Ammetto la mia ignoranza: non conoscevo Gianmaria Testa. Lo scopro solo ora. Troppo tardi direte voi, può darsi. Anzi, certamente è così. Certo, non è che mo uno muore e quindi devi far vedere che ti piace per forza ché è necessario per far bella mostra di sé con gli amichetti indipendenti della scena indipendenteUnEttoEpocoMenoCheFaccioLascio. Semplicemente, scoprendolo, ascoltandolo, mi è venuto da pensare che l'unica cosa di "buono" che può fare la morte è darti alla storia. Già, perché si va via e di noi non resta altro ciò che si è fatto. Certo, rimane la polvere, il silenzio, qualcuno che farà i conti col dolore, con l'impresa delle pompe funebri, le grida, lo strazio, la sepoltura, poi l'assenza, già, il vuoto, ma poi passa il tempo, ci si fa il callo, e qualcuno si dimentica di te, ti mette in un angolo, dietro il disimpegno, poco dopo l'inconscio e di te, di noi, non resta che la storia, ciò che tu hai voluto dare di te, ciò che noi abbiamo voluto dare di noi. Per questo, fate, coltivatevi, producete: arte? Macché, non solo, dico solo realizzatevi!, fatelo con tutte le vostre forze. Con le unghie, con i denti, coi calci, Pretendetelo! Nell'arte, si sa come funziona in certi casi: quelli che di te avevano un giudizio snob, offuscato dalla gelosia, dall'ignoranza o dalla cecità, decanteranno poi le tue grandi qualità incomprese. O forse no. No, assolutamente. Diventerai un autore minore di un'epoca minore di un secolo minore in migliaia di miliardi di milioni di anni in cui, in generale l'uomo non conta a un cazzo, figurati tu, il cui pensiero quotidiano più assordante è che devi affrontare gli esami, devi pagare l'affitto o che sono giorni che non riesci ad andare al cesso come si deve. Le cose importanti, queste sono: scendere per strada, fare due tre chilometri a piedi, respirare a pieni polmoni merda di cane, bile d'automobile e, se ti va di culo, un po' di tempesta di primavera; dire di sì, togliersi gli orecchini, mettersi gli orecchini, trovare un modo per poter dire di no, avvinghiarsi al culo di qualcuno, trovare una vita, la tua, quella sacra, in cui poterti gettare e dire bene, adesso vi faccio neri; mettere mano allo stomaco, scavarlo, inciderlo, trovarci ancora un po' d'anima ancora integra, deriderlo, deriderti, sorridergli, sorridere, sorriderti e fare sì con la testa, piangere, crederci, e allora insistere, desiderare di avere un figlio, insegnargli tutto questo e tutto quello che imparerai avendo a che fare con lui; desiderare di tornare indietro per non commettere più nessun errore, anche se hai detto, ti sei detto, che non varrebbe la pena, faresti tutto tale e quale di nuovo, ché la merda, la puzza, l'errore, tutto è serve per capire, distogliere il capo, imparare. Vivere. Già, con le unghie, con i denti, coi calci, ma vivere. Nessuno può cancellare ciò che hai fatto, nemmeno la morte. Quindi date retta a me: fate, coltivatevi, producete, ché se non è questo il tempo per voi, voi sarete il tempo per qualcun altro dopo di voi. Ché, per come stiamo combinati, quando fra un milione di anni, o anche meno, una nuova civiltà ci guarderà dall'alto dei loro secoli di civilizzazione e analizzerà quella nostra, studierà le nostre corse futili, cercherà di capire il nostro denaro, si confronterà con la nostra cultura di massificante livellazione verso il basso protesa alla promozione del fatuo inutile e mediocre, allora sì che saremo rovinati. Ma saremo da tempo già polvere di polvere, direte voi. Chessenefrega. Eggià. Chissenefrega.
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Innegabile lo è. Fin quando l'attentato lo fanno fuori da quei confini che i barbari definiscono Europa ( e i latini Vecchio Impero Romano) tutto ci scivola addosso. Accade, non so nello specifico perché, ma accade. Non a tutti, ma a molti sì. Uno schiaffo ravvicinato, a questo assomiglia. Cioè, porgo la guancia per un retorico esempio: se ti do uno schiaffo, che sia da vicino o da lontano, sempre uno schiaffo resta, mi dirai, è vero, ma la distanza smorza l'urto. Se te ne do uno, un po' più da vicino, quello stesso schiaffo proprio uguale uguale non è. Già, la metafora è rischiosa, imprecisa, ma non saprei definire questo senso di schifo. Si viene colpiti nella tranquillità, nel silenzio caotico del cotidiani. Un attimo prima stavi bevendoti un caffè, parlavi del Napoli, della Juve, del goal di Maxi Lopez, dei soldi, del lavoro, del fatto che non sai come fare per dare una sterzata alla tua vita, della musica, e un attimo dopo bum e sei polvere, silenzio eterno. Agghiacciante, vero? Già. Ma non fateci caso, sorridete, perché è festa. Voi, noi, siamo vivi. Rallegratevene. Non per voi suona la campana a morte. Piangete, commuovetevi, ma subito dopo lasciate spazio per metterci un po' di riso e futilità, ché è giusto così: è sacrosanto. La sensibilità ci prende allo stomaco, ci incattivisce, ci impaurisce. Non so analizzare ciò che accade: leggo, scruto, mi informo, ma davvero ci capisco poco. Alzo le spalle, allargo le braccia, come Cristo in croce, sbuffo, scuoto la testa, poi vado avanti con le mie cose. A proposito di Cristo, la settimana santa e il sacrificio per il suo popolo. A saperlo per chi si andava a crocifiggere, secondo me, si sarebbe fatto i fatti suoi. Avrebbe organizzato una scampagnata intorno il Lago Laceno, avrebbe invitato amici e parenti, avrebbe fatto un paio di conti per capire in quanti sarebbero stati, avrebbe raccolto i soldi per la moltiplicazione dei pani, del vino, dei pesci, si sarebbe fatto un calcolo per capire quanta carbonella sarebbe servita, avrebbe fatto a meno della diavolina, capite a me, per conflitto d'interesse, e poi, scofanato sull'erba, si sarebbe ingozzato di casatiello, pastiera e cioccolata. Questo avrebbe fatto, se solo non avesse saputo - per deformazione trascendentale: è onnisciente lui - che, il giorno di Lunedì in Albis, piove sempre. Però, quando uno si sacrifica, non lo fa mica per un tornaconto personale. Si lotta, si dà un'idea, si crede in qualcosa, ci si batte il petto per far capire che esiste sì qualcosa oltre la vita, l'eternità, ma va cercato dentro ciascuno di noi, nel rispetto, nell'ascolto, nello studio, nella conoscenza. Quando si capirà tutto questo, da credente a modo mio, allora sì che potremmo parlare di resurrezione e crederci fino a battersi il petto.
Ci arrivo in ritardo, ma abbiate pietà: il disco è uscito che questo blog ancora non esisteva.
A loro li ho conosciuti qualche annetto fa: ero a Gallipoli, andai con i miei fratelli a sentire Caparezza al Parco Gondar. Aprirono il concerto e subito ce ne innamorammo - io e i miei fratelli - dalle prime canzoni: esecuzione, potenza musicale, esibizione, presenza scenica, testi. Non lo dico per parossismo, ma non sembrò nemmeno un concerto d'apertura: non voglio dire che Caparezza sembrò un ospite nel loro concerto, ma quasi. Ricordo che rimasi impressionato da Giulietta, una rivisitazione pornografica dell'amore tra la Capuleti e il Montecchi. Anzi, ad essere chiari, potrei meglio definirla una spiegazione esplicita di quel che è stato il sentimento amoroso tra i due, ché, chi ha letto bene l'opera di Shakespeare, sa bene che già era bella carica di sensualità spinta.
Il brano è contenuto nel loro primo disco, Fiori innocenti, in cui spicca, tra le altre cose, un feat con Caparezza, L'appapparenza.
Per quanto riguarda invece Cabron!(2012), l'album di cui vi sto parlando, è il secondo degli U' Papun, gruppo barese, e anche se ci arrivo tardi a recensirlo, c'è da dire "poco male" visto che è fortemente contemporaneo. Dalla prima all'ultima traccia c'è un forte riferimento a quelli che sono i cambiamenti politici, sociali ed antropologici di una società che fa di tutto per non smentirsi e perpetrare calorosamente, in secula seculorum, il gene dell'idiozia. Non a caso, intelligentemente e/o quasi profeticamente, Alfredo Colella, leader della band, canta, proprio nell'omonima traccia (la prima dell'album) "Il caprone è una bestia che non va mai in estinzione". Musicalmente posso dire solo che mi piacciono tanto: avrei da dire tante altre cose, ma mi limito a parlare delle parole, ché non mi sento idoneo né preparato per farlo con le note. Per quanto riguarda i testi, invece, è un miscuglio di giochi di parole, di rimandi, di preziosi incastri metrici in cui la stessa parola si fa importante chiave di volta negli arrangiamenti. Così come variano melodicamente, musicalmente, da una canzone all'altra, così le parole si vestono di abiti diversi in base alla situazione. Devo dirvi la verità, ho sempre un forte imbarazzo a fare recensioni di questo genere. Sono sempre fan degli artisti di cui vi parlo. Con Alfredo, poi, è in atto una bella collaborazione ma vi giuro che sono obiettivo al 100%, anche perché, se la stima non ci fosse, non avremmo iniziato nemmeno questa pazzoide avventura di una canzone scritta a quattro mani. Adoro la sua scrittura, ma soprattutto invidio - a fin di bene eh, ché di invidia ne esistono di buone e di pessime, come il colesterolo - il suo modo di interpretare: voce bella, potente, che riesce a piegarsi ad ogni tipo di situazione. Romantico in Terra madre, ballad struggente che racconta con rabbia ed amore le contraddizioni di un terra che, nello specifico è Bari, ma potrebbe essere Napoli, Londra, Barcellona, New York, il mondo. Istrionico, meraviglioso, incantevole in Cliché, canzone che non vi spiego perché è complicato: fate prima ad ascoltarla. Poi, Dio, non so come fa in Uomo di marzapane: qui caccia potenza, interpretazione, graffio, rabbia, ironia tutto in una sola emissione. Fantastico. Poi Amore Cialtrone, Luna, Indiesposto (un singolone pazzesco: semplice, non banale, vero, perfetto) L'ultimo, L'abito, - vado a memoria e non in ordine - Arte spicciola, Fior della censura, Storia di una disoccupata. Solitamente uno può chiamarle canzoni, brani, opere, lavori, singoli, ma in questo specifico caso è il caso di definirle "tracce", arricchendone polisemicamente il segno di un nuovo significato: le canzoni lasciano un segno, una traccia, tangibile sulla pelle, in testa, nella memoria. Gli U' Papun ti ricordano che le belle canzoni possono (devono) far pensare. Ti mostrano l'incubo, ti ci fanno cadere dentro e te lo spiegano, affinché tu possa ricordarlo, cantarlo, capirlo e, non a caso, 'u papunne, in gergo barese, è una sorta di uomo nero. Tutto ciò con melodie e interpretazioni ironiche, irriverenti, striscianti, satirici. Come vi dicevo, il disco resta contemporaneo, come le cose belle, come le cose intelligenti. Prendi ad esempio l'Assommoir di Zola. Sì, è vero, è perfettamente incastrato nella sua epoca, nei suoi luoghi, la Francia di metà '800, ma è tremendamente contemporaneo: la distanza tra ricchi e poveri, la difficoltà per quest'ultimi di emergere dalla merda e anzi il rischio di rimanerne sommersi sempre di più, il processo sociale che porta l'uomo ad essere assimilato, risucchiato, tritato, mangiato dalla macchina al punto da divenire esso stesso un androide privo di capacità intellettive, l'alcol che divora testa, mente e anima, il vizio che si fa più forte, più penetrante, nei quartieri in cui è tutto un ammassarsi promiscuo di genti. Oppure, che ne so, pensa a quanto siano ancora contemporanei Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell, la Guernica di Picasso. O anche come nel caso di Io non mi sento italiano, brano di Gaber, abilmente reinterpretato dai ragazzi di Bari. Anche qui, dal 2003, anno di pubblicazione della canzone, l'evoluzione della specie è ancora allo stato embrionale: "E' anche troppo chiaro agli occhi della gente che è tutto calcolato e non funziona niente". Mi ripeto: l'arte, ma in maniera particolare il genio, sta soprattutto nella sensibilità di saper cogliere, descrivere, fissare gli elementi più caratteristici di un'epoca, in certi casi anche di prevederli prima che accadano; e ahinoi, dal 2012 ad oggi, rispetto ai racconti degli U'Papun, davvero poco è cambiato, tanto che, per gli indisposti di tutto il mondo, può suonare come un inno la strofa di Indiesposto:
"Non posso farci niente se quello che provo
è un' indiesposizione latente non posso farci niente se il mio fragile stomaco gradisce solo cibo nutriente".
In sintesi, fidatevi, seguiteli, innamoratevene come ho fatto io.
Davvero, credetemi, sono pazzamente preso dagli U' Papun e l'idea di aver scritto una canzone insieme ad Alfredo, uno che canta, scrive e si esibisce come piace a me, è una di quelle cose di cui vantarsene in giro. Un po' quello che sto facendo giuggiurellonamente ora. E se non volete fidarvi di me, allora, di notte, mentre state rilassandovi nel vostro letto, dopo una giornata di lavoro stancante, debilitante, antropologicamente fagocitante, nel bel mezzo di un sogno bello, tipo che state seduti su di un'isola deserta, con un mojito in mano e qualcuno che vi soffia in faccia, sì, proprio nel momento di massimo godimento, climax tra i climax, deve venire a mangiarvi 'u papùnne. La band è così composta: Alfredo Colella – voce Gigi Lorusso – chitarra elettrica Enrico "Ze" Elia – pianoforte e sintetizzatore Mario Orlandi – basso elettrico Cristiano Valente – batteria e percussioni Francesco Tatone – performer
P.S. Quasi dimenticavo: il 22 Febbraio 2016 è uscito il loro nuovo singolo, Signora Fortuna, colonna sonora del film documentario sul gioco d'azzardo, "Vivere alla Grande", del regista Fabio Leli, e che vede l'entrata nel gruppo del nuovo batterista, Marco De Bellis.
Chi non lo ascolta e condivide è un Cabron! U' PAPUN - Signora Fortuna Pubblicato da U' Papun su Venerdì 4 marzo 2016 Odore di borotalco, di Proraso, di capelli asciutti, odore di phon, di dopobarba, odore di panni sporchi di lavoro, di chi passa di fretta, così com'è, per farsi il capello bello per la propria moglie, o per l'amante, odore di caffè, di passi lunghi e veloci del guaglione che, dal resto, si aspetta la mancia, quella dieci lire che ti fa sentire grande. Odore d'infanzia. Ero piccolo e non saprei dire bene quanti anni avessi. Nemmeno l'anno mi ricordo. Potrei controllare su internet, chiedere a casa, ma significherebbe imbrogliare i ricordi, accavallare odori e sensazioni che, nella mia mente, sono un tutt'uno. In estate, andavo sempre da papà. Finita la scuola, l'educazione familiare consisteva nel fatto che, quei pochi spicci che avrei speso nella salagiochi, cornetti di notte e squarcionerie per farmi bello con le ragazzine, dovessi guadagnarmeli lavorando da papà che teneva una putechella, il Salone, sì, con la Esse grande: Papà era barbiere. Un luogo metafisico, il salone, in cui personaggi di ogni tipo e di ogni classe s'incontrano e, dedicandosi per un po' a se stessi, si scordavano che fuori c'era un mondo in cui, a volte, ci si può rincontrare anche da nemici. Papà dice spesso che, al mattino, non alzava la serranda, ma apriva il sipario. Ero piccolo. Non arrivavo nemmeno ai volti per fare le barbe. Al massimo, spazzavo per terra, piegavo i camici, ogni tanto mi prendevo una lavata di capo, spesso andavo a prendere il caffè per i clienti. Eccoti 3000 lire, va da quello in mezzo alla piazza, che mi piace di più, lo sai, io sul caffè so' vezziuse, non ti scordare la bottiglia di the freddo alla pesca, piglia l'Estathe che mi piace di più, pigliane due va e il resto tienitelo per te. Una volta mi diedero addirittura 1000 lire di mancia. La mia prima 1000 lire, cazzo. Ce l'ho ancora conservata come monito: ogni cosa ha l'odore della tua pelle, dei tuoi sforzi, soprattutto i soldi. Ad ogni modo, in estate, tra una sforbiciata e l'altra, vedevamo la Nazionale e noi stavamo lì attaccati a commentare le giocate, le formazioni, deve giocare Baggio ché del Piero non si mantiene in piedi, 'sto Cesare Maldini non capisce un cazzo, hai visto Cannavaro come se l'è marcato bello a quel bacchettone di Flo? Mannaggia a Di Biagio. Mannaggia a Trezeguet. In particolare, parlavamo di calcio mercato. L'Inter fa sul serio quest'anno, ha comprato Peruzzi. Il Napoli punta sui talenti e su Zeman. Il Milan ha preso Shevchenko. La Roma con Batistuta fa piangere i fiorentini. La Juve, la si schifava anche allora. E poi c'era lui, il Pirata. Lo amavano tutti. La bandana era diventata un simbolo di meravigliosa appartenenza, prima che Berlusconi la utilizzasse per nascondere il processo in atto di metempsicosi del pelo del culo in chioma stopposa. Sia chiaro, eh, non sono mai stato un grande fan di ciclismo, non ci capisco niente tutt'ora. Adoro i gregari, quelli che si fanno il culo, quelli che di fronte ad una salita non si fanno sotto dalla paura, quelli nati senza particolari talenti se non la grinta, la voglia di esserci, di lottare, di aiutare. Per il resto, come ho detto, non ci ho mai capito niente, né come si prendano i punti, né come si diventi maglia gialla, rosa, a pois, a scacchi. Ma lui era Marco Pantani, cazzo, e non contava nient'altro. Addirittura qui, dove abito io, giocavamo ad imitarlo. Improvvisavamo piccole tappe e, a cazzo, in base al numero di giri, di polvere pestata con le nostre mountain bike, di sudore sotto alle ascelle, ci davamo punti e presunte maglie colorate. Arrivavo sempre ultimo, come al solito, ma non importava, facevo finta non mi importasse. Alla fine l'ho un po' odiata la bicicletta: scomodo il sellino; la mutanda non si stava buona nei pantaloni, ché dovevo stare sempre a sistemarmela, a togliermela da lì, proprio lì in mezzo; incapace a regolare il manubrio e le marce non andavano mai bene. E poi, mentre tutti già stavano a giocare ad altro, mentre mi toglievo la mutanda da lì, tutto comicamente grottescamente storto sulla bici, vedevi me che arrivavo ultimo. Però a lui lo amavo, Marco Pantani. Lo amavano tutti e tutti erano con lui, soprattutto quando si metteva con le punte sui pedali e iniziava a volare, di salita in salita. Ricordo dicessero fosse la sua specialità. I nervi, le vene sul cranio grosse così, il sudore, lo sguardo fisso davanti, senza mai mollare la presa sull'asfalto, le curve infilate di seguito, una dietro l'altra, senza mai rallentare, senza mai cedere un attimo. Una volta - non riesco a farmi venire in mente a che tour, a che giro, in che anno - un tifoso troppo affettuoso lo fece cadere per terra, ma lui non si scompose. Era andato talmente in fuga, ma talmente in fuga, che si rimise in pista e vinse lo stesso quella tappa, e con molti secondi di vantaggio. Poi, un giorno, dissero che si dopava, che Marco Pantani, il Pirata, era stato un imbroglione. Ci si accanirono giornalisti, opinionisti, benpensanti. Rimasi deluso. All'epoca ero poco più che un bambino, provai a non crederci, ma la verità ce l'avevano soltanto i grandi. Sarà stato un caso, perdonatami la retorica ma, d'allora in poi, l'odore del Proraso non sarebbe stato più lo stesso. Coincidenza vuole che, da quell'anno non sono andato più al Salone a guadagnarmi le mie potenziali squarcionerie estive. Oggi, ho letto che Pantani non si è mai dopato, non nel '99, quando lo cacciarono dal Giro d'Italia, e improvvisamente sento di nuovo odore di Proraso. Il Pirata resta il Pirata. Aggiunto il 18/03/2016 Dalle indagini sta venendo fuori che la camorra ha boicottato Pantani perché, altrimenti, se avesse vinto, non avrebbe potuto coprire le vincite delle scommesse clandestine. Se Pantani vinceva, la camorra andava in banca rotta. Pantani, con una pedalata, stava per sconfiggere la camorra. C'era una volta, tanto ma tanto tempo fa, una fanciulla che non riusciva proprio a smetterla di mangiare. Nutella, taralli col pepe, sfogliatella, melenzane sott'olio con scarpetta finale direttamente nel buccacciello, babbà, zeppola di san Giuseppe, pastiera, struffoli, pasta e cavolo, pasta e patate con la cotenna, pasta e pomodoro, pasta al forno, pizza, pizzette e pizza fritta, piede e muso di porco, piede e muso di vitello, alette di pollo, alette di pavone, alette di piccione, alette di gabbiano, a letto senza cena, mai. Insomma, una a cui non faceva schifo proprio niente. E mangia mangia ed ecco che il fidanzato si ritrovò pieno di debiti, perché si sa, un uomo non è uomo se non paga lui per la sua lei. E più lei mangiava e più lui era costretto a starsene appartato con gli strozzini per studiare il metodo più comodo per rateizzare il debito che, a ridosso di feste importanti (Pasqua, Natale, San Epifania, San Giuseppe: giorni durante i quali si mangiava quantomeno il quadruplo) si faceva sempre più profondo, tant'è che pure a loro - agli strozzini intendo - fece pena, e, con una mano sopra al cuore, accettarono che lo scontasse a duecento euro al mese, con tasso agevolato, col minimo degli interessi, per i prossimi 20 anni. E se fosse morto prima, beh, pazienza, pure loro c'hanno un cuore. Che volete farci, teneva fame la piccirella e lui, l'innamorato, nobile nel cuore, un galantuomo d'altri tempi incline ai canoni amorosi più ardimentosi del dolce stil novo, non riusciva proprio a dirle di no, alla sua Beatrice, anche perché, nonostante la sua fame spropositata, rimaneva comunque bella e magra, come la Venere di Botticelli. E d'altronde, lei sapeva come farsi perdonare. S'attaccava al suo corpo con la stessa fame con cui s'attaccava al cibo. Una fame macroscopica, mastodontica, ultracorporea, metaforica, appagante che abbracciava tutti e cinque sensi. Fu forse per questo motivo, l'estenuante attività fisica, che la nostra bella addormentata nel frigo conservava un fisico asciutto e statuario: gambe sode, seno possente, glutei atletici, pancia piatta come una tavola su cui si poteva bandire cene da 300 Trimalcioni. E intanto il debito cresceva e le tasche si appesantivano di vuoti siderali. Quella finirà per farti uccidere, figlio mio, è una scorfana vestita da puledra, arriverà a divorare anche te, figlio mio; ma cosa può una madre di fronte al potere della fe...deltà del cuore? Un giorno, mangiando mangiando, questa pacman delle fiabe incantate, divorò una mela libidonosa rosa succosa buonissima, in barba al fatto che, su di un cartello, ci fosse scritto non mangiare, rischio avvelenamento, morte, caput, aldilà. Dicono tutti così questi cartelli, non mangiare questo, non mangiare quest'altro, attenta all'etichetta, vedi bene gli ingredienti, i pesticidi, gli omicidi, i genocidi, gli infanticidi, i fratricidi, i peccati originali. La solita fissazione del non mangiare le mele, chissà perché la gente ce l'ha tanto con le mele. Stava pensando queste e altre cose simili, mentre strappavo l'ultimo morso di polpa attorno al torsolo, ché cadde come una pera cotta, lunga lunga a terra. Il principe, lui, il galantuomo, accorse al capezzale in lacrime, bestemmiando ai quattro venti tutto l'albero genealogico di ogni santo distribuito quà e là nel Paradiso. Ce l'aveva messo lui quel cartello, convinto sarebbe bastato a scoraggiare chiunque fosse stato tentato di mangiare quella mela, ma non aveva fatto conto con la sua donna. Era un noto imprenditore del ramo della produzione di mele avvelenate, per la realizzazione di fiabe internazionali. Coltivava ettari ed ettari di frutteti per rimpinzare il catering di tutte le vecchie streghe vendicatrici, vere protagoniste delle storie marchiate Disney. Una vera e propria multinazionale del veleno, per il quale, però non aveva antidoto. O almeno, ne conosceva qualcuno, ma erano adatte alle sole fiabe a lieto fine e lui, per vezzo, per miscredenza, per tempo, non ne conosceva nemmeno una. Se solo avesse letto un po' di più, se solo avesse creduto un tantinello in più nelle fatagioni. Le provò tutte per farla riprendere. Le urlò contro parolacce e complimenti, tentò cantandole un giorno all'improvviso, con le trombette, provò a passarle sotto al naso tutti i cibi più amava, le disse anche che si sarebbe candidato con il Partito dei puffi, Puffa Italia, se non si fosse svegliata, le baciò le labbra, le mani, provò a giacere con lei, per il più improbabile amplesso necrofilo mai raccontato in una fiaba, oh, ma niente, non ci fu verso. Stette al suo fianco, giorno, notte, settimane, mesi. Al sole, alle intemperie, durante le partite del Napoli. Un'immagine commovente, credetemi. Per stare pedissequamente al suo fianco e per una forma di autolesionismo, in odio verso la propria stessa attività, causa del malore della sua bella, si disinteressò della produzione di mele velenose. Non riuscendo più a coprire il debito mensile dei 200 euro, i creditori iniziarono a farsi sentire insistentemente. Fu costretto a vendere tutto, la derrate, le mele, la casa, il castello, il cavallo, la Ferrari. Intanto, il corpo, come se per troppi anni avesse retto epicamente contro una forza indomita proveniente da dentro e ora non ce la facesse più, iniziò a dimenarsi, a farsi spazio, ad allargarsi, a cedere, ad ingrassare: si fece enorme, le braccia quadruplicate rispetto a com'erano prima, il volto tutto, naso occhi bocca, ormai nascosto da decine e decine di chili di grasso, la pancia pareva un grosso consorzio internazionale di lardo di contrabbando; insomma, come aveva pronosticato, predetto, profetizzato la mamma, da puledra, la sua bella si fece scrofa e, del paragone con la Venere, non rimase che la botticella, la botte. Ma a lui non interessava: rimase lì, ogni giorno, senza mai schiodarsi nemmeno un secondo, ad accarezzarsela tutta, la sua bella principessa mangiona. Passarono i giorni, troppi, e il tempo, con uno sbuffo di vento, portò via nell'eternità le polveri assopite dell'innamorato che invano aspettò il risveglio dell'amata. Su di un marmo non rimase che il corpo deformato di una donna abbandonata da tutti, da tutto, dal fato, e di cui si raccontavano leggende strane, adipose, con trame losche ai confini di anguste dimensioni mefistofeliche. Colpa del diavolo, assolutamente. Quel corpo lì non avrebbe potuto inventarlo un Dio buono, no signore. Che nessuno si avvicini a lei. Non sia mai si venisse unti dal demonio. Capitò che un giorno, però, dopo secoli, passando di lì un giovane, uno straniero, affamato, indolenzito da lunghi giorni di digiuni, dopo mesi in cui, ramingo, ebbe girovagato tutto il globo, dopo che gli avevano incendiato il villaggio, vedendo quel corpo abnorme, decise di portarselo in una stanza che aveva affittato al centro della città, a due passi da un vecchio stabilimento abbandonato che una volta, tanti anni prima, aveva prodotto mele avvelenate, per note case produttrici di fiabe. Se la guardò bene bene, provò a svegliarla con tutti i modi possibili, le cantò addirittura un giorno all'improvviso, ma niente, non ci fu verso di ridestarla. Allora ci pensò su un po', giusto un paio di volte, per non passarsi troppo velocemente la mano sulla coscienza, poi alla fine si decise: l'avrebbe tagliata a pezzettini, messa in grossi boccaccielli sott'olio, messa in un congelatore, trasformata in salumi, in sugna per il casatiello, per i taralli e anche per un fare po' di sapone, ché l'igiene non va mai dimenticata. Prese il seghetto e iniziò a tagliuzzarla dall'alluce del piede destro, fischiettando I ragazzi della Curva b, quando la ragazza aprì gli occhi e, dolorante, le scappò da bocca Juve storia di un grande amore. Fu allora che il giovane, impaurito, ma pieno d'ardore in corpo, offeso da quelle poche sporche note, le mise in faccia uno straccio tutto arrepezzato per tapparle la bocca zozza, e così continuò a segarla al collo, sgozzandola con due colpi netti. Il giovane si arricchì la pancia e la tasche, fruttando un bel po' di soldoni per la vendita all'ingrosso del grasso della principessa. Con i proventi, comprò lo stabilimento abbandonato, estinse il debito che aveva contratto il vecchio proprietario nei confronti dei creditori e dei suoi eredi, dandosi così alla produzione di mele avvelenate. E tutti vissero una bella schifezza. Morale della favola: Non ne ho assolutamente idea o forse sì? Rem tene, verba sequentur [Catone – Orationes1 ] Sono ormai quattro mesi, sei giorni e dieci ore che non scrivo; totale: tremilatrentaquattro ore. Ti rendi conto? Tremilatrentaquattro ore a disposizione andati in fumo. Puff, bruciati, persi, scorsi, non recuperabili. Va be’, non chiedermi come ho calcolato tutto che, se te lo spiegassi, mi rinchiuderesti in un manicomio. Chiunque, a leggermi, mi prenderebbe per il culo. E d'altronde, facendo giusto un paio di conticini, è ovvio che il tempo dedicabile alla scrittura si riduca drasticamente se, a queste ore, sottraggo quelle spese per dormire, lavorare, mangiare e svolgere tutte le funzioni igienico-gastrointestinali necessarie per un viver sano; più o meno, in teoria, mi rimarrebbero cinquecentonove ore, molte molte molte meno. Vuoi provare a fare i conti? Lo vuoi mantenere tu il tempo? Il tempo… Una cassa in quattro, down stroke o up stroke?, un ticchettio, un come stai, la memoria, il dettato delle elementari, la maestra brava, i regoli, una libreria piena di libri, la dannata corsa dopo la maturità, il tentativo di fermarlo, una cacata di fretta, la corsa prima della maturità, il tentativo di riviverlo, un loop, ctrl+c e ctrl+v, una cacata rilassata con un libro tra le mani, svelto, impaurito, viscoso, un capitone nel lavandino, una metafora brutta sul serio, praticamente di merda, ctrl+x e ctrl+v, una barba corta, la vecchiaia, l’invecchiarsi, il ringiovanirsi, il botulino, una barba lunga, la tintura, si rivede la ricrescita, ctrl+z, l’illusione, uno stereotipo, un limite della mente alla mente, un limite del corpo al corpo, un volo, il primo volo, un volo di due ore e mezzo, sei di autobus, la distanza Madrid-Caceres, l'Estremadura e la sua sconfinata bellezza, il ritorno, la gonna dell’hostess, la voce del pilota, sei mesi, cos’è, ne? cos’è il tempo, oh? cos’è?, Su, cos’è? cos’è cos’è cos’è? Che poi, uno può pure chiedersi perché tutta questa mania, come se fosse obbligatorio scrivere, come se fosse un problema impantanarsi, perdersi le parole, quando prima t'eri perso in mezzo alle parole. Mi irrito ed è come se avessi un nodo in gola, una placca influenzale che rende uno schifo anche il più delizioso dei piatti. È tutto un mucchio di bolo, muchi secchi e succhi gastrici che esplodono in mille pim pum pam, zampillando sulle pareti dello stomaco come miliardi di scintille di una brace stuzzicata con dell'alcol. Cinquecentonove ore… Cinquecentonove… Tieni in pugno la storia, le parole verranno da sole…, mi consiglieresti, se tu fossi Catone. Ma le parole scappano, si nascondono… fuggono via… mio caro Marco Porcio. Vedi: quando sembra che un’idea stia per afferrarmi e scaraventarmi in un angolo; quando sembra volermi costringere a diluire a tutti i costi ogni mio istante di eccitazione in quella che credo sarà la mia frase migliore; quando momenti come questi mi colgono… puff! tutto scivola via, come un alito di fumo che striscia in una crepa nascosta tra gli infissi della finestra. Sembra che non possa mai passare in una ferita così stretta, eppure… È un'onda, un frangente. Prodigiosa, solitaria, come un bicchiere di vino rosso in gola. Cerco di trattenerla e di farla mia. Poi, mi fermo e penso al da farsi, e nella frazione di secondo che passa tra le due azioni, tutto si sfarina: il silenzio consuma l’ispirazione e mi dimentica in ghirigori senza senso. Giù, nei cassetti immaginari del tempo e nel pugno di polvere che da questi si solleva, prendo atto che l'ho persa. C’era una volta… e poi ci do dentro con gli scarabocchi. Il foglio si fa, via via, una foresta di correzioni, disegnini e cancellature. Più cancellature che correzioni. Come una descrizione affannosa, imprecisa, offuscata dal ricordo sclerotico, si salvano poche parole soltanto e non mi resta che arrendermi alla confusione della penna. Povero foglio… Aveva gli occhi azzurri e il mento… No, non va bene. AaAaAa....eccola, eccola che viene, l'idea, eccola ci sono.... poi niente... solo rabbia... fogli appallottolati... rabbia, rabbia e ancora rabbia... poi... frustrazione che va via e lascia passare la rassegnazione... uff... ecco...calma... Passo al portatile. La modernità non ti avvilisce di fronte agli insuccessi: basta premere un tasto e il foglio elettronico torna bianco. Semplice! Nessun abuso di carta, nessuna cancellatura, nessun ricordo, nessuna frustrazione… almeno fino a quando non ti accorgi del puntatore ballerino che compare e scompare, si mostra e si nasconde, cuccù, ti prende in giro, tetté. Ma non ti preoccupare, è il classico blocco dello scrittore, giuro che ne sono consapevole, ma come mai non riesco a scrollarmi da dosso quest’ansia? Ho la mente aggrovigliata… il buio ricama le mie esigenze, il silenzio le percuote, io le ascolto, ma non le respiro, non ci riesco: vorrei tanto dare senso alle parole e non alle paure; è che, ogni volta, sento di non essere mai all'altezza delle mie ansie, delle mie ambizioni. 1 Citazione che non ha alcuno scopo pedagodico o vanesio. Iniziare con un “Baby one more time” avrebbe significato inciampare in fastidiosi grattacapi circa eventuali diritti d'autore. Ma niente paura! L'artista in questione, qualora non lo sapeste, è ormai decomposto da secoli. “Ciaoooo. Come stai?”’ “ Bene, tesoro mio. E tu”? “ Insomma”. “ Cos’è successo? Dì tutto a me. Lo sai: sei la mia nipotina preferita e per te farei di tutto”. “ Ma niente. Oggi ho litigato con uno a scuola”. Lo disse arricciando la bocca, come quando viene da piangere proprio mentre stai parlando e si è convinti di trattenere così le lacrime. Tu parli per non farlo, per orgoglio, forse, ma anche per vergogna. Ma che ne sanno i bambini dell'orgoglio? “ Ah… Vieni qui e siediti sulle mie ginocchia, così mi racconti. A-aa… Stai comoda”? “ Shi”. “ Dai, su… dimmi, come mai hai litigato con ‘uno’ ”? “ Giura però che non lo dirai alla mamma e nemmeno a papà”. “ Giuro”! “ No, con le dita no. Mi hanno detto che per fare una promessa basta stringersi la mano. Così fanno i grandi: baciare o incrociare le dita è da bambini”. “ mmmm... ook... vediamo... eccola.... qua la mano. Così fanno i grandi hai detto, giusto”? “ Così mi hanno detto”. “ Dai, non fare così, sorridi...ecco così... dimmi tutto”. “ Ma niente, ho litigato con questo perché…” “ Su, dimmi. Non ti preoccupare. Perché avete litigato”? “ Un momento. Fammelo dire…”. “ Hai ragione, scusa… ”? “ aaallora...c'è questo mio compagno di scuola. Dice che le storie delle favole che la mamma mi legge la sera sono tutte bugie”. “ E tu gli hai creduto”? “ No, però mi ha demoralizzata”. “ Eeee. Cos’è questa brutta parola? Chi te l’ha insegnata”? “ Quale”? “ Hai otto anni, non puoi essere DE-MO-RA-LI-ZZATA”! “ E invece sì. Perché ci credo in quelle favole. Ci credo che Ansel e Gretel alla fine riescono a scappare dalla vecchia strega, ad esempio… Oppure che Biancaneve trova il suo principe azzurro… Perché sorridi”? “ Perché sei sveglia e sono tanto felice che tu lo sia”… “ Si ma chi ha ragione? Io sogno di restare piccola per sempre, come Peter Pan. Lo sai? È la mia fiaba preferita”. “ Lo so. Tua mamma me l’ha detto”. “ Allora”? “ Cosa”? “ lì fuori è veramente diverso dalle storie che mi racconta la mamma”? “ Sì”. “...”. “...”. “ Ma allora perché me le racconta? Perché mi legge tante bugie”? Si gettò dritta nei miei occhi. Pretendeva una risposta, una sola, una qualunque, ma che fosse vera. Le poggiai così una mano sulle guance, poi, stringendole piano piano il nasino tra l’indice e il medio, come quando era più piccola, provai a sorriderle, sperando di prendere tempo, provando a cambiare discorso, ma fu inutile. Avrà pensato sei proprio un idiota, ma mia nipote è troppo educata per dirmelo. Non ci fu modo di prendere tempo, di cambiare discorso. Niente, proprio non voleva. Anzi, continuò a fissarmi con quei suoi occhi attenti e vispi. Non me li toglieva da dosso, come a voler appigliarsi a me con forza, occhi come uncini, obbligandomi a stare lì, senza scappare. “Ascoltami bene Fefi: Non è facile capire certe cose. E, a dire il vero, non so nemmeno se sono in grado di spiegartele. Quindi, davvero, seguimi e non distrarti. Ok”? Mi fece di sì con la testolina, con occhi ancora più grandi e speranzosi, puntati su di me come due obiettivi da cinepresa. “ Ok. Allora... Il mondo lì fuori è e sarà diverso da come tu te lo immagini. Qualcuno, un giorno, ti dirà che tutto ciò in cui credi è una stupida uto…mmm come dire... solo un sogno irrealizzabile, ma tu non devi ascoltarli. Nemmeno se a dirtele sono le persone che vuoi più bene. A volte, parleranno per invidia perché, vedi, a loro nessuno gliele ha lette le fiabe, nemmeno da bambini. Altre volte, dicendoti che è tutto finto, che la realtà è un'altra, penseranno sia un modo per aiutarti, ma se vuoi resistere, se vuoi davvero proteggerle le tue fiabe, ti do un piccolo consiglio: conserva dentro al tuo cuoricino tutto ciò in cui credi fermamente, e se avrai voglia di condividerli con gli altri, fallo pure, perché sarà una cosa giusta. Anzi, cerca di spiegare sempre il perché ci tieni tanto alle tue storie. Non averne mai vergogna. Anche quando non capiranno, perché è molto probabile che non ci riusciranno ma tu, Fefi, tu dà loro un motivo per tacere, convincili che a sbagliare sono soltanto loro. Forse ti diranno che prima o poi te ne fregherai delle fiabe, delle storie e dei libri, che basterà diventare adulti, per non crederci più. Tu però non credergli. Non farlo mai. Promettimelo, promettimi che crederai sempre alle fiabe. Ti prego”. “ Ok. Ci crederò”. “ Sempre”? “ Sì”. “ Qua la mano”? “ Qua la mano..” “ Ti voglio bene, Fefi”. “ Anche io, perché sei tanto intelligente e sono felice che tu lo sia”. Niente male la mia nipotina, eh? E questa è una storia. Un'altra è questa, leggi leggi, ascolta: era un pomeriggio freddo, stavo dandole una mano coi compiti. Stavamo leggendo insieme un passo de "La Gabbianella e il gatto" di Luis Sepulveda e ad un certo punto mi chiede: “Ma cosa sono le a-a-aringhe”? “ Dei pesciolini mooooolti piccoli”. “ Ah….E i gabbiani mangiano le aringhe” ? “ Sì….”. Pausa. Si guardò le mani come a volersi cercare le risposte tra le dita. Sbuffò, quasi irrequieta, perché non ne trovò nessuna. “ Ma io non capisco! sono esseri viventi! Perché mangiano altri esseri viventi”?! Ti giuro, non trovai nulla di meglio da dirle che questo: “ Ma perché hanno fame e le aringhe sono il loro piatto preferito…” “ Piatto preferito”? Aveva gli occhi lucidi di dubbio. Era una filosofa alle prese con riflessioni più grandi anche di me. “ Sì…” “ Ma anche noi mangiamo altri animali”? “ Beh… sì”. “ Oh, no…” “ Che c’è”? “ Anche il gatto”? “ No, macché! Il gatto no…” “ Ah… Menomale… non potrei mai mangiare la mia Cenerentola…Ma perché ce li mangiamo? Non capisco proprio…Io non vorrei mai essere mangiata da un animale”. “ Ma ci sono animali che potrebbero farlo, come il leone”. Mi pentii subito di aver risposto in questo modo: ingenuamente, pensai che sarebbe stato difficile, per una bambina di otto anni, capire certe cose senza che... cioè, capitemi, dire ad una bambina che esistono animali che possono sbranarti - anche se è un'eventualità remota - non è poi così normale. Sono cose serie queste, eh, mica facili, ma mioddio, perdona la mia ingenuità: Fefy, con la tipica vocina pungente di chi la sa lunga, mi rispose: “ Ma il leone non lo sa”… “ Che cosa”? “ Che non è giusto mangiare altri animali"! Poi fu orario di pranzo, la mamma venne per prendersela. Menomale. Proprio non avrei saputo come fare per continuare a tenere testa alla sua curiosità. Eppure.. senti… leggi qua: qualche giorno dopo tornò a trovarmi e, senza aver dimenticato il discorso, come a voler a tutti i costi concludere un pensiero interrotto, tutto d'uno soffio, per paura che la interrompessi, mi disse: “ Non è giusto mangiare chi corre, nuota o sogna di volare come me”… Disarmante. Vero? Ma di che mi stupisco più? Una volta, la madre la portò al circo. Era la prima volta che ci andava. Aveva quattro anni. C'erano i trapezisti, i giocolieri, i pagliacci... Fefy sembrava divertita. Aveva la vaschetta del popcorn tra le mani. Poi uscirono i leoni, le tigri, gli struzzi, gli elefanti, le foche, i leocorni, le fruste, i cerchi infuocati, le gabbie... Fefy cambiò espressione. “ Guarda Fefy, a mamma, i leoni... sono belli vero”? La piccola fece cadere del pop corn. “ Che c'è Fefy, a mamma”? Poi la frusta colpì, si sentì un lamento, poi un ruggito del domatore. Il popcorn continuava a cadere dove voleva. Era dappertutto, sotto le suole, tra le sedie, nei calzini, per terra. “ Mamma, scusa... ma perché gli animali sono qui dentro e non nella foreeesta”? Lo disse con un filino di voce, tremante, perplessa. La mamma mi racconta sempre che ne rimase spiazzata. Ebbe quasi vergogna nel sentire la figlia farle una domanda così semplice ma, a pensarci, che ne sanno certi adulti della vergogna? “ Fefy, guarda, se vuoi, ce ne andiamo...” “ Sì mamma... però mi compri il popcoooorn”? Le sigarette, la droga, il cibo, la masturbazione, una corsa, una birra, due birre, tre birre, un pianto, un libro di Bruno Vespa. Tante sono le terapie possibili per debellare - quotidianamante - la malattia più atroce dei nostri tempi: la pucundria. E chi è napoletano lo sa: la pucundria, come diceva Pino Daniele, può sbatterti ogni minuto in petto, arriva quando meno te ne accorgi, all'improvviso, pure mentre stai prendendo un caffè da solo, pure mentre stai guardandoti la tv per i cazzi tuoi; già, e ti piglia quando sei più stanco, distratto, quando sei più debole, indifeso, e senti improvvisamente che ti manca qualcosa, forse qualcuno. Un desiderio recondito, una tristezza ancestrale. Chi lo sa. Può significare tutto, può significare niente, ma in linea generale, la puncundria è una specie di catalogo astratto di aggregati negativi. Un sentimento che ti toglie la voglia di fare tutto. Però - dicevo - ci sono delle terapie. Ognuno ne ha una. La mia? Giuro, chi mi conosce lo sa: quando la pucundria sale a me, io mi metto al computer, apro Youtube e mi faccio un'overdose di Massimo Troisi. Film, interviste, sketch. Tutto. Il mio preferito è "Che ora è", di Ettore Scola e con Marcello Mastroianni: mi fa impazzire. Per il tema - il rapporto zigrinato tra un padre e un figlio - per la pacatezza della recitazione: qui, Troisi è Troisi, ma senza fare il Troisi. A volte, mi manca come fosse un amico mio a mancarmi. Eppure, l'ho conosciuto postumo. Il 1994, quando morì, tenevo sei anni. Chi cazzo fosse Massimo Troisi, non lo sapevo mica. Nemmeno mi ricordo come e quando arrivò la notizia. Papà mi dice sempre fu come se a morire fosse stato uno di famiglia. Tipo come con Pino Daniele. Già, deve essere andata proprio così. Lo amo ché, quando finalmente la pucundira mi passa e va a nascondersi di nuovo, a riposo, nelle intercapedini dei nervi più insicuri, mi sembra di svegliarmi come in un sogno e penso sia strano non avere la possibilità di conoscerlo e dirgli grazie. Almeno, non su questa terra, non in mezzo a queste onde gravitazionali, non in questo universo. Amo il suo linguaggio afasico, la balbuzie, l'incespicarsi su ogni singola parola, che è l'incertezza dell'anima, l'insicurezza di un uomo e dell'uomo che si fa parola; amo la sfacciataggine, l'espressività, il riso, il cinismo, quando ti dà un po' l'uno e un po' l'altro nello stesso sorriso, con l'acredine che ti esce fuori, a poco a poco, come quando l'ultima mandorla che ti porti alla bocca è amara, e ti viene dentro la malinconia del dolce; amo come riesce a scandire l'amore e le relazioni umane fin dentro il particolare, oltre le maschere, gli schemi e le pose; amo la sua napoletanità senza pretese, senza folklore, senza spaghetti e mandolini nascosti nelle pieghe dei pantaloni, sulle spalle, nelle tasche. Deve essere questo il motivo per cui lo amo. Soprattutto. A volte, ho la sensazione che ancora pochi sono quelli che ne hanno imparato bene la lezione, la sua e quella di Pino eh: orgogliosi di essere napoletani, ostentarlo anche, ma andando oltre, molto oltre. (Tiene la forma, l'uso del dialetto fino agli estremi - "Sono loro a doversi sforzare a capirmi" -, ma stravolge i contenuti: "un napoletano non può viaggiare e basta senza essere un emigrante "?) Come nel video qui sotto: con ironia, un po' di cinico sarcasmo, Troisi ci mette un niente a distruggere tutti i cliché: per chi ce li impone e per chi se li impone addosso. Oggi avrebbe compiuto 63 anni ed uno come lui, in questi giorni caotici, tristi, afflitti da una lunga e inconsolabile stagione di pucundria di stato, chissà cosa avrebbe detto, chissà cosa avrebbe fatto. Chissà come l'avrebbe detto e fatto. A volte me lo domando, a volte no, boh, ad ogni modo è inutile pensarci. Lui è lì: scolpito nella storia, pronto ad insegnarvi com'è che si sorride. Pigliatavillo, imparatelo a memoria, studiatelo, non avete scuse. E niente, io mi sono fatto, anche questa notte, la mia overdose. * Per chi se lo fosse chiesto: prendere un libro di Bruno Vespa cura eccome dalla pucundria. Come? Voi lo prendete e poi lo buttate nella spazzatura. Fatto? Ecco, non vi sentite meglio? << Lo so, è colpa mia. Gli ho detto che non lo amavo e che piuttosto mi sarei fatta suora. Già. Ho detto proprio così: suora, casta, sola, zitella, ma mai con lui. Lui mi ha creduto, per fortuna. Già. Perché sapevo bene che il destino, quando ci si mette, non fa altro che guai, figuriamoci a volercisi mettere in mezzo, a volergli stravolgere i piani. No, no. Si può far solo peggio. Si era solo invaghito di me, lo so io, poi lo ha capito pure lui. Diceva di amarmi, tesseva per me lodi cortesi, ma sapevo fosse tutta fuffa, e niente più. Attratto? Può darsi di sì, credo davvero bruciasse di passione per me, ma cos'è l'attrazione sessuale, il corpo, la carne, di fronte all'amore di tutta una vita? Niente. Già, dimenticavo: la vita. Avrei potuto salvarlo, avrei potuto dirgli "Oh Romeo, ti amo anche io, uniamo in matrimonio questo nostro ardore", l'avrei potuto fare, ma avrei sbagliato. Lui non mi amava sul serio, ve l'ho detto. Io? Beh, come vi ho raccontato, gli ho detto di non amarlo. Già, ma Dio solo sa quanto queste labbra, queste mani, questo corpo in realtà fremessero per ogni centimetro del suo; per ogni angolo della sua anima, avrei messo in vendita dieci volte la mia, se solo fossi stata sicura che i suoi sentimenti fossero stati sinceri, reali e non la semplice pretesa di un giovane qualunque che si mette in testa di fare bella mostra del proprio aspetto e delle sue capacità di corteggiatore. Ecco, era chiaro esasperasse a vuoto dei cliché. L'avevo capito, ma, credetemi, avrei dato qualsiasi cosa, avrei rinnegato anch'io il mio nome, affinché proprio così non fosse. Dio, sì, l'ho amato e l'amo tutt'ora, vedete? Vedete come fremo? Come mi agito? Lo vedete o no? E basta, basta, lasciatemi stare, andate via, devo calmarmi, basta, devo stare tranquilla. Qui si gela, nell'anima dico. Non c'è posto per la rabbia, tantomeno per i ricordi, figuriamoci per l'amore. Oggi, qui, regna il silenzio, nient'altro. Sì, sì, ve l'ho detto, ve lo ripeto, l'ho amato, ed è proprio per questo che l'ho lasciato andare via. Già. Una donna lo sa, sa bene quando non tocca a lei. La morte? Certo, mi ripeto, avrei potuto salvarlo, ma a che prezzo? Che fosse destinata a lei, lo sapevo. A lei tutto, e il corpo, e l'anima, tutto, e quindi niente: che se lo prendesse. Gliel'ho reso, senza tanti onori, senza imbellettare oltre la storia col mio nome. Non mi ci sono voluta mettere in mezzo io. Diteglielo a quelli lì. Sì, sono rimasta sola, mio padre mi ha rinnegata, mia madre mi ha odiato. Sono rimasta sola, perché irrimediabilmente legata a lui. Sebbene non mi amasse. Sì. Non mi amava, non mi ha mai amato. Lo sentivo? L'ho sognato? Me lo hanno raccontato? L'ho letto? Cosa importa a voi? Lo sapevo, e basta. Secondo voi, avrei dovuto invece confessargli il mio amore, prima che la incontrasse, prima che si maledicesse? Per cosa? Per legarlo a me? Così avrebbe avuto salva la vita, dite; e con ciò? "È preferibile l'aver amato e aver perso l'amore al non aver amato affatto", dicevano. Già, so bene quanto amore avrei potuto dargli, gli avrei restituito la vita, ma a che prezzo? Certe cose le capiamo dal principio, noi donne, sono gli uomini ad arrivarci tardi, troppo tardi. Io, da par mio, sapevo benissimo fosse destinato a morire d'amore per un'altra>>. Prima di innamorarsi perdutamente di Giulietta, Romeo corteggia, senza essere corrisposto, tale Rosalina. Shakespeare passa oltre, non racconta nulla di lei. Semplicemente, dice che è stato un innamoramento fatuo e superficiale, tant'è che Romeo, non appena incontra Giulietta, la dimentica totalmente. Mi sono limitato a immaginare questo soliloquio che, dall'eternità, porta a galla un'altra versione dei fatti. Ritratto di Paquio Proculo e sua moglie. Affresco, Museo Archeologico, Napoli 20, 30 d.c. Pompei. - Amo' - Che c'è ? - Ci ho pensato tanto e sono arrivata a questa conclusione: dovremmo farci un ritratto. - Un che? - Un ritratto. - E che è ? - Uff, non sai mai niente. Un ritratto è un disegno. - Eh, ma un disegno di cosa? - Di me e te. - Di me e te? - Mammamì, e che palle, devo spiegarti proprio tutto? Un ritratto di me e te, sì. - In che senso? - Allora. I ritratti li fanno i ricchi, no? A noi serve per dimostrare a tutti che adesso abbiamo più soldi, che siamo meglio di altri. E capito mo? - Ma di altri chi? - Ma come chi? I poveri, i parvenue, la plebaglia, 'e pezzente. - Ma perché dobbiamo fare questa cosa? Che ce ne dobbiamo fare. Io non ci capisco niente di pittura e nemmeno tu. Dai, noi siamo gente umile, io faccio il panettiere, papà era un sannita venuto come schiavo a Roma e, sì, sarà pure riuscito ad affrancarsi, ma resta che siamo pur sempre gente umile. I vicini lo sanno che viviamo del pane. Sarebbe comunque una palla bella e buona. Ci facciamo fessi da soli. - Ma dai, a parte che noi avremmo un ritratto e loro no, quindi, in ogni caso, un pucurillo meglio lo saremmo, perciò dobbiamo atteggiarci, ammore mio, lo devono sapere tutti quanti che io e te teniamo i soldi. L'arte ti fa bello, ti fa nobile, ti eleva, pure se non ci capisci niente. E poi noi non lo facciamo mica solo per noi. Noi lo facciamo per i nostri figli, per chi verrà dopo di noi. Noi lo facciamo per la storia. - In che senso per la storia? - In che senso, in che senso, e che marina, sai dire solo in che senso? - E ja ciuciù, scusa, spiega ja, lo sai, io so' panettiere, so' umile, so' uomo onesto, non le capisco certe cose. Non litighiamo, amantium irae amoris integratio est. Lo sai, tu sei più brava di me in queste cose. - Allora, immagina: fra secoli, quando questo quadro verrà ritrovato dagli uomini del futuro, diranno che Paulo Procuro e sua moglie erano due persone benestanti, gente potente, blasonate. Non potranno pensare ad altro. Chi può permettersi di farsi una foto in quest'epoca se non i ricchi? Diventeremo famosi come i re, come gli imperatori, come gli dei. Come dicono i latini? Ars longa, vita brevis. E poi, se non fai come dico io, non te la do più fino alla prossima eruzione del Vesuvio. - Mmm, va be', ja, va bene, Per te questo d'altro ciuciù, e poi, come diceva la zia di Latina: fama crescit eundo. Cosa dobbiamo fare? - Ah, ti amo vita mia. Grazie grazie. Allora, è semplice, chiamiamo il miglior artista in circolazione, ci mettiamo in posa e lui ci ritrae. Dobbiamo vestirci nel miglior modo possibile, dobbiamo ostentare la nostra ricchezza, è chiaro, in modo capiscano che siamo gente nobile, d'alto rango. - Tipo? - Io mi faccio bella, mi aggiusto i capelli, così come vuole la moda delle grandi matrone romane, mi metto un paio di orecchini dorati, e tra le mani una tavoletta cerata e lo stilo, così, per sembrare acculturata. - U, ed io? - E tu ti metti con una bella toga da cittadino romano addosso, e con un bel papiro in mano sai come sei bello ammore mio? Sembrerai un uomo di lettere, un poeta, uno scrittore. Dobbiamo sembrare colti, ricchi, altolocati, intellettuali, ammore mio. E poi, immagina che bella figura ci farai con i clienti. Pensa che successo per il pistrinum. Domani, a via dell'Abbondanza tutti diranno che Paulo Procuro e sua moglie sono i più raffinati cittadini di tutta Pompei. Per la storia, il futuro è tutto nostro ammore mio, non sapranno nemmeno che tu sei figlio di schiavo, che fai un lavoro umile e che io ho preso in affitto il vestito. Corrompiamo la memoria, modifichiamo la storia, resteremo immortali e come vogliamo noi. E poi, per qualsiasi cosa, come di dice? Ai post l'ardua sentenza. - Post? - Sì, Post. - Non si diceva posteri? - No no, era post, ne sono sicura. - Va be', ad ogni modo, dai da, già non vedo l'ora. Mi hai fatto arrecreare co' sto discorso, ciuciù. E poi, come diceva mamma' nihil ausus nihil permanere et non vitae, sed scholae discimus.. 14 febbraio 2016 audioguida: "L'affresco ritrae una coppia di borghesi pompeiani, quasi certamente marito e moglie. Essi vengono comunemente indicati come Paquio Proculo e sua moglie. [...] Il panettiere - che possedeva il suo pistrinum sulla via dell'Abbondanza - sull'affresco si presenta abbigliato con la toga, qualificandosi in tal modo come cittadino romano. Si è ipotizzato, inoltre, che i caratteri somatici dei due personaggi raffigurati ne tradiscano le origini sannitiche, che spiegherebbe il desiderio di ostentazione dello stato sociale raggiunto". (tratto da Wikipedia) P.s. anacronismi e forzature - sarebbe ovvio ma è meglio specificarlo - sono state volute ai fini del funzionamento della storiella. 2:14, siamo io e una tazzona blu di Superman, in cucina. Aspe', specifico, ché, nel 2016, la lingua è ancora una gang bang di polisemie zozze, che crea spesso confusione e è nnato nu criaturo è nato niro: la tazzona è mia, non l'ho scippata di mano a Superman. Semplicemente, ha lo sfondo blu e un grosso logo del suddetto eroe. Che poi, sarebbe stata ardua l'impresa di scippare di mano a Superman una qualsiasi cosa. Certo, con un pugno di kriptonite, sarebbe pure possibile, ma dove la trovi una kriptoneria aperta, a quest'ora, alle 2:18? Ad ogni modo, mi son fatto un po' di camomilla: è questo il contenuto del tazzone con sopra stampato il logo di Superman. Il fatto è che non ho sonno. La nostra è una generazione, come dire, curiosa. E già. Qualcuno direbbe strana, sciocca, bruciata, persa, beat, svogliata, ma io vi dico che è curiosa, ma non nel senso che è incuriosita, eh, per carità. Io dico proprio nel senso napoletano del termine: curiosa. Pensateci. Non abbiamo mai un cazzo. Non abbiamo un lavoro, non abbiamo futuro, non abbiamo soldi, non abbiamo sanità, istruzione e sicurezza a norma d'uomo del 2016, non abbiamo un presidente del consiglio eletto, non abbiamo una vita, non abbiamo voglia di fare niente, non abbiamo sonno. Siamo la generazione degli insonni. In compenso, però, io ho un leggero mal di gola. Per questo mi sono fatto un po' di camomilla. Dovrebbe essere questo il suo potere, no? Ti allieva il mal di gola, se ti va di culo, te lo toglie del tutto, previa nu pucurillo di miele, ma, soprattutto dovrebbe restituirti il sonno. "Infatti, se ci pensi, chi dice che tre uomini non possano volersi bene e partorire cose belle, farle crescere, educarle"? Che c'entra? Se se, che c'entra. Cioè, oddio,voi c'avete pure ragione, scusatemi per il titolo, ma - come vi ho fatto capire - è tardi e a certe ore sono poche le cose che si possono fare con un po' di lucidità:
E mi attizzava al punto che il primo pensiero non è stato che cazzo ci fa Valeria Marini ad un programma che parla di libri? I ragazzi di Isole minori settime, al secolo, Enzo Colursi, Alessandro Freschi e Lorenzo Campese, una mattina, oltre a cantare tutti in coro Oh bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, hanno detto sapete cosa c'è di nuovo?, in quest'epoca in cui non hai sonno, non hai la macchina, non hai i soldi, non hai un lavoro, noi mettiamo su un gruppo e vi facciamo il culo a tutti quanti. Oddio, non so se abbiano detto proprio codeste parole. Potrei chiederlo stesso a loro, ma sono le 3:15 e non so quanto siano disposti a rispondermi. I tre giovinotti si sono conosciuti - se non erro, credo, non lo so, ho sonno - in quel che fu il be quiet, la notte dei cantautori, e cioè - non me ne voglia nessuno - quando ancora l'interesse di molti era incontrarsi, conoscersi, ascoltarsi, semmai collaborare, e cioè prima che nessuno si comportasse in maniere tipo "Ehi ciao, io sono bello e figo, sono migliore di te, però ti do uno spazio in cui tu possa masturbarti in silenzio davanti a tutti noi voyueristi del live, e non preoccuparti, dopo puliamo noi", e cose così. Voi direte, embè, che c'è di strano o di particolarmente particolareggiante nel fatto che tre giovinotti abbiano messo su un gruppo? Ebbene, partiamo dal dire che i tre giovinotti in questione sono tre bravi cantautori con precedenti egregi lavori alle spalle e quindi non semplici tre musicisti. Cioè, chiariamo già il fatto che, second my opinion, quando più teste riescono ad incontrarsi, ragionare, fare le prove, arrangiare, suonare, senza che nessuno prevarichi fastidiosamente e insindacabilmente sull'altro, tipo maschio alfa in mezzo a un ammasso di omega3, è già una specie di miracolo, poi, se a farlo sono tre cantautori, allora sì che il miracolo può dar spazio a caroselli, urla, lezzi e schiamazzi di gaudente felicità. Il cantautore è quell'essere mitologico un po' Sgarbi, un po' Morgan, ma soprattutto capa di cazzo che si compiace del suo onanismo sclerotico. Il cantautore è tipo Filippo Inzaghi, ai mondiali del 2006, che corre verso la porta di Cech e, nonostante abbia la possibilità di passarla a Barone, per il più semplice dei gol, lui scarta il portiere per segnare da solo. Ecco, il cantautore è uno che, prevalentemente, lavora da solo, per gioire, se capita anche con gli altri, ma soprattutto per sé. Ora, voi, immaginatevene tre in una sola band: è po' come avere tre galli in un pollaio; Vieri, Toni, Inzaghi e - che ne so - Gilardino, a fare, nella stessa partita, il centravanti; tre conduttori - Bonolis, Conti, Pippo Baudo - a condurre Sanremo; insomma, tre potenziali prime donne su di un solo palco. S'è capito il concetto, no? In generale, ho sempre ritenuto - e in parte ancora credo sia così - che la produzione di un'opera d'arte, indipendentemente dalla sua qualità, sia il momento più sacro dell'individualismo umano. E questo va preservato. (Perciò inorridisco quando, per la realizzazione di una sola canzone - ad esempio - compaiono quattro, cinque, sei autori del testo. Io ci ho messo il predicato, io l'interpunzione, io la preterizione, io ho fatto il caffè mentre loro scrivevano sta cazzata. Non vi dico come bestemmio quando è chiaro che lo scopo è stato quello di dare alla canzone una struttura riconosciuta standardizzata e per pigliare qualche punticino di Siae). Ciò che folgora di un'opera d'arte è - credo - l'unicità, la potenza dell'emozione che un solo individuo è riuscito a universalizzare al punto da creare un feeling, un pathos in chi lo fruisce. E ancora, produrre è un po' come farsi una scopata, credo, ma non con l'orgasmo, come dicono alcuni. Dopo che hai dato, tu resti lì, al massimo un paio di minuti ancora a compiacerti del tuo sperma, poi buonanotte ai suonatori. Sei stanco, fiacco, vorresti ricominciare e ricomincerai - perché a te piace il contatto, la sublimazione, lo sconvolgimento totale dei tuoi sensi, il godimento del durante, il mentre -, ma con calma. Ora, immagina che questa cosa la facciano tre cantautori. Aspe' aspe', attenzione, togliete da mezzo il sesso, che altrimenti Gasparri non capisce un cazzo e mi banna dal suo profilo Twitter. Ho bisogno di poter andarci quotidianamente, sul suo profilo, ché mi serve per ricordarmi che qualcuno più scemo di me esiste sempre. Ad ogni modo, nulla di male: a letto, ognuno faccia quel che vuole, per carità. Volevo solo dire che, Isole Minori Settime sono un bel ménage à trois. Schizzi di genialità mescolata a tanta sana follia. Difatti, non sto mettendo in dubbio che sia possibile - di fatto accade - che più cantautori possano collaborare, aiutarsi, scrivere più pezzi insieme. Assolutamente. De Gregori e Dalla ci hanno fatto più di un tour insieme. Di recente, Gazzè, Fabi e Silvestri ne hanno seguito ideologicamente la scia, e potrei stare qui a citare tanti altri bei nomi, ma la cosa che mi preme farvi notare di più è che, nel caso di Isole Minori Settime, a mio modesto avviso - ma non so quanto possiate prendermi sul serio alle 3 passate - loro sono una vera e propria band, fatta di amici che si diverte a scrivere, comporre, ideare, cantare insieme, dove ognuno si delinea - perfettamente - la sua parte, il suo attimo di sano idilliaco feticistico godimenti creativo, senza manie di presenzialismo prevaricatore. Per l'appunto: isole minori di un arcipelago immenso di infinite possibilità. E niente, basta. Sono le 4:00 e tengo sonno. In realtà non lo so. Oddio forse sì, ma è meglio non dire nulla. Ho fatto questo post solo perché così la gente - o almeno spero - clicca sul sito, mi fa fare le visualizzazioni e magari gira il nome. Funziona così nel 2016, no? Su Sanremo non ho molto da dire, o meglio, se lo dicessi, la gente avrebbe da ridire. Già, perché se dici che Sanremo è un prodotto dai contenuti artisticamente opinabili, la gente storce il naso e dice che sei invidioso. Se dici che le canzoni fanno un po' tutte cacare, che c'è poco di nuovo, in termini di forma e contenuto, in termini di stile e di nomi, in termini di sincerità e di logiche, la gente storce il naso ancora di più e dice che sei invidioso. Se dici che il vincitore è già stato decretato da una partita a scopone scientifico col morto ( la cui sediolina vacante rappresenta la presunta democratica votazione popolare), tra le case discografiche più potenti - così come è già tutto deciso nel calcio e nella politica (attenzione, vi ricordate o no che siamo ancora l'unico Stato d'Europa Democratico governato da un presidente del Consiglio non eletto?), per esempio - la gente storce il naso a tempo di Macarena e dice che sei solo un invidioso. Se dici che nella scena indie, tra i localini del centro storico di qualsiasi buco dello stivale - ma anche dei calzini sporchi zozzi e spaiati, e tuttavia originali - c'è materiale molto più interessante rispetto a quella proposta da quasi tutta l'omologante massa mercificante che ha solcato e solcherà il palco dell'Ariston, la gente un altro po' se lo fa cadere a terra il naso, tanto che lo storce mentre dice che sei solo un invidioso. Sarà questo il motivo per cui i Giovanardi di turno storcono il naso all'idea che due uomini possano sposarsi: l'invidia. Bah, non lo so. Sono mica psicologo io? Sono preterizioni un po' abusate le mie, di fatto, in Italia non c'è possibilità di espressione. Amici miei, è meglio farsi i fatti propri. Perché qui, se parli, in base alla pericolosità dell'argomento, o ti uccidono o ti dicono che sei invidioso. In entrambi i casi, ti fanno fuori, quindi meglio tacere, no? Perché Sanremo è Sanremo. sì e anche lo specchio dell'Italia. Scritto così, sembra uno di quei titoli ammonitori in cui, gli scrittori del basso medioevo o dell'epoca latina, non avendo altro da fare, ché la chiesa aveva iniziato a dir loro che masturbarsi e fare sesso era peccato, si mettevano ad inveire contro le donne e contro i loro trucchi dell'ars della seduzione. Assolutamente, non è questo il mio intento, ché - per i motivi di cui sopra - ho da tempo acquistato il mio posticino all'inferno, tuttavia mi viene sempre in mente quella barzelletta sporca che mi ha raccontato un mio caro amico, qualche anno fa. << In pratica, un giovanotto non di bellissimo aspetto e, probabilmente, turbato nella mente da tutta una serie di consce ed inconsce insicurezze, in discoteca ( proprio nel regno dei figoni figli di papà palestrati lampadati e tutta una serie di altri cliché che potrete voi stessi inanellare in serie e a vostro piacimento, con la vostra immaginazione, sui nostri anti-eroi), contro ogni tipo di pronostico dei tabloid inglesi, riesce ad acchiappare una femminona esagerata. Bionda, capelli lunghi sensualissimi, occhi verdi sensualissimi, ciglia lunghissime sensualissime, labbra carnose sensualissime, gambe sinuose sensualissime, strette in un paio di calze sensualissime, dita lunghe, affusolate, con un unghie smaltate sensualissime, seno stratosferico sensualissimo, vitino a vespa, incartapecorato in un vestitino rosso scollato e sensualissimo. Insomma, una troiona appena uscita da YouPorn. Incredibilmente, dopo averci ballato, esservici strusciato pervertitamente sopra tutto il tempo - come a voler approfittare di ogni centimetro di quell'imprevista buona sorte mandatagli dall'alto probabilmente dall'unico protettore dei più deboli: Fabrizio Corona -, riesce addirittura a portarsela a casa. Nella barzelletta, per le logiche della trama, altrimenti non avrebbe un suo necessario climax conclusivo ad effetto, il nostro Enea vive in un appartamento carino, per carità, ma con il bagno e la stanza da letto soppalcati. In pratica, per farti una pisciata, devi comunque farti una salita di scale per forza. Ad ogni modo, entrano in casa, si mettono a loro agio, fanno un aperitivo pre-sesso, nonostante in discoteca abbiano già bevuto di tutto, pure l'acqua del cesso corrotta con le benzedrina e, prima di stendersi sul divanetto-letto, lui sposta tutti i dvd della saga di Harry Potter, visti in un'unica lunghissima maratona no stop, proprio il giorno precedente. Lei chiede di andare in bagno per potersi dare una rinfrescata e lui, galantuomo, acconsente con un sensualissimo e macissimo gesto ammiccante del capo. Non riesce a credere di aver fatto una conquista simile e, mentre la vede, lei, la sua bella, sensualissima, salire le scale, già sta immaginando alle porcherie che avrebbe fatto da lì a poco. Tanto che, una volta che lei è entrata in bagno, sale silenziosamente le scale, per spiarla dallo spioncino della serratura del bagno, in perfetto stile Lino Banfi di una trentina d'anni fa. Vuole vederla già nuda, vuole vederla mentre si spoglia, vuole ammirarla. E di fatti, spogliandosi pian pianino, inizia a dar mostra di tutta la sua mercanzia, non lasciando alla fantasia di nessuno la possibilità di poter immaginare ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Lei si toglie le ciglia, si smonta i capelli, scolla le unghie finte, si sfila le lenti a contatto colorate. Trucchi, piccole finzioni che non nuocciono all'innamorato. E infatti, fin qui, il nostro Dante non batte ciglio e, nonostante l'ingegno ingannatore, nonostante la finzione perpetrata ai suoi danni dalla sua Beatrice, in silenzio la perdona, giacché non saranno due lenti colorate o un paio di extension a farla scadere dal suo cuore arrapato. Già sta pensando al domani, a quando l'avrebbe presentata agli amici, ai suoi genitori. Pensava ai figli che avrebbero avuto o a quando avrebbero litigato e poi teneramente fatto la pace; ai loro tramonti, ai loro viaggi, tenendosi teneramente la mano, in una notte di mezza estate, a quando sarebbero diventati nonni. Fantasticava già su una possibile vita coniugale insieme a lei e lei, la sua musa ispiratrice, nel continuare la sua azione rinfrescante, si smonta il seno, il reggi il culo e si toglie la dentiera. Qui, il nostro, un piccolo fremito, un tentennamento ce l'ha; rabbrividisce all'idea di aver pescato nel mar morto dell'amore, ma ancora vuole attendere, vuole comunque godersi la sua pesca, la sua fata che, imperterrita, però, si sfila perfino le labbra, si toglie il trucco dal viso e qui, in questo preciso istante, mostra la sua reale condizione di strega dell'estetica, una versione femminile carne ed ossa degli Sbullonati, derubricabile - senza alcuna pietà - a cesso ambulante. Vuole scappare, ma è casa sua quella, non può mica andarsene. Certo è, non l'avrebbe presentata ai suoi genitori, tantomeno ai suoi amici stronzi, che lo avrebbero preso per il culo fino alla fine dei suoi giorni. Ma nemmeno se la sarebbe chiavata una cosa così brutta. Nemmeno da ubriaco si può avere un coraggio simile. Svaniscono i sogni, i figli, i nipoti, i viaggi e la notte di mezza estate diventa torrido inferno in pieno traffico sulla Salerno Reggio Calabria. Potrebbe lasciarla da sola, chiamare la polizia, urlare, accusarla di essersi intrufolata in casa sua. Non gli viene in mente nient'altro, e intanto scende le scale, piano piano, per non farsi sentire. Poi, si siede sul divanetto, con le mani in volto, sconvolto, cerca di ragionare meglio sulla cosa: che fare, che dire? Sta per prendere una decisione, anzi no, il suicidio non va bene, lui vuole vivere, mica si può morire per così poco, però qualcosa bisognerà pur fare. Poi, ecco che l'epopea del nostro Romeo trova la sua conclusione tragicomica. Giulietta, dall'alto della sua balconata, entrata nella stanza da letto, grida al suo innamorato di poter or ora salire e appropinquarsi verso di lei e poter così godere del succo del suo sensualissimo corpo; tuttavia Romeo, sebbene impietrito nell'anima, si è comunque lasciato impietosire da quella cosina brutta e, ricordando le sue comunque ottime capacità smontabili, le risponde: " Non ti preoccupare tesoro mio, senza nemmeno che io salga, buttamela giù che facciamo prima". >> E niente, io sono per la verità, bella o brutta che sia. Io gli dico "senti, vorrei parlare del tuo percorso, ma voglio che sia tu a dirmi cosa vorresti che dicessi di te, perché è facile raccontare la storia del solito ragazzo della solita periferia che, nonostante le solite difficoltà del solito territorio della solita provincia a Nord della solita Napoli, nonostante le solite difficoltà sociali, economiche e blablablà, è riuscito a diventare primo contrabbasso in orchestre dirette da gente come Muti". Lui non pensa nient'altro che a questo: "Vorrei che gli altri capissero che dietro ogni singola nota ci sono giorni interi di studio, di sacrifici, di costi, di sudore. Che ne sanno le persone di tutto questo? Poco o nulla. Vedi, io vorrei che gli altri lo capissero. Per darti un'idea, oggi pomeriggio, sono stato tutto il tempo a cercare di fare tre sole semplici note. Volevo che fossero perfette. Un pomeriggio intero, capisci? Perché? Perché la musica si fa con passione, col cuore, ma anche col sacrificio, con lo studio, con la sofferenza. Questa cosa le persone la devono capire". Me lo ripete un paio di volte il concetto, giusto per capire se ho capito, tuttavia, non contento, per esserne più sicuro, mi mima il gesto con le mani. La destra tira l'arco sui colori, con l'altra li mette in ordine, a suo modo. "Immagina che tu stia a scrivere una canzone, ci metti un giorno, una settimana, la registri, ci butti il sangue e comunque non ti convince e allora cominci daccapo, arrivi ad un risultato, comunque buono, in mezzo a un mare di difficoltà, poi ti siedi e sbagli quell'unica nota che ti fotte. Verrai valutato e ricordato per quell'unica nota sbagliata". La mano tiene un bicchiere di birra. Lunga, nervosa, a tratti insicura, piena di calli, come quelle di chi suda nei campi, destinati ad altra natura. Poi ti guarda con gli occhi scuri, sicuri, profondi, di uno che il mondo l'ha visto spesso da solo, chiuso in una stanza d'albergo a chilometri di distanza da casa. "Sì, viaggiare è bello, suonare anche, ma mesi interi lontano dai tuoi affetti so' pesanti". Ci facciamo un altro sorso di birra, parliamo del più e del meno, ma argomento al centro di ogni cosa è sempre la musica: passato, presente e futuro. Dannatamente retorico e scontato, ma che cazzo vuoi farci se è così e basta? "Una volta, anni fa, dopo un concerto, un impresario musicale non riusciva a capire la mia esigenza di dover tornare a casa presto la sera, non capiva che avevo bisogno sì di lavorare, ma soprattutto di studiare. Ma perché, tu studi? mi chiese. Non riusciva a capire che per fare quello che faccio io, a tutti i livelli, bisogna studiare". Ora, non so se le persone tutte riusciranno mai a capirla questa cosa qua, e cioè che dietro ad una sola semplice canzone c'è gente che, per arrivare a suonarla, semplicemente a concepirla questa semplice canzone di merda, ci ha buttato il sangue per giorni mesi anni. Difficile, è difficile farlo entrare nella zucca a tutti, soprattutto in un'epoca in cui la musica, ma l'arte in generale, è sempre più relegata ad un ruolo marginale nella società. Un cicisbeo alla corte di chi, di musica, davvero non ci capisce un cazzo, incluso il sottoscritto. Ma questo è un altro discorso. Renzo Schina è uno che, per farvi capire il tipo, una sera - era una festa - è riuscito a coinvolgere un gruppo intero di amici ad improvvisare, in chiave parodistica ovviamente, l'Aida. Ne uscì fuori una caciarata che non vi dico. Un animatore mancato. Uno che è sempre stato su di un filo sottile, tra il musicista impeccabile, un po' filosofo un poco saggio, e l'amico cazzone dei bar di periferia. E ad essere sinceri, in quegli anni lì, dopo il liceo, eravamo tutti un po' cazzoni. La differenza è che lui, Renzo, tornava a casa e, anche di notte, mentre il mondo intero riposava, si metteva al contrabbasso, per studiare, per preparare un concerto o per un concorso. O solo, semplicemente, per trovare il suo modo di buttar giù una frase. " E' come una corsa al Gran Premio di Moto Gp dove a fare la differenza è anche il millesimo di secondo.", mi ha detto ieri. Correre e non fermarsi mai, ché questa è una corsa in cui non è ammessa la resa; si può tremare, arrabbiarsi, urlare, incazzarsi, bestemmiare, ma non ci si può fermare. Dormire poco, giusto un po' la notte, e poi svegliarsi con la sola idea che bisogna rimettersi nella cazzo di carreggiata, che bisogna farlo più veloci del giorno prima, ché c'è da recuperare il tempo perduto. Poi bere, dirsi che è tutto ok, dimenticare le proprie insicurezze, e quindi riuscire, esserci, farcela, essere tra i migliori e non accontentarsi mai, dirsi sempre che no, non è mai abbastanza, bisogna continuare a correre; essere riconosciuto dal mondo, da chi ti dà pane all'anima e al corpo, cambiare cieli, palchi, letti, lenzuola, modi di ascoltare, modi di parlare, modi di guardare, senza però intaccare mai l'anima, la testa, il cuore; rischiare, perché si rischia, ma è un rischio che s'ha da fare, non sempre calcolato, ma necessario, come quello di essere abbandonato dalle persone che ami e di non essere capito, eppure, ciononostante, spiegarlo, urlarlo, suonarlo ogni giorno della propria vita, ché questa cosa ti appartiene, non ne puoi fare a meno nemmeno a volerlo, ti è saldata addosso e non c'è nient'altro da fare; già, costruirsi giorni, mesi e anni di impalcature, sicurezze vive solo quando si sta dietro al Contrabbasso, e che importa se poi, con il collo di una birra tra le dita, le mani ti tremano un po', ed esce fuori qualche debolezza, giusto un paio. Si è umani dopotutto. "Per ogni piccola soddisfazione, dietro ci sono tanti tanti sacrifici, ripagati eh, ma quanta fatica". Quando suona te ne accorgi, lo vedi, è proprio lì di fronte a te: Renzo è felice. Lo vedi, lo senti, perché è un tutt'uno con quello che sta facendo: corpo, testa, cuore, mani, anima. Trasmette felicità perché lui stesso è felice. E questa cosa, un uomo qualsiasi non può non invidiarla. Lui non lo sa, ma io, quelle mani, gliele ho sempre osservate con attenzione. Da quando lo andai a sentire suonare, diciassettenne, fuori alla SpioX, al secolo Chiesa di San Pio X, a Giugliano in Campania, nella solita provincia a Nord della solita Napoli. Perché se persone belle non sono sempre il riflesso preciso preciso dell'arte che producono, nel caso di Renzo è proprio così, pari pari. Me ne sono accorto dal primo secondo, da quella felicità che trasmette, ogni volta che ha la possibilità di suonare. Non è una bugia se vi dico che, un po' per imitazione, un po' per genuina invidia, è stato lui uno dei motivi per cui mi sono avvicinato alla musica. Lui non lo sa, glielo dico ora e un po' lo ringrazio. (Poi, non fa niente il fatto che io abbia riconosciuto non fosse cosa mia, ma questo è un altro racconto). Ci sono persone che si imparano guardandole dritto negli occhi. Tu le guardi e capisci quanta anima c'è dentro quel corpo che li ospita. Con Renzo basta che gli guardi le mani: hai la sensazione sappiano bene, forse da sempre, cosa vogliono fare nella vita. E questa cosa, un uomo qualsiasi non può non invidiarla. Oh, per carità nulla a che fare con i neoborbonici eh. Lo specifico perché qua, quando si parla di identità meridionale, ancor più se si vuole essere un attimino più legati alle radici partenopee, subito spuntano dita indicanti che ti accusano di revisionismo campanilista evviva il re è morto o rré, un doje 'e tre. Cioè, in quello che voglio dire c'è una piccola accusa, è vero, però il discorso non c'entra nulla con il Re Borbone, né con i suoi investimenti nella torrefazione. Proprio ieri sera ho finito di leggere tutti i 50 racconti de "Lo cunto de li cunti", ma non è mio intento di ammorbarvi con analisi letterarie su quello che è stato il lavoro di Giambattista Basile, né voglio raccontarvi di come ha finemente raccolto i racconti nella magnifica cornice che pone al centro della storia Zoza e Tadeo, e neanche voglio ricordarvi che è stato preso ad esempio, per non dire scopiazzato, da molti dei più grandi favolisti della storia delle letteratura mondiale. No. Per quanto riguarda tutto questo,vi invito a leggerlo. L'edizione migliore è quella della Garzanti, secondo me, con introduzione alla lettura di Michele Rak. Ciò di cui vorrei parlarvi è la forte connotazione identitaria di tutta l'opera e il fatto che, nelle scuole di tutta Italia, a parte l'intervento di illuminati e lungimiranti docenti, che almeno fanno leggere La Gatta Cenerentola, non viene praticamente quasi mai nominato. Chiedendo a qualche amico docente, anzi, il programma contemplerebbe anche un passaggio sciuè sciuè, ma, appunto, è uno studio troppo marginale, secondo me. Soprattutto se consideriamo l'importanza - in termini di studio, pagine, attenzione - con cui vengono affrontati altri autori Italiani. Non voglio fare nomi, ché chi fa la spia o non è figlio di Maria o è Roberto Mancini. Certo, non voglio paragonare il suo lavoro a quello del sommo Dante, per carità, ma in molti manuali, quando si arriva al '600 italiano, Basile quasi figura come autore minore, ed io, leggendo leggendo, mi chiedevo perché? Non voglio credere che il problema sia stato o sia, per l'appunto, il dialetto, o meglio, la lingua napoletana; è vero, a tratti rasenta l'afasia, illeggibile anche per un napoletano attento ai mutamenti diacronici della lingua, tuttavia esistono egregie edizioni con traduzione a fronte. Io stesso ho letto la versione italiana, buttando - di tanto in tanto - un occhio alla parte sinistra, per cogliere meglio sfumature, colori e giochi di parole. No, non deve essere questo il motivo per cui Basile è stato e viene ancora snobbato dai programmi scolastici italiani, anche perché non è che l'italiano trecentesco del Decameron sia più leggibile. Deve esserci altro ed io, una mia piccola opinione me la sono anche fatta. Ho cercato in giro, tra web, testi e manuali, e nessuno mai si è lanciato in questa ipotesi, dunque, potrei essere il primo a professare questa cazzata, ma tant'è. Basile, nel suo Cunto, ha lasciato un'impronta chiara di ciò che è stata Napoli, la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi luoghi. Il dialetto usato è a tratti simile a quello che ancora oggi si può sentire in quei luoghi dove la tradizione si è cristallizzata e ben conservata nei secoli, fino ad oggi. Cioè, puoi tranquillamente trovare parole, intere frasi, modi di dire, ricette del 1600 ancora presenti nel dizionario di un qualsiasi napoletano del 2016, o quasi. Hai presente tutte quelle parole che ogni tanto senti uscire dalla bocca di tua nonna? Bene, potremmo dire, con qualche licenza, che tua nonna non fa altro che citare, inconsapevolmente, Giambattista Basile. Basile inventa, è vero, le sue sono fiabe, i luoghi sono sì magici, ma spesso le radici, i luoghi delle sue fiabe esistono per davvero. Non solo Napoli e i suoi quartieri fanno da sfondo alle storie del Pentamerone, ma anche Panicocoli, Calvizzano, Aversa, Melito, Giugliano in Campania, Arzano, per dirne alcuni. Ora, immaginiamo che un Re di un paese rivale, facciamo finta il Piemonte, decida di impossessarsi delle terre confinanti che navigano in condizioni economiche migliori - per fantasia le chiameremo Regno delle Due Sicilie - e che, diciamo per convenzione, intorno agli anni Sessanta del 1800, riesca nel suo intento; cosa penserà di fare per tenere a bada il popolo contrariato, oltre a distruggerlo, violentarlo, e farlo passare per un ammasso di cattivi terroni, briganti, ignoranti? Come ogni potere dominante che invade, la prima cosa che cerca di intaccare è l'identità del popolo invaso, le sue tradizioni, la sua cultura secolare. Questo mi pare chiaro: lo sanno i Curdi, lo sanno i Birmani, lo sanno gli Indiani d'America. Per esempio. Ora, un libro come quello del Basile - che abbiamo detto essere una pietra miliare della cultura napoletana - come può essere stato visto da chi deteneva il compito di scolarizzare la nova Italia? Bene, avete capito qual è la mia stupida, ignorante e banale opinione e, se siete d'accordo con me, ri-leggiamo Basile che non può farci che bene. Io non sono d'accordo con loro. Parto da questo. Non sono d'accordo con loro e non voglio nemmeno lottare affinché possano esprimere la loro idea. Fanculo Voltaire, anche se non è di Voltaire. Perché? Ma dai, stai ancora a chiedertelo? Cioè, ma ci rendiamo conto che è assurda la loro pretesa di volere avere certi diritti? Vogliono indottrinarceli fin da piccoli, i nostri figli. Già, i figli di ciascuno di noi. Pure i tuoi che - come me - ancora non ne hai. Anzi, già lo fanno. Oh, non te ne rendi conto? Già lo fanno. Proprio loro che di figli non ne hanno e mai potranno averli. Non potrebbero averli. Già, a meno che non vadano contro loro stessi, contro la natura, contro l'onnipresente, onnisciente, onnisessuale, asessuato, amorevole Dio. Dovrebbero contravvenire alle regole della nostra santissima amata religione Cattolica. Fare dei figli, loro, ma scherziamo? Loro non possono. Già, non ne fanno. No no no. E poi, che ne sanno loro di famiglia? Solo perché ne hanno fatto parte, presumono di sapere com'è che se ne fa una? Come a dire, "ho guidato un'automobile, ora vi dico com'è che si costruisce". Oppure "ho vissuto negli anni della modernità e quindi, se dovessi capitare nel 1492 quasi 1500, di certo saprei come si costruisce una lampadina" (cit.) Impensabile, presuntuosi, schifosi, vergognosi, osceni. E vorrebbero poi tenerli a sé, insegnare loro come si ama, perché si ama, quando si ama, dove si ama. Loro? Che se solo si fanno una sega Lucifero fa partire "Un giorno all'improvviso" versione mefistofelica. Vogliono farci il lavaggio del cervello, vogliono convincerci dell'assurdo. Ma ci rendiamo conto? Mi fanno ribrezzo, tutti dello stesso sesso, rinchiusi nella loro setta dell'amore per un uomo. Vogliono governare il paese con le loro pretese d'amore universale, ipocrita pretesa d'amore universale. Sono una Lobby, una lobby ti dico. Governano il mondo, guidano l'opinione pubblica, con veri e propri comizi politici ogni santissima domenica in ogni parte del mondo. Ma non lo vedi? Oh, dico a te, non lo vedi? Questi preti sono una vergogna. Una vergogna ti dico, scandalosi perfino. Ero in un bar. Non ricordo granché, a parte lui. Aveva degli occhiali curiosi, tondi, sottili, da intellettuale. Forse lo era. Ed era magro, sì, tanto magro da pensare fosse malato e infatti lo pensai. Non sono sicuro lo fosse e ad ogni modo non di quella malattia che ti consuma le ossa, le carne, le frattaglie. No, di quelle malattie che ti entra nella testa e ti devasta l'anima. Bello lo era, ne sono certo, sebbene non sappia dirvi che tipo di bellezza possedesse, ma emanava una luce tutta sua di affascinante malinconia. Lo guardavi e di lui avresti potuto dire con certezza una cosa: "Poveretto, non sa ridere". Aveva la faccia di chi, senza che nessuno glielo avesse chiesto mai, si porta addosso le ansie di tutta l'umanità, oltre a quelle sue, che pure sono un fardello niente male sul cucuzzolo del cranio. E ripeto, non è che qualcuno glielo avesse chiesto mai sul serio: nessuno sapeva nemmeno chi fosse, se esistesse sul serio, se ci fosse davvero qualcuno dietro quei suoi occhiali curiosi, tondi, sottili e da intellettuale malinconico. C'era la tivù accesa. La solita partita di calcio, era un mercoledì. La Coppa nazionale, forse. Maglie bianche, maglie azzurre, un campo verde. Questo mi pare di ricordare, nulla di più. Può darsi fossi già ubriaco. Non so. Ricordo soltanto di aver bevuto quattro cinque birre. Prima di conoscere Katty, con quattro cinque birre avrei fatto un semplice aperitivo, poi lei mi addomesticò, mi insegnò anche a ballare e, per fare spazio alla vita, dimenticai com'è che si beve. Quella sera, già dopo un paio di birre, l'inibizione se n'era andata a fanculo e avrei potuto ballarvi un tango in mezzo alla sala. L'avrei fatto, se non fosse arrivato lui, con i suoi occhiali malinconici e il suo aspetto tondo da intellettuale. Si sedette al mio fianco, cupo in volto, con un angolo del viso arrabbiato, duro, crudele. Sì, lui emanava una luce di affascinante malinconia, ma da un angolo del suo viso era evidente fosse anche arrabbiato, duro e crudele. Anche lui avrà perso la sua Katty, pensai. Anche lui avrà dimenticato come si beve. Fu forse per questo che ebbi la sensazione che non sapesse ridere. Si sedette al mio fianco, mi salutò, poggiandomi la mano sulla spalla, poi mi chiese come sta?. Dissi bene, ma capì che gli avevo detto una bugia. Come potevo stare? Avevo perso la mia Katty, i suoi seni, le sue gambe, il suo rispetto. E poi fuori era un casino: la gente sbraitava, sputava, bestemmiava, inveiva contro altra gente. E poi si faceva saltare in aria, così, come se niente fosse. E poi sperimentava nuove armi di distruzione di massa nell'oceano. Buum, tutto in aria acqua, pesci, vita, morte. La bomba. Tutti lo sanno. Qualcuno ce l'ha e se la tiene nascosta nella cantina di casa, in mezzo al vino. Un giorno, qualcuno, anziché darsi alla vita, pigerà un tasto, uno solo, semplice, rosso, con su scritto pigiami per favore, e metterà fine a tutto questo scempio. Come potevo stare? "Due terzi dei miei concittadini leggono questa razza di giornali, leggono mattina e sera queste parole, vengono lavorati ogni giorno, esortati, aizzati, resi cattivi e malcontenti, e la fine di tutto ciò sarà di nuovo la guerra, la guerra futura che sarà probabilmente più orrenda di quella passata. Tutto ciò è semplice, limpido, tutti potrebbero capire e arrivare in un'ora di riflessione al medesimo risultato. Ma nessuno vuol riflettere, nessuno vuol evitare la prossima guerra, nessuno vuol risparmiare a sé e ai propri figli il prossimo macello di milioni d'individui. Rifletterci un'ora, chiedersi un momento fino a qual punto ognuno è partecipe e colpevole del disordine e della cattiveria del mondo: vedi, nessuno vuol farlo. E così si andrà avanti e la prossima guerra è preparata giorno per giorno con ardore da molte migliaia di uomini. Da quando lo so mi son sentito tagliare le gambe e mi sono disperato e non ho più "patria”, non ho più ideali perché tutto questo non è che uno scenario per quei signori che preparano la prossima carneficina. Non ha scopo pensare pensieri umani e dirli e scriverli, non ha scopo rimuginare in testa pensieri di bontà: per due o tre persone che lo fanno ci sono in compenso ogni giorno migliaia di giornali e di riviste e discorsi e sedute pubbliche e segrete che vogliono il contrario e lo ottengono".** Glielo dissi come se avessi avuto addosso, impressa nella memoria e nelle frattaglie, la rabbia di tutto un secolo, e come se, in quel momento, di fronte a lui, avessi avuto bisogno di tirarla via da lì. Mi ero liberato, scavato dentro. Così rimasi leggero, vuoto in petto. Lui mi guardò, sorrise come se avesse capito le mie parole o come se si fosse accorto di aver ritrovato, in quel bar umido, una parte di sé, l'ultima, quella più latente. Poi mi offrì una birra, ché se si vuole riempire il vuoto con l'alcol c'è bisogno di riprendere il ritmo e dimenticare Katty, i suoi seni, le sue gambe il suo rispetto. Non me lo disse esplicitamente, me lo fece capire. Poi mi disse: "Sa qual è il suo problema? Lei non sa più ridere". Sorrisi: forse aveva ragione. Mi voltai per dirglielo, ma non trovai più nessuno al mio fianco. C'era un bottiglia di birra mezza vuota. Mi guardai intorno, nessuno mi osservava, me la presi. Ero in un bar. Non ricordo granché, a parte lui. E una partita di calcio, di mercoledì, coppa nazionale, credo. Maglie bianche, maglie azzurre, un campo verde. Questo mi pare, nulla di più. ** Parole di Herman Hesse, scritte nel 1927 in "Il lupo della Steppa". Ninna nanna ninna oh, piccolina mia, che sei dolce e sei piccina, indifesa che basterebbe un dito per ferirti, soffocarti, ammazzarti, toglierti dalla faccia questo bel sorrisino che hai, lo sai che ti voglio bene, che ti adoro e sei la vita mia? Ecco, e allora non averne a male se ti dico certe cose: è per il tuo bene, per il tuo futuro, voglio tu non abbia preoccupazioni e delusioni. Lo dico per te, eh, sia chiaro piccolina mia, a me e al tuo papà non entra nulla, non abbiamo altro profitto se non la tua felicità. Non è mica perché rifletto su di te le mie frustrazioni, i miei fallimenti, le mie angoscie*. No, assolutamente: è solo per il tuo bene. Ninna nanna ninna oh, piccolina mia, che sei dolce e sei piccina, di ostacoli ne avrai tanti, e quanti più ne supererai, più ce ne saranno di nuovi, quindi, converrai con me che è meglio accontentarsi di quel che si ha, senza andare oltre, senza desiderare altro. A che serve addentrarsi nei boschi se il rischio è di non uscirne più? A che serve lottare per qualcosa, quando tutto ciò che hai è a una mollica di pane davanti ai tuoi occhi, piccina mia, che sei dolce e sei carina. Ninna nanna ninna oh, no no no, non fare così, fa la buona piccolina, no non piangere così, non è il momento giusto, non è ora che vale la pena. Ora hai solo da sorridere, hai un tetto e da mangiare, cos'è che vuoi di più? Verrà il tempo, e non è molto lontano, in cui hai voglia delle lacrime che verserai, hai voglia di tutte quelle volte in cui verrai a a dirmi che mamma tua aveva ragione. Potrai centellinarle, le lacrime, già, ad una ad una, e saranno tante e tanto grosse, che per contenerle non basterebbe il recipiente più grande che la tua fantasia possa immaginare, bambina mia. Piangerai, potrai farlo, ma mi raccomando in silenzio, mia dolce cerasella. Piangi perché t'hanno rubato il palloncino? piangi perché t'hanno dato un pugno sul tuo visino bello? Piangi perché si son presi la merendina? Shhh, non lo dire alla maestra, che ti metti solo in altri guai, torna a casa, vieni da me che basta un mio abbraccio e passa tutto. Hai capito, figlia mia? Dormi, bimba mia, ninna nanna ninna oh, dormi bene, resta al caldo, non muoverti che sudi, poi ti ammali, fai il visino brutto e chi ti prende per marito? A te conviene adesso che stai a sentire il segreto che ti salverà, il tocco magico, la fatagione: nella vita devi dare poco, il giusto garantito per trovar marito, fatti amare, fatti accontentare e così, se ti va bene, troverai le tue ambizioni nella tua lavastoviglie. Fa la ninna, fa la buona, tesoro della tua mamma, sorridi più che puoi, non fa niente se papà non ti comprerà ciò che vuoi e il desiderio ti roderà l'anima, la carne, l'equilibrio. E se saremo poi costretti a toglierti da scuola, allontanarti dai tuoi amici, non prendertela con noi. Non è mica colpa nostra se è troppo cara e non potremo più permettercela. Studiare poi non serve a niente, peggiora solo tutto quanto, ti apre solo ad orizzonti occupati già da altri e in cui tu comunque non potrai mai arrivare. E comunque non rammaricartene, tanto, non solo la scuola è inutile al giorno d'oggi, ma pure gli amici, lo scoprirai, sono buoni solo quando puoi scansarteli. I buoni della storia siamo solo noi, la tua mamma e il tuo papà, che ti vogliono tanto bene e non riflettono, su di te, le loro frustrazioni, i loro fallimenti, le loro angoscie**. Fuori il mondo è cattivo, è fatto di tanti omaccioni neri, brutti, bugiardi e violenti. Per questo, bimba mia, ninna nanna ninna oh, che sei dolce e piccolina, non chiedermi dei libri, di ascoltare, di cantare, di raccontare fiabe. Tanto, che te ne fai di storie, favole e verità se l'unica che devi stare a sentire è quella di mamma tua? Tanto fuori c'è la crisi e quindi è giusto che tu metta in cantina i tuoi sogni. Tanto fuori c'è il governo e decide lui per te, quindi dormi, bimba mia, ninna nanna ninna oh, fa la brava, e vola in alto, tuttavia, bada bene, solo nei tuoi sogni; vola in alto, vola forte, ma solo mentre tieni chiusi gli occhi, e quando li riapri lascia stare gli aeroplani, non parlarmi di aquiloni o che vuoi studiare chissà quante e quali altre lingue. Ogni cosa, anche l'essenziale, sarà a te preclusa, se vai oltre l'essenziale. E poi a che serve tutto ciò, se poi il massimo che puoi permetterti ed avere è il tuo quartiere, coi suoi limiti, i suoi ostacoli, i suoi omaccioni neri, brutti, bugiardi e violenti? Fuori c'è la terra fradicia, troppo pesante per solcarla. Fuori c'è la pioggia, la tempesta, imprevista e imprevedibile. Fuori c'è da farsi troppo male, e a tipi come noi non conviene. Siamo troppo sognatori e anche se non ce lo diciamo, sappiamo bene fin dove vogliamo arrivare. Sappiamo bene quante volte ci arrampichiamo, quante volte cadiamo e ci rialziamo, ma non sappiamo mai, o forse lo scordiamo, quanto fa male farsi male. Per questo te lo dico, per questo stai a sentire. Oh bimba mia, ninna nanna ninna oh, che sei dolce e sei piccina, coi tuoi occhioni grandi e sorridenti, lo so bene che non mi ascolti, fai finta che mi senti, e che quindi non dai peso a questo sfogo e hai pietà di me. Lo so che tu sei proprio tale quale alla tua mamma, e che anzi, proprio perché sei tale e quale a me, farai a modo tuo, andrai per conto tuo e costruirai da sola le tue frustrazioni, i tuoi fallimenti, e tue angosce***, e chissà, forse la tua felicità. * chissà perché gli idioti mettono la "i" ad libitum e ad capocchiam. ** chissà perché gli idioti commettono gli stessi errori ad libiditum e ad capocchiam. *** che volete che vi scria? Sì, senza "i", perché gli idioti sono pure brave persone che, prima o poi, capiscono dov'è l'errore. da un'idea nata parlando con l'amico e cantautore Alfredo Colella, col quale è in atto una - spero - bella collaborazione. Sapete tutti ciò che è successo no? In un momento di rabbia, Sarri, durante il match Napoli Inter, valido per l'accesso alle semifinali di Coppa Italia, ha dato del frocio a Mancini. Senza voler fare filosofia a lungo sull'argomento, il discorso è secondo me semplice. Potrei iniziare il post dicendo ATTENZIONE HO TANTI AMICI OMOSESSUALI, QUINDI BLABLABLA. Queste sono le premesse che fanno gli omofobi, quindi a me non interessa farne. E non non mi interessa nemmeno fare discorso apologetico a difesa di Sarri, tanto meno un panegirico, che non ne ha bisogno. Mi interessa l'evolversi dell'epiteto, le circostanze, le condizioni, e la diffusione nella letteratura di un termine che oggi non ha più nulla a che fare con la sessualità in senso stretto. Se do del frocio al mio migliore amico, per esempio, per essere papeli papeli, non sto giudicando le sue preferenze sessuali ma, magari, un suo atteggiamento poco mascolino che prescinde dalla sessualità. Difendersi 10 uomini dietro la linea della palla e giocare di rimessa è un atteggiamento difensivista, è vero, ma se sei una grande squadra, è anche un po' da froci, per esempio. Colpire l'avversario di spalle, è sì da vigliacchi, ma anche un po' da froci. Andare dalla mamma e fare "Unguè Unguè mamma mamma Pasquale mi ha dato del frocio", è infantile, ma anche un po' da froci. Anche lasciarsi cadere in aria di rigore al primo leggero contatto è da froci, eh. Cosa ci azzecca tutto ciò con l'omosessualità? Nulla, appunto. Assolutamente nulla. Perché credo che la parolaccia in questione abbia ormai perso il suo significato, ovvero, conservando il suo segno e la sua natura turpiloquiale, è ormai stata privata della sua natura omofoba, nel senso stretto del termine. Per farvi capire, ci sono omosessuali per niente froci ed eterosessuali che eccome se lo sono. Un omosessuale che non sia permaloso, questa cosa la tiene bene in mente, la sa. Poi, ovvio, il contesto fa la sua parte, la persona pure. Cioè, una cosa è il frocio di Giovanardi, un altro è quello di Pinco Pallino che scherza col cugino, per esempio. Perché? Va be', se non vi è chiaro, potete pure fermare qua la vostra lettura. Dicevo il contesto. Il campo da calcio non è per nulla il ballo delle debuttanti e/o un incontro tra gentleman, e se capita a qualcuno di andare fuori di senno, non possiamo mica aspettarci uno scambio d'opinioni tra accademici dell'Arcadia - che pure ci andavano giù pesanti se dovevano pigliarsi a male parole -, su questo siamo tutti d'accordo, no? E poi, che senso hanno le scuse, il mortificarsi, nonostante tutto, se poi se ne fa comunque un caso mediatico? Può essere mai che Mancini, in trentanni di calcio, questa sia la prima parolaccia che sente dire in campo? Non ne ha mai detta una? Ci sono calciatori ai quali si potrebbero conferire lauree ad honoris causa per il numero di bestemmie che riescono a pronunciare e ad inventare nel giro di un fallo laterale. Hanno pure provato a limitarla la cosa: in teoria, chi viene beccato a dire una bestemmia, durante una cazzimmosissima inquadratura televisiva, dovrebbe ricevere una squalifica. In teoria. Ora, siete proprio sicuro che nessuno bestemmi? Mettere la mano davanti alla bocca, e bestemmiare i meglio morti all'arbitro o al terzino che non ha fatto bene una diagonale, non vale. Non è che se faccio un omocidio, ma non mi faccio vedere, il morto non è morto. E' vero, bisognerebbe limitarsi, educare i bambini ma dai, siamo concreti, siamo terreni, siamo sinceri, in un momento di rabbia, a nessuno scappa una parolaccia? Quand'ero piccolo, i miei mi punivano sempre se ne dicevo qualcuna, eppure ne conosco comunque tante e quando mi incazzo escono fuori che è una bellezza. Però so riconoscere, grazie a mia madre e mio padre, la differenza che c'è tra il bene e il male, so riconoscere l'ipocrisia e il perbenismo, ma questo è un altro paio di maniche. Dicevo le parolacce. Sono dovunque, nel substrato della nostra mente e spuntano all'improvviso quasi a voler purificarci l'anima. La letteratura è piena zeppa e di parolacce e di sconcerie e di bestemmie. E meno male. Potrei citarvi Catullo, Leopardi, Pasolini. Ma risulterei pedante e non è il caso. Certamente, Materazzi, nel 2006, non si è preso una capocciata da Zidane nello sterno perché ha giudicato poco brillante l'ultimo libro di Ken Follet. Ci si scusa, si paga l'ammenda, si riceve la squalifica e basta. Finito qui. Stop. E invece no, hanno trovato l'argomento su cui dibattere i prossimi mesi fino al giorno in cui la Juventus vincerà lo scudetto grazie al suo Dybala che è più forte di Higuain, Pelé e Maradona Messi insieme. Ora le cose sono due: o Mancini è davvero omosessuale e quindi si è offeso veramente, perché ha ritenuto l'epiteto rivoltogli carico di vera omofoba violenza, oppure ha trovato un pretesto per destabilizzare l'ambiente. Nel primo caso, l'interlocutrice di Mancini non doveva essere mamma Rai, ma sua moglie. E comunque, a maggior ragione giustificate le scuse di Sarri. Uomo di campo, ma anche di letteratura, Sarri, da buon toscanaccio, ha la bestemmia e la parolaccia facile, è vero, ma è dotato anche di grande sensibilità, tant'è che in T.V. è apparso visibilmente scosso, dispiaciuto e imbarazzato. Ingenuo, ha cercato di sdrammatizzare: "Non lo so che gli ho detto, può darsi pure gli abbia dato del democristiano". E niente, Mamma Rai, democristiana come non mai, ha continuato a puntare il dito. Se avesse saputo che a Mancini fosse piaciuto sul serio il metti e togli con Kondogbia e Murillo, certamente non si sarebbe mai espresso in quella maniera. Sarcasmo becero da bar a parte, se siamo tutti d'accordo che non c'è nulla di male ad essere omosessuali, ad amare col cuore e col sesso chi cazzo ci pare in questa vita che è già una merda così com'è, figuriamoci a dover sopportare i razzisti e gli omofobi, di cosa parliamo? Perché Mancini si sente offeso? Per la parolaccia? Allora, dovremmo fare una causa all'intenzione e dichiarare, senza alcun dubbio, che Sarri, in un momento di rabbia, di forte tensione adrenalinica, abbia voluto fare un voluto attacco a chi propugna diritti paritari per tutti, omosessuali compresi e che quindi, in quello stesso frangente, con una parolaccia, sia stato volutamente politicamente socialmente eticamente religiosamente omofobo. A noi non interessa che sia omofoba la chiesa e le nostre istituzioni o che ci sia ancora una discriminazione tra nord e sud. No, a noi frega che sia eticamente perfetto un allenatore di calcio, e che lo sia sempre, anche quando gli scapperebbe un maremma maiala, e invece gli esce uno sta zitto frocio. Uno che ama e legge Bukowski certo non parla con la Treccani in bocca. Sarà pure un brutto bruttissimo intercalare, ma a parlare di omofobia ci vuole coraggio. Del resto, lo stesso Bukowski utilizzava il termine frocio, non nel senso di gay, ma di mammoletta, smidollato, poco virile. E come già vi ho scritto, essere froci o virili trascende il concetto del genere, del sesso, del transgenere e vattelapesca. Ci sono omosessuali virili ed eterosessuali che non lo sono per niente. Nel secondo caso, cioè nel caso in cui quello di Mancini sia stato solo un pretesto per destabilizzare un'ambiente fradicio di gaiezza, allora - per la regoletta di cui sopra - è davvero frocio. A Napoli, si dice anche nacchennello, un tipo inciucisso, e cioè che ama l'inciucio cattivo, lo spettegolezzo. Deriva dal francese "Il n'a-qu'un-œil", ovvero "egli non ha che un occhio". Nell'800 circa, i play boy dell'epoca indossavano il cappello di paglia, un bastone piccolo e flessibile, degli spezzati chiari e un monocolo, abbigliamento con il quale cercavano di distinguersi dalla massa, riuscendo però ad assumere soltanto un atteggiamento snob, da damerini, e verso i quali, a quanto pare, sembra che le dame dell'epoca non nutrissero grandi attrazioni fisiche proprio per questo eccessivo 'bon ton". Sia chiaro, il linguaggio va moderato proprio per non dare un cattivo esempio ai bambini che non sempre sanno distinguere il bene dal male (non ci riescono i grandi!) - e, a questo punto, una (moderata) squalifica potrebbe anche essere giusta, soprattutto se serve a sensibilizzare comunque un mondo, come quello del calcio, e a maggior ragione in Italia, che sull'argomento, siamo rimasti a Diocleziano - ma attenzione: si rischia di fare i perbenisti-censori-democristiani-crociffissori e di epurare semplicemente il termine, non l'omofobia insita nell'ambiente, dove molti atleti non possono dichiarare apertamente la propria omosessualità. Ad ogni modo, se l'arbitro - che di parolacce ne ha sentite tante e tante ancora ne sentirà - niente ha scritto sul referto, e la squalifica verrà fuori dalla nacchennellagine del mister nerazzurro, allora, cosa volete che vi dica. Ditelo voi, ja. Se avete ben studiato, Mancini è ...
" Allora, facciamo così, io ti faccio fare una serata in un evento con altri quattro artisti, ti offro una birra, se va bene anche il panino, così se la cosa funziona, alla prossima ti do uno spazio tutto tuo e se mi porti gente ti pago 2,80 euro lordi a cliente che mi dice di essere venuto per te, ogni dieci persone scatta un bonus, oh, però sia chiaro, mi devono consumare, altrimenti, per ogni cliente venuto per te che non mi consuma scatta un malus di dieci euro ciascuno ...
Gianluca faceva sì con la testa, sorridendo, ma in realtà dentro teneva tutta una serie di bestemmie che avrebbero potuto schiattargli il fegato se avessero voluto ma che, chissà come mai, fortunatamente si tennero buone buone dietro ai denti sorridenti, evitando gli partisse un embolo fulminante, tatta'. Gli erano venuti in mente tutti i sacrifici che aveva fatto e faceva per pagarsi le lezioni di canto, ma subito cambiò pensieri. Non era quello il problema. Non voleva mettersi a pensare ai soldi, alle prove, al tempo, alle cazziate, alle corde spezzate, la voce stonata per la troppa rabbia, la poca rabbia. Era inutile farlo, è una storia vecchia. E poi, per certe cose, certi sacrifici valgono anche la pena, una certa pena. [...] poi capisci, ho bisogno che i clienti siano contenti, ho fatto pure la rima, ah ah ah, ecco, canzoni allegre divertenti. Ne ho fatta un'altra he he he. Io in questa serata ho mescolato un po' i generi. Ho messo atmosfere diverse, sai, per sfruttare l'entrata di un pubblico vario. Cioè un po' di tammurriata, qualche canzuncella napoletana, un po' di pop italiano, il cantautorato, quelle cose lì, tipo De Gregori, Dalla, un po' di tutto insomma. Mi capisci? Non posso rischiare, poi alla fine il dj set ci sta bene...[...] No, però, la testa non riusciva proprio a non pensare a quello che, negli anni, era stato costretto a sentire ogni volta. Tipo come le solite risposte di certi "direttori artistici" di locali, radio ed eventi ai quali gli era capitato di proporsi e che gli avevano fatto ripetutamente il terzo grado, senza però mai concludere un cazzo di niente. E senza nemmeno ascoltare le canzoni. "Che musica fai, chi sei, chi non sei, chi ti ha prodotto, chi ti promuove, cosa hai fatto, sì ma chi sei, mi dispiace ho le date piene". Che poi tutta questa gente che si mette a fare i dischi. Chi ve lo fa fare i debiti, le sudate, i pianti, le notti insonni? Per cosa? Già, Gianluca sapeva la risposta, anche tu la sai, ma fa sempre bene ripeterselo. [...] poi avevo pensato, mentre suonate, io metto il barman di fianco a voi che fa le acrobazie, tieni presente? quella la gente è contenta, si diverte, si può fare dai, allora d'accordo? che poi fissiamo la data tua, oh, ti ho detto, io lo dico per essere chiaro, alla fine così ci impegniamo tutti e due a portare un po' di casino, per farci conoscere, 2,80 euro a cliente che consuma è onesto no?, poi c'è il bonus, ogni 10 clienti scatta il 5 euro in più, non dimenticarti di questa cosa. Poi magari tu li intrattieni sai, una battuta, magari un po' di karaoke, li fai cantare, loro si divertono e tornano un'altra volta e noi replichiamo, dai dai, si può fare, sei un ragazzo sveglio, secondo me sì sì [...] Gianluca non aveva amici giornalisti, addetti stampa o cose simili e, considerando tutto questo, gli stava andando bene pure il disco. E, incredibilmente, non grazie ad amici e parenti che, insieme, non avrebbero riempito una Cinquecento. Insomma, era contento, però restava il fatto che aveva pochi spazi per suonare: "non è un genere adatto" oppure "non abbiamo il pubblico per te". Cazzate. Soltanto cazzate. Ma Gianluca si era organizzato. Perché ci sono persone che dopo certe mazzate tremende non si rialzerebbero, si arrenderebbero, se non fosse che le voglie, i sogni, fanno un po' il cazzo che gli pare. Perché ci sono persone che dopo certe mazzate tremende non si rialzerebbero, si arrenderebbero, se non fosse che la testa è dura, troppo. Con la bocca distrutta, piegati in due, vomiterebbero pure il midollo osseo, perché sono deboli, femminucce, implorerebbero perdono piagnucolando, si lascerebbero andare, getterebbero la spugna, ma c'è qualcosa, una forza, che proprio non vuole farli smettere. E non è orgoglio eh, sia chiaro: è che proprio non ce la si fa. Come si dice? La carne è debole, ma l'anima si sfonda di film su Rocky Balboa. E allora, queste tipo di persone, pure con la bocca distrutta, le gambe sporche di sangue, dopo una fetente mazziata, stanno lì a salire scale su scale su scale, manco faticassero per un'impresa di pulizie. È un fottuto problema questo, ma ci si convive. Gianluca si era organizzato, vi dicevo. Certo, ne era consapevole fosse un palliativo, ma comunque un modus expremendi necessario, per non dire basta definitivamente. Perché ci sono persone che, messe contro a un muro, con la bocca distrutta, nonostante vorrebbero vomitare pure il midollo osseo e si arrenderebbero se non fosse che la testa fa il cazzo che gli pare, trovano sempre una soluzione per resistere. Gianluca si era messo a suonare per strada. Aveva deciso di essere l'artista che voleva. Libero. Come voleva, quando e perché. Non veniva snobbato da certi locali organizzatori blablablà, perché semplicemente aveva smesso di contattarli. Tanto sarebbe stato uguale. Faceva quello che voleva e le persone si fermavano, ascoltavano, apprezzavano, domandavano. Si divertiva, ed era contento. "[...] poi noi facciamo ogni tanto una pausa, cioè inizi tipo le 7 come aperitivo, poi fai una pausetta intorno alle 8 e riparti fino alle dieci e mezza che dopo mettiamo un po' di dj set, capisci a me, il drink, la uagliuncella, e ti spari la posa pure tu[...] ". E pensa che gli avevano detto che era un locale diverso, fatto da ragazzi diversi, che avrebbero apprezzato la sua musica e lo avevano pure convinto a mandare email e contro email con video, link, siti contatti. "Avranno cambiato nuovamente gestione forse. Questo locale non è mai stato fortunato. Chiude e riapre spesso senza mai accocchiare nulla di buono. Ma chi se ne fotte", pensò Gianluca. "Io mo me ne vado da qua dentro così come sono entrato. Voglio solo capire dove vuole arrivare". "[...] ah, ma alla fine, che canzoni fai? Ah mmm no no, noi inediti non ne facciamo. Scusami se ti ho fatto perdere tempo, ciao."
Le cose belle devono essere raccontate, devono passare di bocca in bocca.
Mettetevela bene in testa, questa cosa, che è importante. Ce lo insegna la storia. Praticamente, le più belle favole ci sono state tramandate con il passa parola. Cioè, vi rendete conto che, senza l'entusiasmo del raccontare, la curiosità dell'ascoltare, l'ardore nell'emulare, non avremmo avuto l'Iliade, l'Odissea, il Decamerone, Lo cunto de li cunti, Le mille e una notte, per esempio? C'è sempre da imparare dalla storia. Chi lo dice questo? Ce lo dice la storia. Ebbene, questa mattina io ho finalmente conosciuto lo spettacolo di Maurizio Capuano, Animae in San Lorenzo, che si tiene tra il chiostro e la Napoli sotterrata del complesso monumentale della Basilica di San Lorenzo Maggiore. Maria Rosaria Piscitelli, amica e giornalista, mi aveva praticamente stolcherato, parlandomi di questo spettacolo, mattina, pomeriggio, sera, notte, sempre. - E' bellissimo, devi andarci. Anche lei, come me, quando conosce qualcosa che la entusiasma deve categoricamente presentarla a tutti. E bene fa. Ve l'ho detto, ve lo dico da sempre. Si può raccontare. Si deve raccontare. E d'altronde, Maurizio Capuano è un artista bravissimo, oltre che un amico con cui ho avuto il piacere di dividere il palco e la scena qualche volta in questa vita. Quindi, fesso io che ancora non c'ero stato. Innanzitutto, va spiegato cos'è Animae in San Lorenzo: una meravigliosa visita guidata sui generis alla scoperta di Napoli sotterrata. [Che cos'è Napoli Sotterrata: in termini magici, un luogo fantastico, dove i secoli si sono uniti, fusi, staccati, riuniti, accavallati gli uni sopra gli altri per darci la possibilità di arrecreare letteralmente le meningi e l'anima; in termini concreti, a circa dieci metri sotto la Basilica di San Lorenzo Maggiore, è possibile ritornare indietro nel tempo, ai tempi del Foro di Neapolis, dove tra, Cardini e Decumani, era fiorente uno dei centri mercantili più intensi dell'antichità.] I ragazzi di Naviganti InVersi, compagnia teatrale e associazione culturale, hanno messo su un vero e proprio spettacolo teatrale, ridando vita alle anime di importanti personaggi storici del passato: Masaniello, Cosimo Fanzago, Boccaccio, Fiammetta, Gianbattista della Porta, Nerone, Poppea, Fedro, Augusto e Giovenale varcano i confini spazio temporali dell'esistenza, della morte e tornano a giocare con i vivi, tra satira e parodie, per condurci - scherzando ridendo riflettendo - verso una rilassante riscoperta non solo del sottosuolo napoletano, ma soprattutto della bellezza dimenticata. E così la metafora, il parallelismo, è dietro l'angolo. Percorso fisico, spirituale, mentale. E così - ad esempio -, in un vecchio mercato del pesce di una Napoli tra il I secolo a.C e il V d. C, puoi incontrare Giovenale, Fedro, l'imperatore Augusto e Nerone mentre discutono di storia, di letteratura, di omosessualità, di immigrazione, o di come "hanno scopiazzato", ad perpetua rei memoriam, le favole ad Esopo. Temi di tempi passati, temi dei tempi nostri. Cambiano le strutture, Cardini e Decumani puoi chiamarli Via dei Tribunali e San Gregorio Armeno, cambiano le abitudini, ma i problemi dell'uomo restano quasi sempre gli stessi. "Viva il Re di Spagna, abbasso il mal governo. Il Re di Spagna non c'è più, ma a quanto pare, il mal governo gode ancora di ottima salute", recita Masaniello. E basta, dovete andarci, esserci, sentirlo. Non posso sempre anticiparvi tutto io. Fate come ho fatto io, dopo che Maria Rosaria mi ha letteralmente positivamente tempestato di "Ehi, devi andare a vedere Animae in San Lorenzo". Ascoltate, vedete, raccontate. Perché, a parte tutta la retorica che si possa fare, l'arte-conoscenza davvero trionfa sempre. Su tutto.È passato, presente e futuro. "L'arte rende liberi, non la violenza", come dice Maurizio Capuano, avatar dello spirito di Cosimo Fanzago. E non è un caso se, Capuano & Friends abbiano mandato in tilt le recensioni su TripAdvisor e abbiano attirato, soprattutto nelle ultime settimane, migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo. Uno spettacolo unico che, come dicevo nel titolo, ti mette un po' in pace con la tua terra, che troppo spesso fa di tutto per farsi odiare ma che - è giusto ricordarselo - è fatta anche e soprattutto di questo: di storia sì, ma anche di giovani, di presente, di capuzzelle belle, libere, appassionate, ai quali, non solo faccio l'ennesimo applauso, ma porgo i miei più sinceri ringraziamenti perché mi sono divertito, ma soprattutto emozionato. P.s. Per visitare il sito e vedere lo spettacolo il costo di ingresso è di soli 10 €. L'unica pecca è questa: che su 10 € solo 1€ va alla compagnia che, per la bellezza, la cura nei dettagli, la dedizione, la bravura eccetera eccetera meriterebbe un tantinello in più. P.s. 2 Gli attori e i personaggi: Romina Stranzullo ( sostituta di Ursula Muscetta): Fiammetta e Poppea; Gianni Galepro: Giambattista della Porta e Augusto; Emanuele Iovino: Masaniello e Fedro; Aurelio De Matteis: Boccaccio e Giovenale. Animae in San Lorenzo Posted by Naviganti InVersi on Giovedì 17 dicembre 2015 C'era una volta. La fiaba, anzi no, una favola, anzi un po' l'una e un po' l'altra di Casaperpochi.6/1/2016 C'era una volta una fiaba, anzi no, una favola, anzi un po' l'una e un po' l'altra. In questa fiaba, anzi no, una favola, anzi un po' l'una e un po' l'altra, c'erano orchi, principi, orsi, lupi, conigli, piecori, cavolfiori transformer, carote rosse e broccoli marroni parlanti. Il posto in cui tutto ciò fioriva, pasceva e schiattava si chiamava Casaperpochi, una contrada del sottobosco a Nord di un Regno che dicevano fosse magico, ma quasi nessuno ci ha creduto mai. Dicevo, c'era una volta una fiaba, anzi no una favola, ma per fare prima la chiameremo fiabola, perché è un po' l'una e un po' l'altra. In questa fiabola, viveva una bambina che proprio non ne voleva sapere di crescere. La bambina si chiamava Fiammina, ma tutti preferivano chiamarla col nomignolo Petrosinella, sia perché Flammina era un nome troppo brutto per pronunciarlo ogni dì, ma anche perché aveva l'abitudine di stare sempre in mezzo ad ogni discussione, come il petrosino in ogni minestra. Per esempio: le donne parlavano del principe e delle sue corteggiatrici? ecco che Petrosinella si intrufolava nella discussione, dicendo la sua. I grandi discutevano del sistema tattico più idoneo tramite cui il battaglione azzurro avrebbe potuto sconfiggere i nemici dalle granate vesti? Ebbene, Petrosinella aveva da ridire sullo schieramento, i condottieri scesi in campo e sulla tenuta del manto erboso. Insomma, era una scassambrella di prima categoria. Avevano provato a non farla interferire, chiudendo portoni, porte e portoncini, ma lei, piccola piccola, riusciva sempre a passare attraverso ogni intercapedine, ogni fessura, ogni bucherello, spesso a cavallo di topi neri neri come la pece. Il padre, un brav'uomo ma un pochino fesso, un po' per risolvere la situazione dei topi, senza uccidere anche la figlia che, spesso, si divertiva in mezzo a loro, un po' perché era preoccupato del fatto che non crescesse neanche di un pollice, un po' per interrompere le sue intromissioni ad libitum nelle discussioni dei grandi, iniziò a tirarla per i capelli e per i piedi sperando che si allungasse. Questo sistema gliel'aveva insegnato una vecchiaccia che, al mercato ortofrutticolo di Casafinita, se ne andava in giro, chissà perché, col culo da fuori, a raccontare metodi omeopatici e affini per curare le defezioni del corpo e dell'anima. La vecchia era brutta come uno scarafaggio, come il cesso pubblico in cui ci ha appena cacato un elefante incantato e infestato dalla dissenteria, brutta come un brufolo incallitosi nel naso accatarrato, brutta come la bocca verde di un orco unto e bisunto, brutta come la zozzimma delle orecchie di un porco. Eppure, il padre ebbe il coraggio di tenere alto lo sguardo, di guardala in faccia e, ascoltandola, annuendo, si convinse che, quella da lei consigliata, fosse l'unica soluzione umanamente possibile. Ci fu chi provò a dissuaderlo, ma si sa, l'ignoranza è una bestia più brutta di qualsiasi orco malefico puzzolente scorreggione che vota Forza Oscura, alle elezioni per la salita al trono del Re Pesciolone. Ad ogni modo, messa su un torchio, il padre fesso iniziò a girare la manovella. La bambina iniziò a gridare come una vacca sgozzata lentamente con un temperino svizzero, e le ossa cominciarono a scricchiolare, i tendini a sfilacciarsi, i capelli a strapparsi. Petrosinella gridava bestemmie, lanciava preghiere, spruzzava lacrime amare, chiedeva, quasi ululando, perché il padre le facesse un torto così grande, cosa avesse fatto di male. Lei che era sempre stata una brava bambina, che aveva sempre aiutato in casa, proprio lei, che aveva sempre mangiato poco per mettere da parte il cibo e far crescere, con le mollichelle, la sorella malata di un'amica che viveva in una fattoria abbandonata di Casaperpochi. Il padre non poté sentire la storia commovente raccontata da Petrosinella, a causa del rumore del torchio e, anzi, continuava lentamente a girare la manovella, pensando che la moglie, buon anima, pace all'anima sua, morta sotto un albero parlante che si addormentò proprio su di lei, sarebbe stata contenta di lui e del suo arguto ingegno. Dopo un po', la bambina non riuscì più a sostenere le grida e l'anima sua, per dimenticare il suono abominevole del torchio e del dolore, andò a farsi un giro fuori dalle sue carnicciuole belle. Il padre, accortosi finalmente, di cosa aveva combinato, imprecò contro la vecchiaccia del mercato, e iniziò a piangere, disperandosi per ciò che aveva fatto alla sua Petrosinella. Fortunatamente, per caso, o per provvidenza, lì intorno si trovarono a passare tre vecchiette che avevano sentito tutta la storia gridata dalla sventurata Petrosinella e, commosse che quasi quasi gli occhi scappavano via dalle loro vetrinelle belle, tanto erano state oleate dalla tristezza, con una fatagione, un sortilegio, un tocco di furbizia, fecero rientrare l'anima scostumatella nel corpo della figlia che riprese colore e, sorridendo, corse verso il padre, abbracciandoselo tutto. Così, felici e contenti, se ne tornarono alla vita di tutti i giorni, dimostrando che è vero quel detto che dice: dio dà il pane a chi non ha i denti.
L'ho scritto e qualcuno mi ha risposto cose tipo "Tranquillo, sei perfettamente ricambiato", dando per scontato che io l'abbia scritto come pensiero vero, da paladino dell'odio tinto nell'invidia a prescindere verso l'altro, e non come risposta stantia, già sentita, ironica ad un modo cristiano di fare: a Natale siamo tutti buoni, mentre gli altri trecento giorni e rotti ci comportiamo da luridi pezzi di merda.
Lo hanno dato per scontato, ma ci può stare. Sul web va così. Non è assolutamente un problema. Il fatto è che, nessuno, se non io, potrà mai confermarvi se davvero intendessi che vi schifo tutti proprio assai, oppure no. Perché la fonte va sempre controllata, non a valle, ma appunto all'origine. A valle vi trovate tutta la melma dei mi è parso, mi hanno detto, ho sentito dire, non c'ero ma so per certo che. Cioè sapere quello che è successo dal diretto interessato è fondamentale. Quello che passa nella testa del diretto interessato è fondamentale. Uno fa una strage e si dà la colpa al fatto che vendeva i cd falsi sul rettifilo o che era solito tirare tre quattro jastemme alla moglie perché non gli cucinava mai la pasta e fagioli con la pasta ammiscata, ma sempre con i tubbettielli, quando, in realtà chissà che gli passava per la testa. Tipo come ne Lo straniero di Camus. Per esempio. O forse non c'entra niente. Però, leggetevelo Camus, che è bello. Però, ripeto, chissenefrega. Fondamentalmente potrei schifarvi comunque tutti indistintamente e tranquillamente accettare di essere ricambiato. Perché si sa, ad ogni azione ne corrisponde un'altra uguale e contraria, o almeno così dicono. E quindi, sapendolo, ricambia in automatico. Cioè, io potrei schifarvi solo per paura che qualcuno già mi schifi e allora, a mo' di difesa apotropaica, vi schifo pure io. Che non si può mai sapere. La miglior difesa è sempre stato l'attacco. Sono Zemaniano convinto io. Oppure no, non è vero nulla. Non schifo a nessuno. Sono un buono. Un nuovo Messia volto a porgere sempre l'altra guancia e, di tanto in tanto, quarti di natica, a chiunque faccia il simpatico, l'artista borghese, col suo libro di Erri De Luca sotto al braccio, la chitarra sulla spalla e il portafoglio di papà in tasca, incatenato al passante della cinta con la catenella. Sì, vi amo tutti, ma proprio tutti. Prima e dopo i pasti natalizi. Come un medicinale da prendere per via orale. Pillole grosse così per tenere chiusa la bocca. Non lo saprete mai. Ma se vi siete fermati all'apparenza, nemmeno vi fregherà di sapere se davvero vi schifi tutti quanti, indistintamente, senza fare la differenza tra gli stronzi e i buoni. Perché non si può odiarvi tutti. Siete troppi. Ci vuole troppo una forza di volontà che non ho. Sono pigro io per mettermi ad odiarvi tutti quanti. A qualcuno bisognerà pur voler bene. Qualcuno che non siano i propri genitori, ai quali va spesso il nostro amore incondizionato e corrisposto, ci sarà pure. Qualcuno che si comporta come un cristiano, e al quale augurare Buona fine e inizio anno ci deve essere, per forza. Mentre ci penso, vi auguro indistintamente a tutti, con la gioia nel cuore, per lo stesso principio di cui sopra, e cioè che ad ogni azione ce n'è un'altra uguale e contraria, di fare un 2016 fortunatissimo. Che non si può mai sapere. O no? Dopo La nobile arte di misurarsi la palla e Stronzology mi ero ripromesso di non fare più recensioni ai libri di De Silva. Non per qualcosa, eh, ma qua a finire che qualcuno pensa che me ne sono innamorato e allora farebbe bene a gridarmi “recchiòòòò”. Il fatto è che questo libro arriva nel momento del bisogno. Ecco perché la fotografia qui sopra? No, no. Sono solo un idiota e in quanto idiota mi comporto da idiota. “Degenerati - il metodo Cyrano per salvarsi la vita in un mondo di idioti” l’ho praticamente finito di leggere questa mattina, sul cesso, in un albergo di Salierne, del quale si intravedono le mattonelle del pavimento, e, adesso, a caldo, tornato a casa mia, a Napule, ho deciso di parlarvene. Perché vi dico questo? Perché è così che mi piace comunicare qui sopra. Devo darvi le mie prime impressioni, mettendoci tutto quello che mi passa per la capa, più o meno di getto, mescolandolo con le emozioni, le mie, quelle che mi fanno alluccare uà che bello. Di questo libro ne avevo bisogno, anche se non lo sapevo. Per farvi capire, sono giorni - anche prima in macchina, praticamente in loop - che ascolto Keep on Movin’ di Pino Daniele. La canto sempre di gola, fuori dalla mia tonalità, ma con la lacrima che mi scende per forza. Accennandovela, farò un lavoro che farà contento gli amanti delle comparazioni: A trent'anni nun può capì' e vulisse nun munno onesto ma te diceno sempe 'o stesso 'ncoppa 'e sorde 'a gente nun guarda 'nfaccia a nisciuno E a trent'anni nun può capì' 'e canzone te fanno fesso votta 'ncuorpo senza sentì' s'addeventa malamente e quacche vota onesto. Sarà che mi avvicino ai trenta, sarà che a sentire chi “dice sempe ‘o stesso” non ce la faccio più dei “a botta’ ncurpo senza sentì", non lo so, ma quest'è. De Silva riassume quello che ho dentro da giorni, forse da mesi, o anche da sempre. E lo fa con stile, dosando ogni parola, ogni suo pensiero, facendo esempi a iosa, esempi storici, culturali, antropologici. Lo fa prendendoti a schiaffi. Paccheri fatti col cuore, sia chiaro. Perché Amlo, prima, a mano aperta, ti vuole spingere a guardare di lato, poi, con la mano a smerza, ti mostra anche l’altra prospettiva. Il succo è che non si può procedere avanti, con i paraocchi, come i cavalli, o peggio, come un degenerato. Amlo, nel suo vademecum anti-degenerati, in uno stile fatto suo già in Stronzology, cerca di mostrarti lo stato di decomposizione generazionale specificando che, il suo, non è un rimpiangere a capocchia il passato perché si stava meglio quando si stava peggio. No, rimpiange semplicemente l'intelligenza perduta. Ma ora, come farebbe a un certo punto un buon recensore per dare una sterzata al fattariello che si sta raccontando, è il momento di chiedersi chi sono i degenerati? Per spiegarlo, bisognerebbe prima introdurre il concetto di degenerazione; a pagina 82 Amlo scrive: “ è come per la musica: il fatto che adesso si ascolti in mp3, un formato compresso di qualità a dir poco scarsa, e attraverso le asse del pc o dalle cuffiette del cellulare, non è progresso, è degenerazione. Progresso sarebbe, invece, ascoltarla in qualità superiore e più comodamente; ma se dici una cosa del genere sei un vecchio rottame che rimpiange i calepini e i tabarin con le sigaraje”. Essere degenerati è accettare tutto questo e arrabbiarsi se qualcuno prova a mostrarci una prospettiva alternativa che, al 99,99 % è decisamente la migliore o, per dirla alla Amlo, più conveniente. A pagina 75: “A un certo punto a tutti è parso, come era successo per il sapersi vendere, che scendere a compromessi fosse una cosa buona a prescindere. A prescindere da ciò che ti toccava fare per scendere, appunto, a compromessi. […] Però, a un certo punto, l’arte del compromesso, intesa come cedere una generosa fetta di culo al potente di turno, che peraltro non ne ha nemmeno bisogno, è diventata obbligatoria e, il che è anche peggio, di moda: perché una cosa è se ti obbligano i bravi di Don Rodrigo, che quelli sono armati e incazzassi, un’altra e se ti fai condizionare dallo sguardo di disapprovazione della vicina di casa”. E poi a pagina 83: “ La dittatura delle parole ha un motivo preciso: funziona, eccome. Dopo un po’ la gente ci crede e comincia a ripetere a pappagallo, e anzi aggredisce chi non accetta il nuovo significato imbastardito […]”. De Silva non esclude quindi il compromesso. L'importante è che, il compromesso, ci sia. Altrimenti, se cali il capo senza trarre giovamento, di fatto, giustamente, il compromesso non c'è. E quindi, non conviene. De Silva è furbo. Non dice chiaramente che si è fessi ad accettare certi compromessi, o meglio lo dice, ma preferisce, di gran lunga, prendervi con le buone, quasi per culo, quasi con gentilezza, facendovi notare - come dice a pagina 119 - che, fondamentalmente, "chinare la testa e ottenere dei vantaggi non è una cosa che va bene a chi finge, è una cosa, invece, che riesce a chi è. La favola del se abbassi la testa andrà tutto bene, è appunto, una favola, che in genere vi racconta chi la testa non la alzerebbe mai". Tutto questo perché - e qui mi ripeto - il compromesso senza compromesso praticamente non è un compromesso. A che serve? Adattarsi a prescindere è fuori luogo, anacronistico, inopportuno. Non c'è vittoria nel compromesso del 2015. Anzi, si finisce cornuti e mazziati. Come ne Il paradosso Van Houten, a capitolo 17. Capitolo che non vi racconto, altrimenti che diamine ve lo leggete a fare il libro se vi sinosseggio tutto quanto? Vi dico solo che, come in Stronzology, anche qui De Silva ama trarre esempi da I Simpsons. Van Houten, infatti, è il piccolo Milhouse, l'amico di Bart, quello con gli occhiali e i capelli blu. Ma torniamo ai degenerati. A questo punto, chi è il degenerato? Il degenerato è quello che si adegua o, peggio ancora, si sente a suo agio, o peggio, trova normale un sistema che vede strapagati e acclamati coppie di coglioni che stanno su dei troni a far finta di corteggiarsi, mentre c'è gente con lauree e pubblicazioni, capuzzelle davvero brillanti, costretta a sgobbare in un centro commerciale, circondata da stronzi e degenerati, e tutto ciò per pochi euro, il giusto per mettere il piatto a tavola; il degenerato è chi arriva al punto di convincersi che studiare non è affatto importante, che è inutile seguire le proprie inclinazioni e che era meglio se ti imparavi zappatore. Ci stanno riuscendo sul serio a convincerci di questo, rendendo difficile anche fare un semplice esame all'Università, nonluogo anche questo pieno zeppo di stronzi e degenerati. Categorie umane simili, ma che non vanno per nulla confuse tra loro. Un degenerato è sì stronzo nel suo volerti trascinare verso il basso, provando a distruggerti dentro e fuori, ma non è detto che uno Stronzo sia per forza un degenerato. [P.s. Nulla contro gli zappatori, per carità, ma se uno nasce cucuzziello non muore roccocò]; il degenerato è chi sbraita contro un ragazzino che fa un cazzo di gol e si mette ad esultare per la felicità; Ovviamente, questo è un elenco di esempi tutto mio, preso random dal mio flusso di coscienza che cerca di sintetizzare, a suo modo. Ora, qual è la soluzione? Perché deve esserci un metodo per salvarsi da tutto questo schifo, o no? Amlo ce lo dice senza mezzi termini. Bisogna comportarsi da guascone, tenere il capo aizzato, nonostante tutto, toccare con la nostra spada "Compromessi, Pregiudizi, la Viltà e la Stoltezza", proprio come fa Cyrano De Bergerac: Io so che alfine sarò da voi disfatto; ma non monta: io mi batto, io mi batto, io mi batto". [Cyrano De Bergerac - Edmond Rostand ] Ed ecco il mio "mi batto", il mio Keep On Movin di Pino Daniele che, letteralmente, significa continua a muoverti, che fa il 'pari' con il "Dall 'nfacc senza te ferma' di A me me piace 'o blues. Ne l'ipotesi della Regina Rossa ( cito da "Wikipedia") "in riferimento ad un sistema evolutivo, un continuo miglioramento dell'adattamento è necessario per le specie anche solo per mantenere l’adattamento relativo all’ambiente in cui esso si è evoluto ed evolve". Insomma, se si vuole migliorare e/o resistere e/o evolversi per non degenerare, bisogna continuare a muoversi, come dice la Regina Rossa ad Alice in Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Caroll, dal quale è appunto tratto il concetto scientifico: « Ora, in questo luogo, come puoi vedere, ci vuole tutta la velocità di cui si dispone se si vuole rimanere nello stesso posto; se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce di così! » [Il parallelismo mi è stato offerto gentilmente da Michael Crichton, autore di Jurassik Park e L'origine perduta, testo nel quale ho per l'appunto scoperto il concetto "dell'ipotesi della regina rossa" ]. Correre, lottare, nonostante tutto, nonostante o grazie a un naso brutto, bruttissimo; lottare nonostante la povertà. Difendersi con orgoglio e intelligenza, proprio come Cyrano. Perché Amlo ci tiene molto a questa cosa, e ci insiste su, lo ripete senza mai stancarsi: a resistere, non si è mai perdenti, al massimo vinti, ma mai perdenti. Ora, il mio consiglio è di leggervelo Cyrano De Bergerac (traduzione di Giobbe, come consiglia Amlo a più riprese. Amore verso il traduttore che si mostra in maniera commovente lungo tutto il testo), altrimenti non potrete capire Degenerati; ma anche perché Amlo ve lo spoilera tutto quanto. E a buon motivo. Degenerati è sì un una guida su come difendersi dagli idioti ma è, certamente, anche una critica, una guida alla lettura, al Cyrano di Rostand. Una sua interpretazione dei fatti che, a mio avviso, è perfetta. Una chiave di lettura illuminante. Ma vi ho sintetizzato il massimo che mi veniva da sintetizzare, mettendoci - lo ripeto - anche un po' di me, perché a me è così che piace fare. Amlo ha suscitato in me delle emozioni, risate, incazzature, e volevo raccontarvelo così. Così come sono, degenerato a modo mio, degenerato al punto da farmi una foto sul cesso, a Salierne. Degenerato al punto da farmi un'ora di macchina ascoltando Pino Daniele in loop, urlandomi keep on movin' per chi non si stancherà, e correre a scrivere questa mia recensione degenerata, a modo mio. Complimenti a LiberAria, casa editrice indipendente, che offre ad Amleto De Silva la possibilità di fare uno dei suoi aulici, intellettuali e potenti cazziatoni al genere umano in fase di decomposizione. E soprattutto Grazie ad Amleto per la sua commovente passione verso ciò che fa. In un mondo non degenerato, De Silva sarebbe costretto ad insegnare non dico in Università, ma almeno nelle scuole. E sarebbe il maestro perfetto, di quelli che insegna non per mestiere, ma per indole. Per passione. Lettera a Babbo Natale di un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni.21/12/2015 Allora, caro one man show della Coca Cola s.r.l., qui tutti stanno a farti la letterina di Natale e ho pensato, visto che qui nessuno si applica in qualcosa di originale, perché non fartela anche io?
Lo so, sono in ritardo, mancano solo 4 giorni a Natale, però, nientedimeno, pure con Amazon, se faccio un ordine oggi, mi arriva tutto (o quasi) antro il 25: Quindi, tu, se non vuoi perdere il posto, devi per forza darti da fare. Ad ogni modo, lo sai che ho creduto a Babbo Natale almeno fino alla quinta elementare? Da come sono cresciuto, qualche maligno direbbe "e si vede"! Cioè, non è che ci credessi ancora eh. Sapevo bene che non esistessi. Sai, a quella età i bambini sono crudeli, crudelissimi. Se sanno qualcosa, devono a tutti i costi dirtela. Per saccenza e crudeltà. Quindi, sapevo tutto. E già da molto tempo. Sapevo bene che non eri altro una fottuta invenzione, e che non potessi avere tutta quella gente a lavorare per te come sosia sostituto durante le fotografie nei centri commerciali. Nessuno si metterebbe ad assumere tutto quel personale, tra stipendi, tasse, doppie, contributi eccetera eccetera. Lo sapevo bene. Però facevo il fesso per non andare in guerra. Pensavo, come tanti altri bambini: " e se ora che so tutto, non mi faranno più i regali"? Ad ogni modo, era facile capire che non esistessi. A parte il fatto delle assunzioni - a pensarci poco esose, perché di fatto sono contratti brevi a prestazione (dal 1 al 25 dicembre) - , non è normale essere così chiatti senza avere problemi renali, cardiovascolari, posturali, alimentari e riuscire, ciononostante, a girare il globo in una notte sola. E poi, dai, pure tu, la storia delle renne volanti è insensata oltre che stupida: come si fa a credere che delle bestie riescano a trascinare slitta, il tuo pancione e un sacco pieno zeppo di regali di numero infinito, senza che nessun animalista ti venga a rompere i coglioni con denunce per maltrattamento degli animali? Impossibile. Ad ogni modo, a 27 anni, faccio finta di crederci e ti faccio questa letterina, sperando da te il funzioni bene il router, non come a casa mia che, da quando abbiamo messo Telecom, non si capisce più un jingle bells. Caro Babbo Natale, innanzitutto fa che la Telecom risolva i suoi problemi e si degni di darci un servizio dignitoso, così possa condividere quanto prima questa lettera con i miei lettori. Dopodiché, fa che Putin e Obama non si appiccichino mai, che qui teniamo altro a cui pensare, e non possiamo stare dietro alle loro cerevelle. Fa pure in modo che, laggiù, in medioriente, si trovi una soluzione. Quale? E non lo so, sei tu il mago in queste cose. Fa presto però, che sennò, quei due di cui sopra non ci mettono niente a trovare una scusa a volo a volo per darsele di santa ragione. Sai, può darsi che quest'anno il Napoli vinca lo scudetto, ed io vorrei poterlo vedere, caro Babbo di rosso vestito. Lo so, queste sono preghiere che un occidentale, cresciuto in una cultura cristiana, dovrebbe rivolgere a Dio o a Gesù Cristo, ma ho fatto la conta e, dopo un pari e dispari, tra i personaggi della fantasia, hai vinto tu. No, no. Per carità. Ci credo in Dio, sì. Io sì, a modo mio, ma sì. Non è ancora venuto nessun bambino adulto crudele e saccente capace di convincermi che siamo solo frutto di una coincidenza del cosmo, un bing bang esagerato che ha rotto il profilattico sulla via lattea. In Gesù, però, non lo so; è una personalità che non mi convince. Questa storia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, delle passeggiate sull'acqua e di questo amore sconfinato verso il prossimo, sempre e comunque, da porgere guance come se non ci fosse un domani, mi sa tanto di canzone scritta da Jovanotti. E poi, Ok figlio di Dio, ma ha pur sempre avuto sangue umano, ed io negli uomini ci ho sempre creduto poco. Comunque, tornando a te, Caro Babbo Natale, vorrei che la gente la smettesse di dire che ho fatto la pancia, che dovrei trovarmi un lavoro serio e togliermi gli orecchini, che dovrei sposarmi e fare dei figli, che mi dice come dovrei scrivere le mie canzoni e le mie storie. Però, visto che - secondo me - è impossibile zittirli a suon di buon senso e logici fatti i cazzi tuoi, sterminali tutti direttamente, così facciamo prima; e lasciami solo con quelle 10 12 persone con cui condividerei questo pezzo di mondo. Quindi, a pensarci, caso mai, lascia che Putin e Obama se la vedano tra loro. Scherzo, scherzo. Peace & Love for ever. Voglio fare il simpatico a tutti i costi. Lo so che non ci riesco, non ne sono capace; è che non mi viene facile dire porta la pace nel mondo o fa che tutte le persone buone e quelle amo stiano sempre bene. Cioè, a scrivere una cosa simile rischierei una denuncia per plagio da Jovanotti. [- Ce l'hai proprio con Jovanotti? - No, dai, scherzo, è un bravo ragazzo. Peccato si sia messo in testa di scrivere le canzoni. - Però dai, c'è di peggio. - Tipo? - Laura Pausini.] Caro Babbo Natale, vorrei avere qualcosa da chiederti ma, fondamentalmente non so proprio che dirti. Le cose che voglio devo sudarmele giorno dopo giorno e, stare qui a chiederti di esprimere desideri è inutile. Questa fa il pari con quella fatta a Mattarella. Anche in quel caso scrissi un papiello di roba senza però sapere dove voler apparare. In fondo, cosa potrebbe chiedere, potesse esprimere desideri esaudibili, un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni, in un'epoca in cui nulla è certo, se non che domani mattina tua un povero cristo correrà più veloce di un'altra povera crista per portare un caffè a una Maria De Filippi qualsiasi, per compiacersela? Certo, esistessi sul serio, penserei di chiederti, per esempio, più sicurezza e di essere meno ipocondriaco, ma mi risponderesti che, più di te, farebbe meglio uno psicologo, uno bravo. Quindi, Caro Babbo Natale, ti chiedo solo una cosa, che tu esista oppure no: facci passare a tutti quanti un Natale come si deve e, soprattutto, fa iniziare l'anno nuovo meglio di come hai fatto iniziare il 2015, che quest'anno ci ha rotto un po' le palle. Con affetto e devozione, un giovane, anzi un uomo che una volta era giovane, di 27 anni. Buon Natale a tutti. Il Gallo Canterino. |
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