Ci arrivo in ritardo, ma abbiate pietà: il disco è uscito che questo blog ancora non esisteva.
A loro li ho conosciuti qualche annetto fa: ero a Gallipoli, andai con i miei fratelli a sentire Caparezza al Parco Gondar. Aprirono il concerto e subito ce ne innamorammo - io e i miei fratelli - dalle prime canzoni: esecuzione, potenza musicale, esibizione, presenza scenica, testi. Non lo dico per parossismo, ma non sembrò nemmeno un concerto d'apertura: non voglio dire che Caparezza sembrò un ospite nel loro concerto, ma quasi. Ricordo che rimasi impressionato da Giulietta, una rivisitazione pornografica dell'amore tra la Capuleti e il Montecchi. Anzi, ad essere chiari, potrei meglio definirla una spiegazione esplicita di quel che è stato il sentimento amoroso tra i due, ché, chi ha letto bene l'opera di Shakespeare, sa bene che già era bella carica di sensualità spinta.
Il brano è contenuto nel loro primo disco, Fiori innocenti, in cui spicca, tra le altre cose, un feat con Caparezza, L'appapparenza.
Per quanto riguarda invece Cabron!(2012), l'album di cui vi sto parlando, è il secondo degli U' Papun, gruppo barese, e anche se ci arrivo tardi a recensirlo, c'è da dire "poco male" visto che è fortemente contemporaneo. Dalla prima all'ultima traccia c'è un forte riferimento a quelli che sono i cambiamenti politici, sociali ed antropologici di una società che fa di tutto per non smentirsi e perpetrare calorosamente, in secula seculorum, il gene dell'idiozia. Non a caso, intelligentemente e/o quasi profeticamente, Alfredo Colella, leader della band, canta, proprio nell'omonima traccia (la prima dell'album) "Il caprone è una bestia che non va mai in estinzione". Musicalmente posso dire solo che mi piacciono tanto: avrei da dire tante altre cose, ma mi limito a parlare delle parole, ché non mi sento idoneo né preparato per farlo con le note. Per quanto riguarda i testi, invece, è un miscuglio di giochi di parole, di rimandi, di preziosi incastri metrici in cui la stessa parola si fa importante chiave di volta negli arrangiamenti. Così come variano melodicamente, musicalmente, da una canzone all'altra, così le parole si vestono di abiti diversi in base alla situazione. Devo dirvi la verità, ho sempre un forte imbarazzo a fare recensioni di questo genere. Sono sempre fan degli artisti di cui vi parlo. Con Alfredo, poi, è in atto una bella collaborazione ma vi giuro che sono obiettivo al 100%, anche perché, se la stima non ci fosse, non avremmo iniziato nemmeno questa pazzoide avventura di una canzone scritta a quattro mani. Adoro la sua scrittura, ma soprattutto invidio - a fin di bene eh, ché di invidia ne esistono di buone e di pessime, come il colesterolo - il suo modo di interpretare: voce bella, potente, che riesce a piegarsi ad ogni tipo di situazione. Romantico in Terra madre, ballad struggente che racconta con rabbia ed amore le contraddizioni di un terra che, nello specifico è Bari, ma potrebbe essere Napoli, Londra, Barcellona, New York, il mondo. Istrionico, meraviglioso, incantevole in Cliché, canzone che non vi spiego perché è complicato: fate prima ad ascoltarla. Poi, Dio, non so come fa in Uomo di marzapane: qui caccia potenza, interpretazione, graffio, rabbia, ironia tutto in una sola emissione. Fantastico. Poi Amore Cialtrone, Luna, Indiesposto (un singolone pazzesco: semplice, non banale, vero, perfetto) L'ultimo, L'abito, - vado a memoria e non in ordine - Arte spicciola, Fior della censura, Storia di una disoccupata. Solitamente uno può chiamarle canzoni, brani, opere, lavori, singoli, ma in questo specifico caso è il caso di definirle "tracce", arricchendone polisemicamente il segno di un nuovo significato: le canzoni lasciano un segno, una traccia, tangibile sulla pelle, in testa, nella memoria. Gli U' Papun ti ricordano che le belle canzoni possono (devono) far pensare. Ti mostrano l'incubo, ti ci fanno cadere dentro e te lo spiegano, affinché tu possa ricordarlo, cantarlo, capirlo e, non a caso, 'u papunne, in gergo barese, è una sorta di uomo nero. Tutto ciò con melodie e interpretazioni ironiche, irriverenti, striscianti, satirici. Come vi dicevo, il disco resta contemporaneo, come le cose belle, come le cose intelligenti. Prendi ad esempio l'Assommoir di Zola. Sì, è vero, è perfettamente incastrato nella sua epoca, nei suoi luoghi, la Francia di metà '800, ma è tremendamente contemporaneo: la distanza tra ricchi e poveri, la difficoltà per quest'ultimi di emergere dalla merda e anzi il rischio di rimanerne sommersi sempre di più, il processo sociale che porta l'uomo ad essere assimilato, risucchiato, tritato, mangiato dalla macchina al punto da divenire esso stesso un androide privo di capacità intellettive, l'alcol che divora testa, mente e anima, il vizio che si fa più forte, più penetrante, nei quartieri in cui è tutto un ammassarsi promiscuo di genti. Oppure, che ne so, pensa a quanto siano ancora contemporanei Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell, la Guernica di Picasso. O anche come nel caso di Io non mi sento italiano, brano di Gaber, abilmente reinterpretato dai ragazzi di Bari. Anche qui, dal 2003, anno di pubblicazione della canzone, l'evoluzione della specie è ancora allo stato embrionale: "E' anche troppo chiaro agli occhi della gente che è tutto calcolato e non funziona niente". Mi ripeto: l'arte, ma in maniera particolare il genio, sta soprattutto nella sensibilità di saper cogliere, descrivere, fissare gli elementi più caratteristici di un'epoca, in certi casi anche di prevederli prima che accadano; e ahinoi, dal 2012 ad oggi, rispetto ai racconti degli U'Papun, davvero poco è cambiato, tanto che, per gli indisposti di tutto il mondo, può suonare come un inno la strofa di Indiesposto:
"Non posso farci niente se quello che provo
è un' indiesposizione latente non posso farci niente se il mio fragile stomaco gradisce solo cibo nutriente".
In sintesi, fidatevi, seguiteli, innamoratevene come ho fatto io.
Davvero, credetemi, sono pazzamente preso dagli U' Papun e l'idea di aver scritto una canzone insieme ad Alfredo, uno che canta, scrive e si esibisce come piace a me, è una di quelle cose di cui vantarsene in giro. Un po' quello che sto facendo giuggiurellonamente ora. E se non volete fidarvi di me, allora, di notte, mentre state rilassandovi nel vostro letto, dopo una giornata di lavoro stancante, debilitante, antropologicamente fagocitante, nel bel mezzo di un sogno bello, tipo che state seduti su di un'isola deserta, con un mojito in mano e qualcuno che vi soffia in faccia, sì, proprio nel momento di massimo godimento, climax tra i climax, deve venire a mangiarvi 'u papùnne. La band è così composta: Alfredo Colella – voce Gigi Lorusso – chitarra elettrica Enrico "Ze" Elia – pianoforte e sintetizzatore Mario Orlandi – basso elettrico Cristiano Valente – batteria e percussioni Francesco Tatone – performer
P.S. Quasi dimenticavo: il 22 Febbraio 2016 è uscito il loro nuovo singolo, Signora Fortuna, colonna sonora del film documentario sul gioco d'azzardo, "Vivere alla Grande", del regista Fabio Leli, e che vede l'entrata nel gruppo del nuovo batterista, Marco De Bellis.
Chi non lo ascolta e condivide è un Cabron! U' PAPUN - Signora Fortuna Pubblicato da U' Papun su Venerdì 4 marzo 2016
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