. Esame di stato, la perfezione. Bandiere, ancora tante, abbastanza per dare un senso a quell'ansia per una partita di calcio. Italia Germania, Europei 2016, Francia. Odore di pomodori, tonno e olive. Trentacinque gradi all'ombra, odore di caffè, birra e sonno che si posa leggermente sugli occhi, agli angoli degli occhi. Non è questione di menefreghismo. Forse dietro tanta retorica, dietro la muffa della dialettica, oltre qualche sgrammaticata ideologia, c'è un velo opaco di verità: si chiama schifo, o giù di lì. Un po' di noia, un po' di nausea, un po' dell'una, un po' dell'altra. In questi giorni ho provato a farlo, a contare le bandiere dico: ho ancora tutte le poche diottrie rimastemi intatte. Poche bandiere, forse troppo poche. Non lo so. Forse è che i tempi sono cambiati, sfiducia, un'identità nuova, rinnovata, revisionista, sveglia, un paese stanco, più che altro spossato, come dopo una giornata in cui hai sudato maledettamente e non hai più sali minerali sotto pelle e ti basterebbe solo un po' d'acqua fresca o un bel tuffo al mare per riprenderti, ma t'hanno chiuso i rubinetti, t'hanno tolto il mare. Una, due, tre bandiere, dieci. Non vado oltre. O semplicemente, la tratta Villaricca-Secondigliano ha perso i suoi condòmini patrioti incrocia dita di qualche decennio fa: avranno solo cambiato civico, svoltato l'angolo, traslocato altrove. Magari giri lo sguardo da un altro lato e trovi un mare di bandiere. Tutto è relativo, come la tua home di Facebook, parcellizzazione atomistica di cinquecentodieci milioni e cento mila chilometri quadrati di terra, in cui le tue idee, le tue ideologie, i tuoi spazi, i tuoi tempi, le tue considerazioni contano praticamente un cazzo. Capito?
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March 2019
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