C'era una volta, tanto ma tanto tempo fa, una fanciulla che non riusciva proprio a smetterla di mangiare. Nutella, taralli col pepe, sfogliatella, melenzane sott'olio con scarpetta finale direttamente nel buccacciello, babbà, zeppola di san Giuseppe, pastiera, struffoli, pasta e cavolo, pasta e patate con la cotenna, pasta e pomodoro, pasta al forno, pizza, pizzette e pizza fritta, piede e muso di porco, piede e muso di vitello, alette di pollo, alette di pavone, alette di piccione, alette di gabbiano, a letto senza cena, mai. Insomma, una a cui non faceva schifo proprio niente. E mangia mangia ed ecco che il fidanzato si ritrovò pieno di debiti, perché si sa, un uomo non è uomo se non paga lui per la sua lei. E più lei mangiava e più lui era costretto a starsene appartato con gli strozzini per studiare il metodo più comodo per rateizzare il debito che, a ridosso di feste importanti (Pasqua, Natale, San Epifania, San Giuseppe: giorni durante i quali si mangiava quantomeno il quadruplo) si faceva sempre più profondo, tant'è che pure a loro - agli strozzini intendo - fece pena, e, con una mano sopra al cuore, accettarono che lo scontasse a duecento euro al mese, con tasso agevolato, col minimo degli interessi, per i prossimi 20 anni. E se fosse morto prima, beh, pazienza, pure loro c'hanno un cuore. Che volete farci, teneva fame la piccirella e lui, l'innamorato, nobile nel cuore, un galantuomo d'altri tempi incline ai canoni amorosi più ardimentosi del dolce stil novo, non riusciva proprio a dirle di no, alla sua Beatrice, anche perché, nonostante la sua fame spropositata, rimaneva comunque bella e magra, come la Venere di Botticelli. E d'altronde, lei sapeva come farsi perdonare. S'attaccava al suo corpo con la stessa fame con cui s'attaccava al cibo. Una fame macroscopica, mastodontica, ultracorporea, metaforica, appagante che abbracciava tutti e cinque sensi. Fu forse per questo motivo, l'estenuante attività fisica, che la nostra bella addormentata nel frigo conservava un fisico asciutto e statuario: gambe sode, seno possente, glutei atletici, pancia piatta come una tavola su cui si poteva bandire cene da 300 Trimalcioni. E intanto il debito cresceva e le tasche si appesantivano di vuoti siderali. Quella finirà per farti uccidere, figlio mio, è una scorfana vestita da puledra, arriverà a divorare anche te, figlio mio; ma cosa può una madre di fronte al potere della fe...deltà del cuore? Un giorno, mangiando mangiando, questa pacman delle fiabe incantate, divorò una mela libidonosa rosa succosa buonissima, in barba al fatto che, su di un cartello, ci fosse scritto non mangiare, rischio avvelenamento, morte, caput, aldilà. Dicono tutti così questi cartelli, non mangiare questo, non mangiare quest'altro, attenta all'etichetta, vedi bene gli ingredienti, i pesticidi, gli omicidi, i genocidi, gli infanticidi, i fratricidi, i peccati originali. La solita fissazione del non mangiare le mele, chissà perché la gente ce l'ha tanto con le mele. Stava pensando queste e altre cose simili, mentre strappavo l'ultimo morso di polpa attorno al torsolo, ché cadde come una pera cotta, lunga lunga a terra. Il principe, lui, il galantuomo, accorse al capezzale in lacrime, bestemmiando ai quattro venti tutto l'albero genealogico di ogni santo distribuito quà e là nel Paradiso. Ce l'aveva messo lui quel cartello, convinto sarebbe bastato a scoraggiare chiunque fosse stato tentato di mangiare quella mela, ma non aveva fatto conto con la sua donna. Era un noto imprenditore del ramo della produzione di mele avvelenate, per la realizzazione di fiabe internazionali. Coltivava ettari ed ettari di frutteti per rimpinzare il catering di tutte le vecchie streghe vendicatrici, vere protagoniste delle storie marchiate Disney. Una vera e propria multinazionale del veleno, per il quale, però non aveva antidoto. O almeno, ne conosceva qualcuno, ma erano adatte alle sole fiabe a lieto fine e lui, per vezzo, per miscredenza, per tempo, non ne conosceva nemmeno una. Se solo avesse letto un po' di più, se solo avesse creduto un tantinello in più nelle fatagioni. Le provò tutte per farla riprendere. Le urlò contro parolacce e complimenti, tentò cantandole un giorno all'improvviso, con le trombette, provò a passarle sotto al naso tutti i cibi più amava, le disse anche che si sarebbe candidato con il Partito dei puffi, Puffa Italia, se non si fosse svegliata, le baciò le labbra, le mani, provò a giacere con lei, per il più improbabile amplesso necrofilo mai raccontato in una fiaba, oh, ma niente, non ci fu verso. Stette al suo fianco, giorno, notte, settimane, mesi. Al sole, alle intemperie, durante le partite del Napoli. Un'immagine commovente, credetemi. Per stare pedissequamente al suo fianco e per una forma di autolesionismo, in odio verso la propria stessa attività, causa del malore della sua bella, si disinteressò della produzione di mele velenose. Non riuscendo più a coprire il debito mensile dei 200 euro, i creditori iniziarono a farsi sentire insistentemente. Fu costretto a vendere tutto, la derrate, le mele, la casa, il castello, il cavallo, la Ferrari. Intanto, il corpo, come se per troppi anni avesse retto epicamente contro una forza indomita proveniente da dentro e ora non ce la facesse più, iniziò a dimenarsi, a farsi spazio, ad allargarsi, a cedere, ad ingrassare: si fece enorme, le braccia quadruplicate rispetto a com'erano prima, il volto tutto, naso occhi bocca, ormai nascosto da decine e decine di chili di grasso, la pancia pareva un grosso consorzio internazionale di lardo di contrabbando; insomma, come aveva pronosticato, predetto, profetizzato la mamma, da puledra, la sua bella si fece scrofa e, del paragone con la Venere, non rimase che la botticella, la botte. Ma a lui non interessava: rimase lì, ogni giorno, senza mai schiodarsi nemmeno un secondo, ad accarezzarsela tutta, la sua bella principessa mangiona. Passarono i giorni, troppi, e il tempo, con uno sbuffo di vento, portò via nell'eternità le polveri assopite dell'innamorato che invano aspettò il risveglio dell'amata. Su di un marmo non rimase che il corpo deformato di una donna abbandonata da tutti, da tutto, dal fato, e di cui si raccontavano leggende strane, adipose, con trame losche ai confini di anguste dimensioni mefistofeliche. Colpa del diavolo, assolutamente. Quel corpo lì non avrebbe potuto inventarlo un Dio buono, no signore. Che nessuno si avvicini a lei. Non sia mai si venisse unti dal demonio. Capitò che un giorno, però, dopo secoli, passando di lì un giovane, uno straniero, affamato, indolenzito da lunghi giorni di digiuni, dopo mesi in cui, ramingo, ebbe girovagato tutto il globo, dopo che gli avevano incendiato il villaggio, vedendo quel corpo abnorme, decise di portarselo in una stanza che aveva affittato al centro della città, a due passi da un vecchio stabilimento abbandonato che una volta, tanti anni prima, aveva prodotto mele avvelenate, per note case produttrici di fiabe. Se la guardò bene bene, provò a svegliarla con tutti i modi possibili, le cantò addirittura un giorno all'improvviso, ma niente, non ci fu verso di ridestarla. Allora ci pensò su un po', giusto un paio di volte, per non passarsi troppo velocemente la mano sulla coscienza, poi alla fine si decise: l'avrebbe tagliata a pezzettini, messa in grossi boccaccielli sott'olio, messa in un congelatore, trasformata in salumi, in sugna per il casatiello, per i taralli e anche per un fare po' di sapone, ché l'igiene non va mai dimenticata. Prese il seghetto e iniziò a tagliuzzarla dall'alluce del piede destro, fischiettando I ragazzi della Curva b, quando la ragazza aprì gli occhi e, dolorante, le scappò da bocca Juve storia di un grande amore. Fu allora che il giovane, impaurito, ma pieno d'ardore in corpo, offeso da quelle poche sporche note, le mise in faccia uno straccio tutto arrepezzato per tapparle la bocca zozza, e così continuò a segarla al collo, sgozzandola con due colpi netti. Il giovane si arricchì la pancia e la tasche, fruttando un bel po' di soldoni per la vendita all'ingrosso del grasso della principessa. Con i proventi, comprò lo stabilimento abbandonato, estinse il debito che aveva contratto il vecchio proprietario nei confronti dei creditori e dei suoi eredi, dandosi così alla produzione di mele avvelenate. E tutti vissero una bella schifezza. Morale della favola: Non ne ho assolutamente idea o forse sì?
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